La spedizione di Creta del 961

Basta osservare la carta geografica del Mediterraneo orientale per rendersi conto dell’importanza strategica delle isole egee non solo per il controllo delle rotte commerciali e marittime, ma anche  per garantire la sicurezza dei principali insediamenti costieri in quei territori che, nel periodo di nostro interesse, facevano parte dell’Impero bizantino. Tra queste isole Creta svolgeva un ruolo particolarmente rilevante, trattandosi della più grande dell’Egeo e la quinta per estensione di tutto il Mediterraneo.

A partire dal 649 le incursioni arabe divennero sempre più frequenti e finirono per essere una caratteristica quasi endemica della vita delle isole imperiali. Il governatore arabo della Siria, Muawiya, per primo intuì l’importanza della marina da guerra e provvide alla costruzione di una poderosa flotta con la quale devastò Cipro e le coste dell’Isauria; seguirono gli attacchi alle isole di Cipro (648-49), Arados (649-50), Rodi (654), Creta e Cos (655) e i primi tentativi di assediare Costantinopoli via mare. Da questo momento in poi gli abitanti dell’isola di Creta vissero nel costante terrore dei raid musulmani. La situazione si aggravò ulteriormente nel corso del IX secolo, quando nell’818 l’isola fu conquistata dai fuoriusciti dell’emirato omaiade di Cordoba, guidati da Abu-Hafs. Questi, dopo essere stati sconfitti dal legittimo emiro Al-Hakam Ibn Hisham Ibn Abd-ar-Rahman I, si rifugiarono ad Alessandria, che conquistarono nel corso di una rivolta, tra l’818 e l’819, ma che dovettero poi abbandonare per l’intervento del califfo del Cairo. Dopo il loro arrivo a Creta, fondarono la nuova capitale, Candace, riconobbero la sovranità del califfo del Cairo, ricevendo così l’appoggio egiziano, e ristabilirono anche le relazioni con Cordoba, ottenendo una sorta di doppia protezione.

Il governo imperiale cercò più volte di riprendere il possesso dell’isola: Michele II tentò di farlo una prima volta nell’825 con il generale Photeinos e poi nell’826 affidando la spedizione al generale Krateros che, dopo gli iniziali successi e la vittoria riportata nei pressi di Handaka, venne sconfitto ed ucciso nel corso di un attacco notturno a sorpresa. Seguirono numerosi altri tentativi ma tutti fallimentari; anche le due grandi spedizioni, quella del 902 guidata da Himerios e l’ancor più imponente tentativo dell’eunuco Costantino Gongyles, effettuato per volontà di Costantino VII nel 949, non portarono alla liberazione dell’isola.

La spedizione del 961, comandata da Niceforo II Foca (all’epoca Domestikos delle Scolai per l’occidente) fu verosimilmente voluta da Giuseppe Bringa, il potente eunuco di palazzo che si era trovato ad essere il vero padrone dell’impero, viste le inclinazioni tutt’altro che imperiali di Romano II, descritto da più fonti come uomo frivolo, inetto, interessato unicamente alle attività venatorie ed ai bagordi. Per contrastare Sayf al-Dawlah, l’emiro di Mosul ed Aleppo che per buona parte del X secolo fu il più pericoloso avversario di Bisanzio, fu lasciato un esercito in Mesopotamia agli ordini di Leone Foca (Domestikos delle Scolai per l’Oriente), fratello del futuro imperatore. La suddivisione del ruolo di comandante supremo a due diversi personaggi con responsabilità territoriale ben precisa costituisce, verosimilmente, un’innovazione introdotta durante il regno di Romano II (959-63). Ciò permise di rendere più agile la catena di comando e più efficace la difesa nelle due diverse regioni dell’Impero.

Per la spedizione di Creta fu raccolta una poderosa armata, composta da elementi scelti della guardia e dalle truppe dei temi sia d’Asia che d’Europa. Secondo le fonti: 1.000 dromoni, 2.000 piccoli bastimenti equipaggiati con i sifoni per il fuoco greco e 360 navi da trasporto, che nel luglio del 960 imbarcarono buona parte delle migliori truppe provenienti dalle diverse regioni dell’Impero ed un numero cospicuo di mercenari armeni, slavi e russi. Fu così allestito un potente esercito: di oltre 50.000 uomini, secondo altre fonti, addirittura 77.000 tra soldati e rematori. Indipendentemente dai numeri, si trattò di un’impresa  su larga scala e molto dispendiosa, il cui obiettivo fu quello di risolvere una volta per tutte il problema di Creta. D’altra parte le forze messe in campo sono un chiaro segno della rinnovata potenza militare ed economica dell’Impero, frutto del paziente lavoro svolto dagli imperatori macedoni  negli anni precedenti e coronato dalle vittorie non solo di Niceforo II ma anche di Giovanni Tzimisce e di Basilio II.

