I Normanni, fondando il Regno con l’intesa altalenante e ambigua della Chiesa, si erano impegnati a latinizzare le diocesi meridionali che dal 732 Leone III aveva  sottomesse a Costantinopoli. Ciò avvenne quasi per la natura delle cose, e a seguito dello scisma del 1054, essendosi interrotto il rapporto di unità tra l’Impero Romeo e la Chiesa. Tuttavia le diocesi di Bova, Gerace e Rossano restarono, pur di obbedienza papale, di rito greco; e lingua e rito, e discipline come il matrimonio dei preti, sono attestati altrove e ne restano tranne evidenti nell’onomastica e toponomastica, come abbiamo scritto altra volta.
I monaci, da sempre riottosi al potere dei vescovi, avevano già compiuto una scelta di passaggio a Roma con san Nilo, che lasciò la Calabria per Serpieri e poi Grottaferrata, dove morì nel 1001. Erano in qualche modo disposti ai nuovi tempi, e si schierarono con i Normanni, ricevendone in cambio protezione e benevolenza; solo a patto che si organizzassero in una sorta di gerarchia, attorno agli archimandriti del SS. Salvatore di Messina, S. Giovanni Teresti di Bivongi e S. Elia di Carbone. Accanto alle grandi abbazie latine benedettine e cartusiane e cistercensi vennero anzi fondati o rifondati o abbelliti cenobi greci, per quanto anch’essi di obbedienza romana. Tale situazione perdura sotto gli Altavilla e sotto gli Svevi, donde la posizione ghibellina degli ultimi intellettuali greci, i poeti e scrittori otrantini[1].
Gli Angioini iniziarono nei confronti della grecità, come di quanto restava dei Saraceni, una diversa politica più conforme ai dettami della Chiesa di Roma. Così leggiamo in un breve testo di Anonimo calabrese del XIII secolo[2]:

La mia patria, o fratelli, è stata la provincia di Calabria, che si trova nella parte meridionale dell’Italia, [e i miei genitori erano] ricchi sì nel corpo ma non molto nell’anima; infatti aderivano all’eresia dei Latini. Tuttavia, spinti da Dio stesso, mi misero fin dalla tenera età a [studiare] soprattutto le scienze sacre; crebbi in mezzo ad esse per grazia di Dio, e così compresi esattamente come i Latini siano adulteratori e trasgressori della tradizione degli apostoli e dei padri, osando empiamente confondere le proprietà delle tre ipostasi ed insegnando due processioni del Santissimo Spirito. Perciò non cessavo mai dal discutere con i loro sapienti, dimostrando per mezzo della divina Scrittura e dell’insegnamento dei padri che si erano allontanati ed estraniati dalla fede ortodossa e provavo con stringenti sillogismi che essi ora penzolavano verso l’eresia di Sabellio ora verso quella di Macedonio; quelli invece che non potevo incontrare perché vivevano troppo distanti da me, tentavo con lettere e scritti di trarli fuori dall’eterodossia. Dicevo, infatti, loro, tra le altre cose, che noi non diciamo che la processione sia una specie di fuoriuscita o effusione o flusso fisico o liquido, ma che essa è la modalità stessa dell’essere, secondo la quale esso è senza principio, poiché ha l’essere dalla Causa (il Padre), allo stesso modo della generazione del Figlio. Infatti, Questi è Unigenito, e tale è anche la processione dello Spirito; dunque, come è assurdo affermare che vi siano due generazioni del Figlio secondo la divinità, così è del tutto empio e blasfemo sostenere due processioni del santo Spirito. Perciò i loro capi mi trattavano come un nemico e un deviato e mi dichiaravano a tutti eretico ed eterodosso. Tutti, quindi, mi evitavano con orrore e paura e non cessavano dal colpirmi con insolenze ed attacchi. Per non dire tutto, tenteremo di chiarire con questo discorso perché me ne andai da lì. Narrare infatti nei particolari quello che mi hanno fatto patire, necessiterebbe di troppo tempo e di troppo spazio. Il papa aveva mandato in Italia degli inquisitori per indagare sui Greci, e se ne avessero trovato uno che non aderiva ai dogmi latini, avrebbero dovuto mandarlo al rogo. Giunti che furono nella nostra città, e informatisi sul mio conto [……..] meditando per l’indomani di trascinarmi al loro tribunale e di farmi bruciare come eretico incallito. Considerando che se avessi abiurato avrei perso la vita futura che ancora non mi ero acquistato, e se resistevo quella presente, non volendo perdere né quella né questa per amore del corpo, prima di andare al loro cospetto, a sera fuggii in anticipo. E così, giunto fino a voi guidato dal favore di Dio, [ rendo grazie] a Dio che mi ha ritenuto degno di quella fuga e di unirmi a voi; a gloria di Dio, al quale spetta l’adorazione nei secoli dei secoli, amen.

