“Il romanzo storico va soggetto a due critiche diverse, anzi direttamente opposte; e siccome esse riguardano, non già qualcosa d’accessorio, ma l’essenza stessa d’un tal componimento; così l’esporle e l’esaminarle ci pare una bona, se non la migliore maniera d’entrare, senza preamboli, nel vivo dell’argomento. Alcuni dunque si lamentano che, in questo o in quel romanzo storico, in questa o in quella parte d’un romanzo storico, il vero positivo non sia ben distinto dalle cose inventate, e che venga, per conseguenza, a mancare uno degli effetti principalissimi d’un tal componimento, come è quello di dare una rappresentazione vera della storia.” (Alessandro Manzoni)

 

il longobardo

Il longobardo di Marco Salvador è uno dei miei romanzi preferiti. Non lo nego, è uno dei pochi libri che ho letto più di una volta. La tecnica narrativa è efficace e ti fa vivere la storia nei suoi dettagli. I personaggi sono molto vivi e non idealizzati. Sembrano persone normali che potresti incontrare tutti i giorni e questo permette al racconto di essere ancora più reale. Come un novello Manzoni, Salvador, recupera la vera storia del più famoso re longobardo Rotari, e ne inventa la giovinezza descrivendola con una solida base storica ma arricchendola con antefatti di pura fantasia. Nella lettura questo non traspare; non si capisce dove inizia la storia documentata dalle fonti e dove, invece, inizia il racconto fantastico. Marco Salvador è bravo anche in questo.

Veniamo alla sinossi.

Il racconto narra le vicende di un siriano, chiamato Stiliano, che visse a Concordia (l’odierna Concordia Sagittaria in provincia di Venezia) assieme al padre. La mancanza della madre, persa in tenera età, lo portò ad avere una vita sregolata, fatta di eccessi, equamente divisi tra alcool e prostitute. Quando tutto sembrava ormai perduto,  ecco che arriva la giusta opportunità per cambiare vita e per redimersi. In una fara, ossia una piccola comunità longobarda, dell’alto Friuli,erano alla ricerca di un precettore romano che sapesse insegnare le basi culturali al giovane Rotari, futuro re del popolo longobardo. La vita asettica imposta in quel luogo permise a Stiliano di recuperare fiducia in se stesso e di trovare nuovamente la felicità, anche grazie all’accoglienza della stessa comunità longobarda, ma soprattutto grazie all’amicizia che sbocciò con Rotari, tanto da divenirne il perno centrale di tutto il romanzo. Stiliano sarà parte integrante della vita del giovane Rotari, che da adolescente, diverrà prima duca di Brescia, e poi re di tutta la sua stirpe.

Il racconto essendo ambientato nel VII secolo, descrive anche i rapporti tra i Longobardi e i Romei, quest’ultimi descritti ahimè, come politici senza scrupoli, oltremodo esosi, e chiaramente uomini di scarsa morale. La storia è seguita in maniera molto dettagliata e l’intreccio narrativo è molto interessante, tanto che riesce a spaziare in diversi luoghi, da Concordia, ad Oderzo, da Brescia alla Siria, dalla Siria a Costantinopoli, per poi arrivare fino a Pavia, antica capitale del Regnum Langobardorum. Durante il racconto vi sono diversi riferimenti alla diatribe cristologiche in atto in quel periodo, come l’arianesimo, lo scisma ricapitolino, e addirittura l’eresia Basilide.

La cosa che impressiona maggiormente è la scelta storica, da parte dell’autore, di seguire in maniera molto dettagliata la vita della tribù longobarda costituita all’interno della fara. Viene infatti descritta la micro-società al suo interno, il rapporto del potere, la religione ancora paganeggiante (bellissimo il riferimento all’antico uso pagano della corsa all’albero sacro e  il continuo riferimento alla vipera), l’armamento del guerriero, la struttura delle case, l’arte della caccia, e addirittura il loro rito funerario. Particolarmente efficace è la descrizione del vecchio capo della fara, Faroaldo, un uomo di poche parole e di brusche maniere, ma deciso e così ascoltato all’interno della comunità, da imporre molte volte le sue scelte all’assemblea dei guerrieri. Commovente, e assai precisa, è la descrizione della sua inumazione.

L’intervista che ne segue cercherà di spiegare il punto di vista dell’autore sulla sua opera, sulla descrizione degli “odiati bizantini” e molto altro.

Intervista con l’autore Marco Salvador
(per maggiori dettagli sulla sua vita vedi www.marcosalvador.com)

a cura di Nicola Bergamo

Per prima cosa vorrei ringraziarla di avermi concesso questa sorta di breve intervista, il libro mi è personalmente piaciuto, l’ho letto pure due volte. Il mio unico vero rammarico riguarda la descrizione dei bizantini e spero che grazie alle domande che seguiranno, possa io cambiare idea o almeno interpretare nella maniera corretta, il Suo punto di vista.

Perché ha deciso di scrivere un romanzo sui Longobardi? La scelta dell’ambientazione è legata alla sua terra natia? 

