Costantino IX Monomaco

“Rovina e desolazione della basileia dei Romani”. In questi termini Cecaumeno, l’autore dello Strategikon, si riferiva al governo di Costantino Monomaco pochi anni dopo la sua scomparsa, e colui che tanto godette del favore del basileus, il brillante ma perfido Michele Psello, di Costantino IX scriveva che “prendendosi poche cure ma in compenso moltissimi diletti e godimenti, fu all’origine di più d’un focolaio d’infezione per il corpo ancora sano dell’Impero ”.Giudizi taglienti e pesanti nel passato, ma ancora più drastico è il giudizio che la storiografia generalmente riserva alla figura del Monomaco, liquidato come il debole sovrano sotto il quale si consumò il grande Scisma d’Oriente, tanto gravido di sciagure per il futuro dell’Impero. Vedremo che senz’altro molte furono le ombre, ma non così tante da oscurare del tutto una figura tutt’altro che priva di luci

Terze nozze, il trono.

Cacciata da Palazzo la porfirogenita Zoe, Michele V Calafato ebbe ben poco tempo per godersi l’illusione del potere: già due giorni dopo, il 20 di Aprile del 1042, veniva tratto a forza dalla folla inferocita da quel monastero di Studio dove aveva disperatamente cercato rifugio, privato della vista ed esiliato. La corona imperiale venne affidata alla porfirogenita Teodora, figlia del grande Basilio, ed essa volle dividerla con la sorella Zoe, reintegrata nei suoi diritti dinastici.
Ben presto tuttavia ci si rese conto della inadeguatezza di tale situazione e Zoe, non certo di malavoglia, si preparò a scegliere, nuovamente, un consorte sul cui capo posare la corona imperiale. I candidati non mancavano, e ben graditi al Senato costantinopolitano: uno era il nobile Costantino Dalasseno, presto scartato per la sua eccessiva indipendenza; un altro era l’altrettanto nobile Costantino Artoclite, tuttavia ben presto scomparso, pare, secondo le male lingue, grazie al veleno propinatogli dalla sposa, timorosa di far la stessa fine della povera moglie di Romano Argiro. Infine la scelta definitiva cadde su Costantino Monomaco, brillante ed affascinante senatore quarantenne, perfetto rappresentante della nobiltà burocratica della capitale: l’11 Giugno del 1042 la sessantaquattrenne Zoe si unì in matrimonio nella nea Ekklesia con il ben più giovane Costantino, il quale il giorno dopo venne incoronato. Entrambi erano alle terze nozze, tuttavia ciò non impedì al Patriarca Alessio Studita di benedire l’unione, sebbene preferendo non presenziare alla cerimonia.

Il nuovo basileus, giunto al trono grazie all’attempata porfirogenita, era un bell’uomo, elegante, sofisticato, ricco, dal carattere espansivo ed in fondo abbastanza leggero, faceto e scherzoso, allegro, di buona eloquenza ma non particolarmente colto. Di nobile famiglia originaria o della Città o di Rodi , giunta ai vertici dello stato in età macedone ed appartenente all’aristocrazia burocratica della Capitale, Costantino ebbe a patire giovanissimo l’ostracismo deciso dal Bulgaroctono quando il padre, Teodoro, venne accusato di complottare contro la persona dell’Imperatore, ma trascorsi i regni di Basilio II e Costantino VIII riuscì a rientrare a corte, grazie ad una abile unione matrimoniale che legò il giovane, già vedovo di una ragazza di nobile famiglia ma presto scomparsa per malattia, alla famiglia imperiale, in virtù delle nozze con Maria, figlia di Basilio Sclero e di Pulcheria, sorella di Romano III Argiro. Favore che non durò a lungo, poiché le epurazioni attuate da Michele IV Paflagone e dall’Orfanotrofo colpirono anche il Monomaco, esiliato nel 1035 a Mitilene, Lesbo, punizione confermata da Michele V ed alla quale, sempre secondo le solite male lingue, non era estranea una certa eccessiva confidenza tra il gaudente nobile e l’esuberante Imperatrice.
Se Zoe non scordò Costantino, costui a Lesbo ebbe modo di consolarsi dell’esilio ed anche della perdita della seconda moglie tra le braccia di Maria Sclerena, pronipote di Barda Sclero e, dunque, pure lei in disgrazia presso la corte imperiale: l’ipotesi di giungere ad un terzo matrimonio al momento per Costantino parve impossibile, tanto più che la Sclerena era nipote di colei che l’aveva appena lasciato vedovo, ma tale situazione non impedì affatto una relazione che la fine dell’esilio, l’unione con Zoe e l’ascesa al trono non interruppero affatto. L’Imperatore dapprima agì con cautela, ma ben presto, richiamata l’amante a Costantinopoli, perse ogni ritegno e, con la compiacenza della stessa sposa, la introdusse a Palazzo, le diede onori regali e la insignì persino del titolo di Sebaste. La morte della ancor giovane Sclerena, intorno al 1045, abbatté profondamente Costantino, che la fece seppellire in quel monastero di San Giorgio dei Mangani che stava rifondando, ma l’ineffabile basileus ebbe modo di superare il lutto consolandosi con una bella principessa alana, cui andò in eredità il titolo di Sebaste già della Sclerena. La quale, nella sua permanenza a Palazzo, non era stata del tutto estranea a vicende che turbarono profondamente il regno del Monomaco.