Ritornando alla conquista di Creta, non è nota la località in cui sbarcarono le truppe imperiali, anche se allo sbarco seguì immediatamente un aspro combattimento contro i Saraceni: “Il comandante dei Romani Niceforo schierò le truppe in tre sezioni […] e dopo aver ordinato ai trombettieri di suonare la carica e alle truppe di far precedere lo stendardo della croce, lanciò un attacco frontale contro i barbari […]. I barbari non poterono sopportare a lungo l’urto delle lance dei Romani, retrocessero, ruppero i ranghi e corsero indietro il più velocemente possibile verso le loro fortificazioni” (Leo.Diac. Libro I, Capitolo III). Una versione simile dei fatti è stata fornita pure da Teodosio Diacono, mentre per altri, in primis Scilitze, lo sbarco non trovò ostacoli. Dopo 3 giorni di relativa calma, in cui fu possibile portare a termine le operazioni di sbarco ed effettuare ricognizioni dell’isola, gli Arabi ritornarono all’attacco ma dovettero ripiegare alla volta di Candace, ritenuta imprendibile e stimata baluardo difensivo dell’intera isola. Raggiunta la capitale, Niceforo, pensando che non fosse possibile conquistare la città con un assalto diretto, fece iniziare i lavori necessari per un lungo assedio: cercò di isolare Candace sia via mare che via terra, per prevenire eventuali tentativi di ricollegamento con la Siria, la Cilicia, l’Egitto e, persino, la lontana Andalusia. Una cosa è certa: le richieste di aiuto da parte dell’emiro di Creta al Califfo egiziano e a quello di Cordova, grazie al blocco navale, rimasero senza risposta,  e le forze arabe che tentarono lo sbarco furono fatte a pezzi. Per il blocco via terra, la città fu circondata da un ampio fossato e da una palizzata.

Ciò nonostante non mancarono i tentativi per sbaragliare gli assedianti, risultati tutti infruttuosi. Tra questi quello del vecchio amera Kourupas che, al comando di quasi 40.000 uomini, inviati in buona parte dal Califfo d’Africa ed in parte raccolti tra i superstiti dell’isola, guidò una spedizione contro il campo bizantino, per favorire la sortita degli assediati. L’operazione però fallì, anche perché Niceforo, grazie ad alcune informazioni segrete, riuscì a  prevenire le mosse del nemico: ne derivò una terribile strage dei difensori di Candace.

Durante il lungo assedio (dall’estate 960 alla primavera 961) non mancarono atti di crudeltà da parte di Foca e del suo esercito. E’ riferito che: “Ordinò che le teste dei nemici uccisi fossero lanciate con le fionde a guisa di dardi, sicché la breve estensione del cielo si mostrasse macchiata della strage dei barbari ed il popolo peccatore sapesse che per loro era una pena anche la collocazione delle membra. Lanciavano le teste al posto dei sassi; colpivano spesso anche i loro padri, ed i fratelli, e chi moriva in battaglia diveniva omicida nella strage dei padri” (Teod.Diac. II 60-69; trad. G. Attanasio, 1995). Sempre Teodosio Diacono ci riferisce che: “Il capo dei frombolieri, poi, o Signore, fa qualcosa degna, e molto, di riso. Infatti, dopo aver legato alla fionda un asino ottuso, ordina di lanciare un asino vivo fra gli asini. Essi allora, occupati a legarlo con le corde, scagliano l’infelice per le vie del cielo. Quello agitava le zampe, scalciava, saliva per il cielo il rustico asino; prima di nessuna importanza, ora librato in alto, il somaro pigro e lento in terra, correndo per il cielo, incuteva allora terrore ai Cretesi. […] Il comandante, osservando questo somaro divenuto volatile, distogliendo la mente dalla tempesta delle preoccupazioni, disse sorridendo agli altri generali: < O compagni, quelle belve ricevano come cibo questo strano uccello, che giace ora là dentro; come venuto da luoghi impervi e nascosti riempirà di cibo la loro mensa: infatti, io penso che essi abbiano bisogno delle cose necessarie >” (Teod.Diac. III 173-195; trad. G. Attanasio, 1995).

