MICHELE VI STRATIOTICO

“Un tale uomo era adatto non tanto a comandare, quanto ad essere piuttosto comandato e diretto. Ed era inoltre per età già prossimo all’ultima stagione della vita ed ormai giunto all’estremo quadrimestre: sul suo capo i capelli erano tutti d’argento”.

(Michele Psello, Cronografia, VI, a 20).

Le origini ( ? – 1056)

Le notizie su Michele VI sono molto scarse per tutto il periodo precedente alla sua ascesa al trono: è ignoto l’anno di nascita, sappiamo che era discendente da un ramo collaterale della famiglia di Giuseppe Bringa, che era stato il braccio destro di Romano II, e fu detto Stratiotico perché aveva diretto l’amministrazione militare (era stato logothetes stratiotikou), quando prese il potere era un anziano patrizio che aveva passato tutta la vita nell’anonimato.

Nell’estate del 1056 il Consiglio della corona si destò dal torpore in cui viveva da quando la porfirogenita Teodora era divenuta unica sovrana l’11 Gennaio 1055. Davanti all’aggravarsi delle condizioni di salute dell’anziana sovrana, i consiglieri capirono non solo che la basilissa non avrebbe vissuto in eterno (come certi monaci andavano affermando) ma che anzi la sua dipartita si stava avvicinando e non c’era nessuno che prendesse la corona dopo di lei.

Secondo Psello i consiglieri erano preoccupati che il successore “rimanesse legato loro e non mutasse animo e garantisse loro immutata l’attuale situazione di privilegio” (1); perciò era necessario scegliere una persona facilmente manovrabile: dopo lunghe riflessioni la scelta cadde su Michele Bringa, detto il Vecchio o lo Stratiotico.

Il regno (1056 – 1057)

Quando ebbero deciso si presentarono alla sovrana moribonda e le chiesero di dare il suo assenso, Teodora accettò con il solo cenno delle ciglia e così facendo adottò Michele come figlio. Secondo alcuni il Patriarca (secondo Psello la stessa Teodora) pose la corona sulla testa di Michele VI Stratiotico che divenne il nuovo imperatore dei Romei; poche ore dopo la porfirogenita Teodora morì, era il 31 Agosto del 1056, vigilia della nuova indizione, la dinastia dei Macedoni si era estinta.

Salito al trono, Michele ripagò abbondantemente la fiducia riposta in lui dai consiglieri; tutti furono gratificati in ogni modo possibile: “non collocò ciascuno nel grado che gli spettava, ma lo innalzò a quello superiore o ancora di più. E se qualcuno, standogli a un fianco, gli chiedeva una promozione di tre gradi, lo trovava condiscendente; per cui spuntava fuori un altro che, sollecitandolo dall’altro fianco, non mancava di ottenerne una di quattro” (2). Questa sua generosità lo fece illudere che tutto l’Impero lo amasse e, sentendosi sicuro di ciò, proseguì nell’opera intrapresa da Costantino IX Monomaco alcuni anni prima: abbattere il potere della classe militare e innalzare quello della burocrazia cittadina che lo aveva proclamato basileus.

I primi giorni di regno furono difficili: nel Settembre del 1056 i Normanni vinsero i Bizantini a Taranto annettendo tutto il territorio tra questa città e Otranto; da questo momento Roberto il Guiscardo iniziò a occupare stabilmente sempre più ampie fette di territorio imperiale senza che i Bizantini facessero nulla; poco dopo Teodosio Monomaco, cugino del defunto imperatore, si ribellò pretendendo il trono ma, grazie anche all’energico intervento del patriarca Michele Cerulario, la rivolta fu ben presto domata. I mesi seguenti trascorsero senza alcun evento degno di rilievo; nel corso di quell’anno il cugino dell’imperatore, Michele Urano, sostituì il generale Cecaumeno al comando ad Antiochia.