Tempo di rivolte. Maniace e Tornicio.

Nonostante le feroci lotte che ne avevano caratterizzato la prima parte del regno, la forte personalità di Basilio aveva assicurato una stabilità tale da rafforzare notevolmente, anche grazie a un grande sentimento di attaccamento popolare alla dinastia macedone, l’autorità imperiale nelle forme che Bisanzio ben conosceva e aveva sviluppato nei secoli. Gli anni successivi alla sua scomparsa, tuttavia, videro una rapida erosione, politica ed ideologica, della figura imperiale e delle prerogative ad essa legate, anche e soprattutto in virtù dello sviluppo e della crescita di nuove classi dirigenti, in favore di altre strutture statuali: “il basileus è persona giuridica con dei doveri oltre che con dei diritti, ma soprattutto è limitato ideologicamente dalla prerogativa della Chiesa di interpretare e mediare il nomos divino ”, aspetto che verrà trattato in seguito. Il sempre più evidente indebolimento dell’autorità imperiale ebbe quale naturale reazione, dopo decenni di sostanziale stabilità, la comparsa di complotti e di ribellioni, e gli anni di Costantino IX ne videro –segnale funesto ma inascoltato- un buon numero. Il primo, ben presto, fu quello di Giorgio Maniace.
Generale capace ma imprevedibile e difficile da controllare, Maniace, onusto tanto di vittorie quanto di ostilità, nell’aprile del 1042 era stato nuovamente inviato in Italia con lo scopo di ristabilire l’ormai estremamente critica posizione bizantina, ulteriormente compromessa dalla ribellione di Argiro, figlio di Melo, appoggiato dai Normanni, a suo tempo al servizio dell’Impero. Poco mancò che la cura facesse più danni del male, in particolar modo grazie ai piuttosto poco ortodossi trattamenti riservati dal generale a nemici, sottoposti e popolazioni soggette, tuttavia Argiro ritenne di rientrare nei ranghi, e parve che parte dei Normanni stessi potessero appoggiarlo, quando Maniace venne ancora una volta privato del comando e richiamato a Costantinopoli, e sostituito senza tanti complimenti. Ci fu chi sostenne che all’origine di tale provvedimento vi fossero aspri screzi tra lo stratego e Romano Sclero, fratello della Sclerena, possessori di proprietà confinanti in Anatolia, ma più probabilmente la possibilità d’intavolare trattative rendeva ormai eccessivamente ingombrante la figura di Maniace. Il quale, per tutta risposta, nel settembre del 1043 si fece proclamare Imperatore dalle truppe a lui fedeli, lasciò l’Italia e sbarcò a Durazzo, con l’intenzione di marciare sulla Città.  Lo scontro tra il ribelle e le truppe di Costantino IX si svolse l’anno successivo nei pressi di Tessalonica e parve volgere a favore di Maniace, quando la fortuna giunse in aiuto del sovrano legittimo: nel furore della battaglia Giorgio Maniace cadde, dando in tal modo la vittoria a Costantino Monomaco, che tornò a Costantinopoli trionfante con la testa recisa del ribelle.