Inizia dunque un’esplicita intolleranza verso ogni posizione teologica greca, il che renderà impossibile ogni tentativo di dialogo come quello esperito da Barlaam di Seminara. Gli eventi politici avevano intanto acuito le ostilità: nel 1204 la Quarta Crociata aveva saccheggiato Costantinopoli e dato vita, per sessant’anni, a un sia pure precario Impero Latino, minacciato dai Turchi e dagli Stati greci di Epiro, Nicea, Trebisonda; e dagli appetiti contrastanti di Venezia, Genova e potentati franchi. I nuovi sovrani greci avrebbero tuttavia avuto bisogno di aiuto contro i Turchi, donde i tentativi ripetuti di riconciliazione, ma sempre invano. Ragioni teologiche, antiche ostilità e interessi politici fecero crescere l’inconciabilità delle posizioni; ed è ben noto il fallimento del Concilio di Firenze quasi alla vigilia dell’assalto finale ottomano a Costantinopoli.
In quegli anni la Calabria assiste a un fenomeno di accelerazione del distacco dalla grecità che porterà alla fine ogni resto dell’antica presenza bizantina.

Così leggiamo nella Calabria Illustrata[3]:

DEL B. MATTEO ARCIVESCOVO. Reggio fu la patria felice di questo b. arcivescovo. Trasse egli i suoi natali l’anno 1415 dalla famiglia Saracena, e perché papa Callisto III bandì l’anno 1455 la Crociata contro de’ Turchi, servendosi de’ frati Minori, Matteo non tralasciò di far la sua parte nella Calabria; onde predicando raccolse tanto danaro, che poté armarne due galere, altri dicono tre, delle quali fatto egli capo, portando in mano lo stendardo di Cristo, e nel petto la Croce, navigò nell’Asia, dove per tre anni continui travagliò indefesso, o rubando o riscattando schiavi cristiani, e portandoli in paesi di libertà. Ritornato in Italia, ed essendo molto conosciuto il suo merito da Enea Silvio Piccolomini, il quale con nome di Pio II era succeduto a papa Callisto, in remunerazione delle sue fatiche, lo creò arcivescovo di Rossano. Era di quel tempo la Chiesa di Rossano servita da Greci, ed al rito greco, il che dispiacendo al santo prelato risolse traportarla al rito latino; e perciò lasciati i canonici greci nella loro cattedrale antica, ordinò che per i latini si fabricasse un duomo più magnifico. Sdegnando la nuova fabrica i Greci, non pure non vollero dar aiuto alla fabrica; ma oltre più imbestialiti sfabricavano di notte tutto ciò che li latini fabricavano il giorno. Ma Iddio, che volea a tutte maniere tirar avanti quella fabrica, fé che tutti i figliuoli de’ Greci nascessero con la bocca deforme, a guisa di porci. Atterriti perciò da questo accidente li Greci, e da quello, quale stimavano, com’egli era, castigo del Cielo, resi più saggi, si pentirono del commesso fallo, supplicando di perdono Iddio ed il prelato. Così, e cessò la nascita mostruosa de’ fanciulli, si tirò avanti la fabrica. Altri dicono, che questo avvenimento non fu per la fabrica del duomo, ma del monastero del suo Ordine, sotto titolo di S. Bernardino. Governò Matteo anni 21, e sempre santamente, e sempre santamente questa chiesa, e morì con grand’opinione di santità l’anno 1481…