Era consuetudine che a Pasqua  i rappresentanti delle varie classi sociali rendessero omaggio al sovrano: il 30 Marzo 1057 mentre i rappresentanti del Senato, delle magistrature e della burocrazia furono ricoperti di elogi e doni, gli emissari delle forze armate (giunti per chiedere un aumento delle spese militari e guidati dal magistro Isacco Comneno, da Catacalone Cecaumeno di Colonìa, vincitore a Messina nel 1042, dux d’Iberia nel 1048, e da Michele Burtse) furono investiti da un’infinità di ingiurie e accuse: il sovrano disse a Isacco di aver quasi perduto Antiochia e distrutto l’esercito; di essere privo di valore e talento strategico; di essersi accaparrato i soldi di tutti; e aver usato il potere non per gloria ma ingordigia. Le accuse quindi travolsero tutti gli altri delegati che avevano cercato di difendere il generale accusato.

Secondo alcuni studiosi questo atteggiamento di Michele era dovuto ai tanti anni di umiliazioni che lui, semplice funzionario civile, aveva dovuto subire da parte dei grandi ufficiali che, per il suo incarico di logoteta, era costretto a frequentare. Ora che era divenuto imperatore, Michele, forte dell’appoggio del partito burocratico della Città, voleva pareggiare il conto, invece segnò l’inizio della sua fine.

Per rimediare a questo incidente i militari richiesero un secondo colloquio che fu loro accordato non dal basileus ma dal primo ministro Leone Paraspondila che rincarò la dose e li umiliò ulteriormente (Psello dice che fu sempre Michele a riceverli). I generali non tollerarono che il loro onore fosse così calpestato e l’Impero fosse affidato a inetti burocrati che non si preoccupavano delle gravi minacce esterne che si stavano ammassando contro di loro (oltre i Normanni in Italia, anche i Peceneghi stavano premendo sul Danubio e i Turchi Selgiuchidi, dopo aver preso Baghdad nel 1055, avevano iniziato a comportarsi in modo più aggressivo ad Oriente; a questo si aggiungevano le continue diminuzioni di fondi per l’esercito e lo sperpero di denaro in mano alla burocrazia della Città) e si riunirono a S. Sofia. Nel grande santuario il loro risentimento prese una forma più concreta, scoprirono che anche il patriarca Cerulario (che aveva appoggiato la nomina di Michele e l’aveva aiutato durante la rivolta di Monomaco) era disposto ad aiutarli e decisero che c’era solo una cosa da fare: un colpo di stato che rovesciasse Michele e il partito burocratico e ponesse un valido generale sul trono; era ora di finirla con imperatori fantocci e donne che governavano l’Impero. Dopo un po’ di discussione si scelse come capo della rivolta il generale Isacco Comneno: questi era membro di una delle più illustri casate militari dell’Impero; si diceva che la famiglia (originaria di Comne) discendesse direttamente dall’imperatore Costantino I il Grande. Dopo qualche esitazione Isacco accettò di guidare l’operazione, quindi i generali tornarono ai loro comandi in Asia.

Alla fine di Maggio, primi di Giugno, i generali ribelli decisero di passare all’azione: fecero muovere tutte le loro truppe verso Gunaria, località della Paflagonia dove Isacco aveva una tenuta, e qui l’8 Giugno del 1057 sollevarono Isacco Comneno sugli scudi e lo proclamarono basileus, quindi l’armata ribelle (che poteva contare sull’appoggio del generale Romano Sclero e dei figli di Basilio Argiro, fratello di Romano III) si diresse verso Costantinopoli. Secondo Psello la marcia si svolse nel più completo ordine e senza che le truppe compissero alcun atto violento (si voleva dare un segnale tangibile dell’ordine di cui era rappresentante Isacco contro il caos del governo di Michele), così le truppe giunsero nei pressi della Città. Ad essa sola, per l’estensione della rivolta, si era ridotta la sovranità di Michele; finalmente i suoi consiglieri compresero la gravità della situazione (sebbene ignorassero che pure il Patriarca era loro nemico) e convinsero il basileus a ricercare consigli tra i suoi confidenti e collaboratori. Tra questi fu chiamato anche Psello, che si era allontanato dalla corte al tempo di Teodora. Il monaco propose tre cose: cercare l’aiuto del Patriarca; inviare al ribelle degli emissari che lo persuadessero a sciogliere l’esercito promettendo in cambio grandi onori; riunire l’esercito dei territori occidentali e truppe barbare.