Pochi anni dopo fu la volta di Leone Tornicio. Secondo cugino dell’Imperatore, di famiglia reale armena ma con interessi a Adrianopoli, un po’ perché ostile a provvedimenti assunti dal governo imperiale nell’appena annessa Armenia, un po’ perché lo si voleva allontanare da Euprepia, sorella del Monomaco, Tornicio venne incaricato del governo della lontana Iberia, in una sorta di camuffato esilio. Quindi, accusato di ribellione, lo si volle costringere al monastero: a quel punto ribelle Leone Tornicio lo divenne realmente. Postosi a capo di una rivolta che faceva leva sul sentimento ostile al centralismo della Capitale proprio di molti macedoni, nel settembre del 1047 decise di marciare su Costantinopoli e la mise in stato di assedio, rintuzzando le sortite degli assediati.  La lentezza delle operazioni tuttavia rese esitante Tornicio, le cui truppe vennero sbaragliate da un ultimo contrattacco imperiale: inseguito, il ribelle si ritirò fino a quando, catturato, venne accecato insieme ai più stretti collaboratori.

A queste, altre congiure, sia pure di minore entità, si susseguirono, chiaro sintomo di un’involuzione politica evidente, seppure non percepita con chiarezza. Anche perché le vittorie sui ribelli si sommavano ad un’apparente prosperità interna e a vistosi successi in politica estera, sia pure segnali di un’instabilità internazionale che avrebbe richiesto un polso ben più deciso di quello del Monomaco e della sua corte.

Ai confini

L’ampliamento dei confini, particolarmente sotto Basilio II, pur aumentando grandemente il prestigio di Bisanzio, aveva esposto fatalmente l’Impero alla pressione di popolazioni che, ora, non trovavano più ostacoli alle loro scorrerie, ed il problema era reso ancor più grave dal fatto che in quegli anni a nemici di antica data se ne sommavano di nuovi. L’Impero si cullava nella certezza d’essere una superpotenza senza rivali in grado di nuocere in modo decisivo, e da tale mentalità derivarono scelte fatali, ma legittime e perfettamente comprensibili, poiché in quegli anni in effetti nulla poteva far presagire il rapido crollo delle frontiere bizantine. La volontà dell’aristocrazia civile dominante di limitare sempre più l’influenza della nobiltà militare, insieme all’esigenza di ridurre costi ed aumentare le entrate, fece sì che sparisse il tradizionale esercito tematico, sostituito da un nucleo di soldati di professione e di mercenari, apparentemente più funzionali alle nuove esigenze militari. In tale ottica ad esempio si situa la scelta di Costantino Monomaco di liquidare, nel 1053, gli ultimi stratioti del tema armeniaco: da una parte tali truppe ormai erano inutilizzate da tempo, dall’altra il loro scioglimento avrebbe rimpinguato l’erario imperiale, invero piuttosto vorace. Tale processo durava da tempo e raggiunse il culmine negli anni di Costantino IX, quando si intensificarono episodi che, tuttavia, non erano così allarmanti da scuotere la tranquillità dei burocrati costantinopolitani.