Nei 7 mesi di assedio anche i musulmani di Creta e quelli d’Africa tentarono più volte di rompere il blocco per soccorrere gli abitanti di Candace che erano ormai ridotti alla fame, ma che rifiutavano di arrendersi conoscendo il terribile destino a cui sarebbero andati incontro. La situazione, tuttavia, non fu facile neppure per le truppe imperiali, tanto che Bringa fu costretto ad inviare nuovi rifornimenti e scorte per impedire lo scompaginamento dell’esercito. Il tutto fu aggravato anche da una carestia che si era propagata a macchia d’olio per tutto l’Oriente e che rendeva difficile il reperimento di generi alimentari.

Candace, però, cadde il 7 di marzo 961, quando fu sferrato l’assalto diretto, preceduto da un lungo bombardamento delle mura da parte delle macchine da guerra; seguì la rapida sottomissione dell’intera isola. Lo stesso Niceforo Foca organizzò e guidò la successiva riorganizzazione: fece abbattere le mura di Candace, oramai devastata  dal lungo saccheggio, anni di pirateria vi avevano fatto, infatti, affluire grandi ricchezze, e costruire la fortezza di Temenos su una collina adiacente per le  truppe di stanza, in gran prevalenza armene; favorì la ricristianizzazione della popolazione e la ricostruzione dei luoghi di culto, avvalendosi della collaborazione dell’amico d’infanzia Atanasio, futuro rinnovatore del monachesimo del monte Athos.

La caduta della città, però, non rimase invendicata, come è stato riferito dallo storico arabo Yahya al-Antaki: “La notizia di questo avvenimento giunse in Egitto il venerdì 8 safar dello stesso anno (29 marzo 961), corrispondente al dì della festa di Lazzaro, due giorni prima della festività delle Palme. D’un subito si radunò un gran numero di persone tra la plebaglia ed il volgo del Cairo Vecchio, le quali, ancora una volta, irruppero contro la chiesa di San Michele, proprietà dei melchiti a Qasr al-Sama, la misero a soqquadro, ne fecero gran rovina e saccheggiarono tutto quello che c’era dentro. Saccheggiarono poi le due chiese dei nestoriani, la chiesa di San Teodoro e la chiesa dedicata alla Signora Maria, meglio conosciuta come la chiesa patriarcale, che misero ugualmente a soqquadro […]” (Yahya Ant. VII: 41-42; trad. B. Pirone, 1997). Tutto ciò a conferma dell’inasprirsi del confronto nel X secolo tra le due civiltà anche sul piano religioso.

In conclusione, è innegabile che la riconquista di Creta fu un avvenimento di grande portata,  un vero e proprio punto di svolta nella decennale guerra tra Bisanzio e gli Arabi. L’isola, infatti, da più di un secolo era divenuta il rifugio dei pirati che ostacolavano la navigazione nel Mediterraneo orientale e costituivano una piaga per le popolazioni cristiane della costa. Questo avvenimento, però, servì soprattutto a riaffermare la supremazia di Bisanzio sul mare, supremazia ormai perduta da lungo tempo. Se si considera poi la contemporanea sconfitta impartita da Leone Foca a Sayf al-Dawlah in Cilicia, principale centro delle scorrerie Arabe, si comprende ancor meglio il nuovo peso della politica estera bizantina: si passa, infatti, dalla disperata  difesa alla riscossa imperiale. Il tutto fu poi consolidato, dopo l’ascesa di Niceforo II a imperatore, dalla riconquistata di Rodi, che servì a rendere ancor più sicuro l’Egeo. Il nuovo ruolo di Bisanzio fu pure favorito dalla sconfitta degli Hamdanidi di Mosul ed Aleppo, che consentì la riannessione della Cilicia, della Siria settentrionale, della regione costiera dell’attuale Libano e, non ultima, dell’importante sede patriarcale di Antiochia.

autore: FEDERICO LISI

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Di Nicola

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