Il basileus accolse solo la terza proposta e fece convergere le truppe d’Occidente (più mercenari barbari guidati dal franco Rodolfo) contro il nemico; l’armata imperiale fu affidata all’eunuco Teodoro che pose il campo di fronte a quello avversario. Nel corso dei giorni molti soldati di Michele iniziarono a passare ai ribelli (Psello sospetta che pure l’eunuco Teodoro facesse il doppio gioco), si decise dunque per lo scontro.

La battaglia di Petroa (20 Agosto 1057)

Il 20 Agosto 1057, a Petroa, tra le località dette Ade e Polemone, presso Nicea, avvenne la battaglia finale. Le due armate si scontrarono: l’ala destra di Michele sfondò l’ala sinistra nemica (guidata dal bulgaro Aronne, cognato di Isacco), la mise in fuga e la inseguì. L’ala destra ribelle, vista la fuga dei compagni, non aspettò di scontrarsi con gli Imperiali ma iniziò a fuggire, la battaglia sembrava vinta per Michele. A un tratto quattro suoi soldati videro Isacco ergersi ritto al centro della mischia e gli scagliarono contro i giavellotti che però non lo abbatterono. Isacco vide in ciò un segno divino e incitò i suoi a tornare indietro e a vincere lo scontro; i fuggiaschi lo ascoltarono, tornarono suoi loro passi e travolsero gli Imperiali che fuggirono: Isacco aveva vinto.

L’imperatore fu molto abbattuto da questo evento, in più non era possibile chiamare altre truppe per fronteggiare il nemico, a questo si aggiunse l’eunuco Teodoro che (forse passato dalla parte di Isacco) persuase il sovrano della pericolosità di un secondo scontro: sarebbe stato meglio trattare. Alla fine Michele acconsentì e, passato qualche giorno, inviò degli emissari dal Comneno. Il 24 Agosto, Michele Psello, il senatore Leone Alopo e il capo del Senato, Costantino Licude, si recarono da Isacco che si era acquartierato a Nicomedia. Qui giunti gli ambasciatori esposero al Comneno  la proposta di Michele: il basileus lo avrebbe adottato come figlio dandogli il titolo di cesare e garantendogli la successione al trono, in cambio l’esercito ribelle si sarebbe sciolto. Isacco meditò a lungo sulla proposta, alla fine accettò a patto che Leone Paraspondila fosse allontanato dal Palazzo. Il 28 Agosto gli emissari rientrarono a Costantinopoli e riferirono all’imperatore l’esito dei colloqui, Michele, informato della situazione rispose: “Bisogna esaudire ogni richiesta, e che egli nulla manchi di ottenere di ciò che vuole. Che anzi sia incoronato quanto mai solennemente, il capo cinto di diadema e non di semplice corona, se anche tale non è l’insegna del cesare. Che eserciti con me il potere, con me amministri le nomine dei dignitari. Abbia destinata una pompa imperiale sua propria e gli venga concesso un seguito superbo. Di quanti hanno lottato al suo fianco per l’usurpazione, ciascuno goda senza timore ciò che ha ricevuto da lui come se dall’imperatore gli fosse stato elargito, che si tratti di denaro o di possedimenti terrieri o di titoli prestigiosi” (3); queste e altre cose affermò Michele.

Il 30 Agosto, gli emissari salparono da Costantinopoli alla volta del campo di Isacco che, nel frattempo si stava spostando nella località di Rheae, tra Nicomedia e Crisopoli. Quando lo ebbero raggiunto, Psello e gli altri informarono il Comneno delle decisioni imperiali, della sua nomina a cesare e dell’allontanamento di Paraspondila dall’incarico di primo ministro. Isacco fu preso dalla gioia, comunicò ai suoi uomini le delibere del sovrano e disse loro si smobilitare, li avrebbe richiamati quando la sua posizione si fosse regolarizzata. A Psello disse che l’indomani sarebbero dovuti tornare a Palazzo per informare il basileus che lui sarebbe giunto il 1° Settembre e che non voleva nessuna cerimonia particolarmente solenne. La situazione sembrava volgere per il meglio, ma non era ancora calata la notte, che il campo fu scosso dalle notizie provenienti dalla Città: Michele VI era stato deposto, Isacco era riconosciuto unico sovrano. Sulle prime la notizia sembrò falsa, ma nel corso della sera altri corrieri la confermarono e così si capì che era successo qualcosa di imprevisto.