Già l’anno successivo all’intronizzazione, Costantino dovette fronteggiare, oltre alla minaccia dei ribelli capeggiati da Maniace, un violento assalto dei Russi. Il casus belli fu una presunta violenza perpetrata ai danni di alcuni mercanti russi presenti a Costantinopoli: l’Imperatore si rifiutò di cedere alle spropositate richieste di risarcimento formulate da Kiev e così il gran Principe Jaroslav scatenò l’attacco alla Città. Nel giugno del 1043 la flotta russa si scontrò con quella romana, comandata da Basilio Teodorocano: i bizantini, anche grazie all’uso accorto del fuoco greco, ebbero la meglio ed i Russi dovettero battere in ritirata, lasciando, a detta di Cedreno, ben 15.000 caduti. Jaroslav si piegò a più miti consigli e Costantino, celebrato il meritato trionfo, rinsaldò i rapporti tra le potenze concedendo a Vsevolod, erede del Principe di Kiev, una figlia di secondo letto, Maria o Anastasia.
Non così positive si rivelarono le operazioni contro la popolazione turca dei Peceneghi, i quali già da anni, scomparso il cuscinetto rappresentato dai Bulgari, premevano ai confini imperiali sul Danubio, fino a sconfinare più volte e, complice anche la crisi provocata dalla rivolta di Tornicio, proprio in Macedonia, a battere sul campo le truppe imperiali nel 1048. L’Imperatore non trovò di meglio che accordarsi con gli invasori, accoglierli come federati, conceder loro terre e inserirli tra le forze bizantine, senza tuttavia riuscire ad impedire che i Peceneghi, totalmente incontrollabili, periodicamente devastassero e saccheggiassero i Balcani, scenario che del resto per decenni rimase invariato.
Ben più pericoloso, ma al momento pressoché invisibile, era lo spettro dei Turchi Selgiuchidi che s’agitava ai lontani confini orientali. Già dal 1030 costoro avevano creato un grande impero sulle ceneri del sultanato ghaznavide, e ben presto cominciarono a premere ai confini di Bisanzio, sia pure con incursioni a scopo dimostrativo e di saccheggio relativamente insignificanti, poiché l’obiettivo dei Selgiuchidi era un altro: nel 1050 Tughril Beg dominava Isfahan, e cinque anni dopo Baghdad. Tuttavia le occasioni di scontro non mancarono, nel 1048 presso Erzurum le armate bizantine misero in fuga i Turchi, e lo stesso Tughril Beg nel 1054 guidò una incursione entro i territori imperiali con lo scopo di saccheggiare i territori intorno al lago Van.  Non si trattava di una grave preoccupazione per Costantinopoli, al momento, tuttavia il governo imperiale ritenne che lo spostamento ulteriore dei confini avrebbe giovato, e nel 1045 Costantino IX proclamò l’annessione del regno armeno di Ani. Il sovrano, Gagik II, e la famiglia reale armena vennero insediati a Sebaste, l’attuale Sivas. La mossa era giustificata, ma ben presto avrebbe rivelato gravi limiti: la presenza bizantina si scontrò con l’indipendentismo armeno e con forti differenze religiose e culturali e questo, insieme alla dissoluzione delle antiche strutture militari territoriali imperiali, permise agli incursori turchi, pochi anni dopo, di giungere nel cuore dell’Asia minore.
Più grave, seppur lontana, era la situazione in Italia, dove l’insurrezione di Maniace ebbe il potere di assestare un colpo fatale ai domini bizantini. I Normanni dilagavano nelle Puglie e s’incrinavano anche le posizioni imperiali in Calabria: Argiro tentò un accordo con Enrico III di Germania e con il Vescovo di Roma, Leone IX, al fine di giungere ad un’unione delle forze tale da interrompere l’ascesa normanna. Il piano ebbe esito infausto: i Bizantini, prima che potessero unirsi agli alleati, vennero sconfitti a Siponto dai Normanni che, in seguito, il 26 marzo del 1053, batterono sonoramente le truppe papali presso Civitate. Lo stesso Pontefice venne catturato. Diveniva sempre più urgente una stretta alleanza tra le forze anti-normanne, ma ciò fu reso impossibile da eventi che, solo apparentemente, con la situazione politica e militare italiana poco avevano a che fare.