Abbiamo voluto riferire anche quel sorprendente episodio di un padre francescano che si fa ammiraglio di una flottiglia e dichiara una specie di guerra privata ai Turchi. Come arcivescovo di Rossano combatte i Greci, fino a costringerli alla resa con strumenti in verità troppo orrendi per attribuirli a Dio.
Azzardiamo qui l’ipotesi che una certa tara genetica dovesse essere presente in qualche strato della popolazione, se resta tuttora il cognome Trichilo, “tre labbra”.
In quegli stessi anni passò al rito latino anche Gerace. Conservò fino al 1574 il rito greco, come la lingua fino a tempi molto recenti, la diocesi di Bova.
Diverso fu l’atteggiamento della Chiesa Romana e delle stesse autorità politiche nei confronti del monachesimo greco, di cui ci si prese cura. Nel 1457, su impulso del cardinale Bessarione, venne inviato in Calabria il monaco e dotto Atanasio Calceopulo, con l’incarico di visitare quanto restava degli antichi cenobi. Il quadro da lui tracciato nel Liber visitationis non fu consolante: scarso era il numero dei monaci, e discutibile la loro qualità. Nel 1579, per volontà del cardinale Sirleto, venne costituito un Ordine Basiliano, che fino alla metà del XVIII secolo possedette cenobi e seguì una gerarchia provinciale, con una certa conservazione della cultura greca; anche se è probabile i monaci fossero di origine e lingua latine. Si tratta di una cristallizzazione culturale, un’operazione meritevole ma artificiosa, cui affidare una memoria storica senza speranza.
L’essere in parte greca attirò sulla Calabria la taccia di estraneità e persino di eresia. Si diffusero nel XVI secolo le peggiori calunnie: letto Aulo Gellio, si venne a sapere che i Bruzi erano stati ridotti a schiavi pubblici; una congettura dopo l’altra, ed ecco l’accusa suprema: furono dei calabresi a crocifiggere Cristo! Seguirono non satire e ironie e sferzanti risposte, ma impacciati tentativi di dimostrare non essere vero! Segno di un senso latente di estraneità, inferiorità.
La cultura laica calabrese accompagna lo sforzo di ostentata latinizzazione. Il Barrio[4] piega i toponimi più palesemente greci, persino quelli con nomi di santi, pur di farli passare per romani.
Qualche tempo dopo, si narrò nella mia famiglia, ma senza precisione di tempi e luoghi, un prete barbuto dei miei avi si trovò altrove e doveva dir messa. Il sacrestano glielo vietò prprio per la barba. Egli, alto e grosso, sollevò l’ometto fino al Crocifisso, egli fece notare che la portava anche Nostro Signore! Conflitti che andavano spegnendosi; e infatti di questa residua grecità del mento non restò alcuna traccia, e se altri preti produsse la mia famiglia, erano glabri come tutti i cattolici latini.
L’ultimo colpo alla memoria della grecità romea lo diede Voltaire, e oggi l’accademico calabrese medio si fa un dovere di parlar male dei Bizantini; oppure, pietosamente, di dichiararli monaci, tutti monaci, e tutti rigorosamente santi.

autore: ULDERICO NISTICO’



[1] M. Gigante, Poeti italo-bizantini di Terra d’Otranto nel sec. XIII, in La Parola del passato, VI (1951).

[2] G. Mercati- P. Franchi de’ Cavalieri: Codices vaticani graeci I:Codices 1 – 329 , Roma, 1923, pag. 469.

[3] Padre Giovanni Fiore da Cropani, Della Calabria illustrata, Tomo II, (a cura di Ulderico Nisticò), Rubbettino, Soveria Mannelli, 2000.

[4] Gabriele Barrio, De antiquitate et situ Calabriae, Roma 1571.

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Di Nicola

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