La deposizione di Michele VI (30 Agosto 1057)

Dopo che gli emissari erano partiti dal Palazzo, alcuni senatori decisero di esautorare il basileus e, dopo aver messo tutta la Città in subbuglio, si recarono a S. Sofia. Qui giunti trovarono il patriarca Cerulario e lo “costrinsero” a guidare il loro gruppo. Davanti alle montanti grida e minacce (pare che dei sicari furono inviati da S. Sofia per ucciderlo), Michele VI, su consiglio di Costantino Ducas (nipote ed emissario del Patriarca), decise di divenire monaco e si ritirò a vita privata. Quella sera vari corrieri raggiunsero Isacco con la buona notizia e, alla fine, il Comneno capì di essere divenuto davvero unico basileus; la sera del 31, un gruppo di suoi soldati prese il controllo del Gran Palazzo.

Alle prime luci dell’alba del 1° Settembre del 1057, Isacco Comneno partì dal suo campo diretto in Città, al suo fianco c’erano Psello e i suoi compagni. Il corteo, attraversato il Bosforo, raggiunse S. Sofia e qui il patriarca Michele I Cerulario incoronò Isacco I Comneno imperatore dei Romei.

“Quanto all’imperatore Michele il Vecchio, dopo aver trascorso sul trono il solo giro di un anno, ne discende; e sopravvissuto ancora per breve tempo in veste di privato cittadino, si partì da questa vita” (4). Morì intorno al 1059 nel monastero dove si era ritirato.

Considerazioni finali

Il breve regno di Michele VI fu molto incolore: stretto tra le varie fazioni che animavano la politica bizantina (esercito, aristocrazia e patriarcato), il sovrano non seppe trovare una via di mezzo che gli permettesse di gestire il potere; probabilmente non era neanche adatto alla corona: messo su un trono che non seppe tenere, da persone che lo avevano scelto perché manovrabile, fu, dai suoi stessi elettori, abbandonato e poi tradito quando si capì che non sarebbe stato più utile ai loro scopi. Durante il suo anno di regno l’Impero andò perdendo sempre più prestigio e potere e di certo la guerra civile (seppure breve) non giovò alla situazione generale. Il fatto stesso che, dopo la sua deposizione, Michele poté mantenere non solo gli occhi (che molto spesso erano cavati agli ex sovrani per evitare che potessero avere qualche desiderio di rivalsa) ma anche la vita, dimostra più di ogni altra cosa quanto poco in considerazione fu tenuto non solo dai suoi antichi sostenitori (che evidentemente non temevano una sua futura vendetta) ma anche da Isacco che ne aveva preso il posto. Se il comportamento di Michele verso l’esercito (che chiedeva maggiori risorse per far fronte alle nuove sfide che stavano sopraggiungendo e invece ottenne insulti e improperi) fu folle e fuor di luogo, di certo le gesta del patriarca Cerulario che, dopo averlo imposto alla moribonda Teodora, lo fece deporre, non hanno alcuna giustificazione: da astuto uomo politico, degno di Machiavelli (più che da religioso), Cerulario capì che il suo protetto non era veramente in grado di gestire il potere e preferì farlo uscire di scena per farsi bello con il nuovo basileus, a cui aveva aperto la strada verso il trono, piuttosto che essere messo da parte per il cambiamento di indirizzo della politica imperiale.

autore: ANTONINO MARLETTA

 Note

MICHELE PSELLO, Cronografia, VI a 20.

  • Ibidem, VII, 2.
  • Ibidem, VII, 33.
  • Ibidem, VII, 43.

Bibliografia

R.-J. LILIE, Bisanzio, la seconda Roma, ed it. Roma, 2005.

  1. J. NORWICH, Bisanzio – splendore e decadenza di un impero, ed. it. Milano, 2000.
  2. OSTROGORSKY, Storia dell’impero bizantino, ed. it. Torino, 1968.

MICHELE PSELLO, Imperatori di Bisanzio (Cronografia), a cura di S. lmpellizzeri, trad. it. di S.

Ronchey, Milano, 1984

Immagine tratta da :

http://www.doaks.org/resources/seals/gods-regents-on-earth-a-thousand-years-of-byzantine-imperial-seals/rulers-of-byzantium/michael-vi-bringas-1056-57

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Di Nicola

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