Il grande scisma

16 luglio del 1054: certo nessuno si rese conto di quale portata avrebbe avuto in futuro questa data, e probabilmente nessuno dei protagonisti degli eventi che la precedettero fece in modo che andassero diversamente. Eccezion fatta per Costantino IX, pressoché esautorato, ma che si rendeva ben conto, insieme al catepano Argiro, che solo un’intesa tra Bisanzio, Roma e tedeschi avrebbe potuto frenare i successi normanni.
Fu così che partì da Roma una delegazione avente come scopo il dirimere le antiche controversie tra Papato ed Impero: ne facevano parte il cardinale Umberto di Silvacandida, l’arcivescovo Pietro di Amalfi ed il cardinale Federico di Lorena, divenuto poi papa con il nome di Stefano IX, e mai scelta fu più azzeccata, se l’intento era quello di far fallire le trattative, essendo i tre tutti ferocemente anti-bizantini. La controparte del resto non era affatto più morbida: il Patriarca Michele I Cerulario, successo nel 1043 ad Alessio Studita, era un uomo orgogliosamente consapevole della propria posizione e della popolarità di cui godeva, strenuo sostenitore della più assoluta indipendenza del patriarcato da Roma e financo dal basileus.  Le trattative non ebbero neppure la possibilità di partire, nonostante gli sforzi del Monomaco: la delegazione pontificia fu accolta con freddezza estrema e la lettera di cui erano latori i delegati venne contestata nella sua validità. Ci si fissò, per non uscirne più, sugli argomenti di carattere liturgico che risalivano già a Fozio, la duplice processione dello Spirito santo, il digiuno del sabato, il divieto del matrimonio per i sacerdoti, l’uso del pane azzimo, consuetudine questa che riguardava –è non è un caso- anche la Chiesa armena sottoposta appena recentemente al dominio politico bizantino. L’esito era prevedibile, i legati pontifici in quel fatidico 16 luglio del 1054 platealmente lasciarono sull’altare maggiore di Santa Sofia una bolla di scomunica per il Cerulario ed i suoi collaboratori, abbandonando subito Costantinopoli, ed il Patriarca convocò immediatamente un sinodo nel quale, nonostante la contrarietà dell’Imperatore, vennero a loro volta scomunicati i delegati pontifici. Il risultato immediato di tanto irrigidimento fu il rapido crollo delle sorti bizantine nel catepanato; quello più a lungo termine è quello che ancora oggi separa milioni di anime.
Era del resto solo una questione di tempo che la separazione delle Chiese, spirituale ed insieme politica, s’intende, avvenisse. Il patriarcato di Costantinopoli non poteva affatto recedere dalla sua posizione di totale indipendenza spirituale ed economica, ed in ciò totalmente affiancato dal potere imperiale, e già il Patriarca Sergio II, sotto il Bulgaroctono, aveva cessato di nominare il Vescovo di Roma nei dittici. Fino a quando a Roma il papato rimase debole il fuoco covò sotto le ceneri, ma l’incendio cominciò a divampare quando le redini della Chiesa romana passarono nelle mani del movimento cluniacense, ostile ad ogni compromesso e, spinto da zelo riformatore, fermo sostenitore della superiorità romana, da cui uscì come Pontefice quel Leone IX che, per atroce scherzo del destino, si trovò quale avversario a Costantinopoli Michele Cerulario, ferreo sostenitore delle sacre ed inviolabili prerogative patriarcali ed alieno ad alcun compromesso con i Latini, in ciò senz’altro sostenuto da larga parte dei dynatoi dell’aristocrazia militare avversi all’entourage imperiale, da parte sua favorevole all’accordo. Mai come in questo periodo i poteri religioso ed imperiale, nell’intera storia bizantina in fragile equilibrio, parvero squilibrati a favore del primo, poiché la “concorrenza tra l’Imperatore e la Chiesa è … inevitabile perché se il primo procede direttamente da Dio, la seconda, nelle sue posizioni più estreme, quelle dei monaci e dei Patriarchi più ambiziosi, si pone anch’essa come emanazione del Cielo e pretende di non dipendere da nessuna autorità terrena ”, e l’XI secolo vide una serie impressionante di Patriarchi decisi a sostenere con ogni mezzo la propria posizione, tanto da inserirsi abilmente nelle lotte di potere tra le fazioni contrapposte, contrapporsi al potere imperiale e, in più d’un caso, sostituirsi ad esso.

Il regno dei filosofi

Malgrado tutto l’Impero navigava in ottime acque, o così pareva. I confini parevano sotto controllo, a parte il lontano occidente, i nemici interni erano battuti, l’economia sembrava scoppiare di salute e mai come in quegli anni si diffondevano arte e cultura. Bisanzio era uno stato ricco, decisamente urbanizzato, in piena espansione demografica ed economica. Certo il nomisma aureo cominciò ad essere adulterato con aggiunta di argento e rame, dopo lunghissimo tempo, ma ciò va considerato come segno di grande sviluppo economico e diffusione di economia urbana, sostiene il Mango , e tanto benessere pareva derivare dalla cooptazione delle nuove classi  medie nell’aristocrazia civile al potere. Certamente la medaglia aveva un’altra faccia tutt’altro che benevola. Il Senato aumentò smisuratamente ed il governo imperiale concesse con estrema liberalità immunità d’ogni tipo a laici ed ecclesiastici. Aumentarono le grandi proprietà terriere, decadde la piccola proprietà e ciò, ovviamente, ebbe ripercussioni e nelle casse dello stato e nel settore della difesa militare, poiché cessarono di esistere le proprietà militari. Secondo alcuni al regno del Monomaco datano i primi esempi di concessione di terre in pronoia. Certo si diffuse l’abitudine di concedere il servizio d’esazione delle imposte ad appaltatori, sistema che se servì ad incrementare la pressione fiscale, ridusse l’afflusso di entrate, seppur certe, nell’erario.
Liberalità e fervore economico andarono a pari passo con una vera e propria esplosione di ricchezza culturale, sostenuta con decisione da Costantino Monomaco stesso. L’Imperatore volle circondarsi di uomini di profonda cultura, e così sotto il suo regno emersero personalità come il giurista Giovanni Xifilino, come il poeta Giovanni Mavropode, come il colto Costantino Licude, per il quale venne creata la carica di mesàzon, primo ministro, come, soprattutto, Costantino Psello, più conosciuto con il nome di Michele che assunse durante una breve permanenza in monastero alla fine del regno di Costantino IX, scrittore, oratore, filosofo, politico abile ma dalla spesso infausta influenza e, come è stato definito, primo vero grande umanista, pervaso di ardore per il mondo classico.  A loro, sotto il patrocinio dell’Imperatore, fu affidata la rinascita dell’università di Costantinopoli, risorta nel 1045 con due facoltà, quella di diritto, ospitata in San Giorgio dei Mangani e diretta dal nomophylax Giovanni Xifilino, e quella di filosofia, con sede forse nell’Augusteo, presieduta dall’hypatos ton philosòfon Michele Psello.  In breve Costantinopoli divenne il crocevia intellettuale del mondo circostante, e divenne una necessità per studenti greci e stranieri  quella di frequentare  una tanto prestigiosa università, il cui vanto fu quello di preparare generazioni di giudici e funzionari.  Né venne tralasciata l’arte, ed al regno di Costantino risale ad esempio il complesso monastico della Nea Monì, a Chio, voluta dallo stesso basileus quale voto per l’avverarsi delle parole di tre monaci, i quali profetizzarono la fine dell’esilio a Lesbo, e decorato di finissimi mosaici. Purtroppo nulla, se non le tracce portate alla luce dagli scavi archeologici, resta della maggiore opera voluta dal Monomaco, il complesso di San Giorgio dei Mangani, eretto su edificio preesistente su scala gigantesca e descritto da un allibito Psello come un’immensa teoria di chiese, monasteri, giardini, arricchiti da opere d’arte, portici, fontane e laghetti.

Questa fu l’ultima dimora di Costantino IX Monomaco, sovrano senz’altro debole e privo di particolari qualità, ma non certo spregevole o irresponsabile. Vedovo della porfirogenita Zoe dal 1050, non aveva potuto sposare l’amata principessa alana al suo fianco da tempo per l’ostilità di Teodora, sorella di Zoe, e perché la tetragamia già a suo tempo aveva creato problemi non indifferenti. Con gli anni, poi, la salute del basileus cominciò a declinare: la permanenza alle terme giovava alquanto alle sue sofferenze, ma fu anche la causa della pleurite che gli fu fatale. L’11 gennaio del 1055 Costantino Monomaco morì, e venne inumato a fianco della Sclerena. Non esistendo eredi legittimi, si ritenne che il modo migliore per evitare problemi alla sua successione fosse quello di richiamare l’anziana porfirogenita Teodora dal monastero ed incoronarla

autore: SERGIO BERRUTI

Ronchey S., Lo Stato bizantino, Torino, Einaudi 2002, p. 117

Michele Psello. Imperatori di Bisanzio, Milano, Fond. Lorenzo Valla/Mondatori 1984, I, p. 295

Kazhdan A.-Ronchey S., L’aristocrazia bizantina, Palermo, Sellerio 1997

Ronchey S., op cit., p. 108

Ducellier A., Il dramma di Bisanzio, Napoli, Liguori 1980, p. 124

Mango C., La civiltà bizantina, Bari, Laterza 1980

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Di Nicola

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