La cosa è un po’ complicata, perché di motivazioni ce ne sono parecchie. Di longobardi mi interesso da sempre nell’ambito delle mie ricerche sulle consuetudini giuridiche nelle comunità rurali del medioevo. Nel territorio friulano sono all’origine di un diritto consuetudinario piuttosto anomalo e di difficile comprensione per gran parte degli studiosi. Ad esempio la proprietà della terra abbinata alla condizione libera bastava a far uscire un singolo manso dalla sudditanza feudale del dominus loci, e lo stesso diritto penale era di fatto in mano ai liberi delle vicinie, arimanni a prescindere dal ceto e con gran scandalo di papi e principi. Inevitabile dunque averli sempre presenti. Poi io tendo a ‘tifare’ per i perdenti, in particolare per chi ha subito una damnatio memoriae. E chi più dei longobardi ne è stato vittima a causa della loro opposizione al potere temporale del papa? Inoltre sono un popolo ‘ponte’ che ha permesso il passaggio dal disfacimento di un impero alla ricostruzione di un altro, e per primi hanno sognato uno stato italiano unitario. Eppure i libri di testo dedicano loro a malapena una paginetta o due, credo persino meno degli unni. Infine, per non farla troppo lunga, quando ho visto spendere miliardi per ricercare un’origine celtica dei friulani, mi sono detto che se proprio dovevo avere un antenato preferivo fosse longobardo.

Perché ha scelto Rotari? Che cosa ha maggiormente colpito la Sua fantasia di questo strano e per molti versi controverso personaggio?

Al di là del passo di Paolo Diacono che lo descrive forte e prestante, oppure del suo editto, a intrigarmi è stato il poco della sua vita privata che emerge dagli atti  e dalle cronache. E poi Rotari è la chiave di volta del regno longobardo, colui che ha “tagliato” esarcati e pentapoli permettendo anche una continuità geografica dello stesso. Non ultimo, confesso, ha giocato il fatto che le notizie su di lui siano concordanti e perciò non si è costretti più di tanto a interpretazioni.

Stiliano è di origine siriana e mi sembra di capire che il romanzo voglia dimostrare una buona capacità da parte dei longobardi di assimilare uno “straniero”. Concorda con questa tesi?

No. E purtroppo, devo dire. Fossero stati capaci di assimilare i non longobardi, coloro che chiamavano con spocchia “romani”, il loro destino sarebbe stato ben diverso. Inoltre Stiliano non è solo un artificio letterario, un Virgilio che ci accompagna in un mondo sconosciuto. È anche un’ipotesi di come ci si può integrare senza perdere la propria identità. Nei miei romanzi racconto il ieri cercando di parlare dell’oggi.

Per costruire la storia si è basato sull’opera di Paolo Diacono? I riferimenti storici sono molto evidenti. Mi hanno colpito molto l’uccisione di Taso e Kakko e l’invasione Avara di Cividale. Come mai questa scelta?

Non solo il buon Paolo ma tutte le cronache e i codici, dalla salernitana a quella della Novalesa via l’Origo, Erchemperto e il Cavense, tanto per citare i più noti, e comunque ogni altro studio reperibile. Anche le fonti franche, una delle quali, ad esempio, mi ha permesso di ricollocare l’invasione avara in un periodo diverso da quello paolino. Né ho scordato cronache tarde per comparare la ‘colpevolizzazione’ femminile nei vari eventi luttuosi: anche la caduta di Pavia, a distanza di un secolo, venne attribuita dai cronisti a una “Romilde” ticinese. È la maledizione di Eva.

Come mai inserisce le diatribe cristologiche all’interno del Suo racconto? Crede che fossero così importanti anche per la gente comune?

In qualche modo le ho già risposto. Ci sono inquietanti similitudine fra allora e oggi nella chiesa cristiana, uguali divisioni e un insopportabile e dilagante pauperismo che rasenta il donatismo. A me i fanatici, coloro che credono di avere in tasca la chiave per il ‘mondo perfetto’, hanno sempre fatto paura. Li considero un pericolo per la libertà. Almeno io la penso così. Il mondo perfetto è quello imperfetto del dubbio, di questo sono certo. Infine sì, penso fosse importante anche per la gente comune. Durante lo scisma dei Tre Capitoli, dalle parti mie pure un contadino doveva scegliere quale vescovo riconoscere come legittimo.

La tribù o meglio la fara, era il nucleo più importante del primo periodo longobardo. E’ per questo motivo che la sceglie come epicentro della società che vuole descrivere? E soprattutto perché contrappone la fara con la corte reale, lasciando comunque intendere che la prima sia meglio della seconda?

Certo, la fara grazie alla comunanza dell’origine e una certa unitarietà del sangue era una specie di famiglia allargata, la cellula su cui si fondava l’intera società longobarda. E qui, inevitabilmente, c’è anche una mia visione etica della società. Il potere, qualsiasi potere, quando non è servizio è abuso. Il potere corrompe, demolisce eroi e crea dei. E come si sa, se gli eroi divengono tali morendo per un ideale, le deità invece tendono a riprodurre se stesse per non morire. Sono contro l’ordine naturale, creano divisioni e decadenza.

Veniamo ai bizantini. Come mai sceglie di descrivere questo popolo seguendo la solita prassi dell’accezione negativa? Eppure sappiamo che prima della dura sconfitta di Baduario nel 575, molti longobardi avessero già deciso di stare con l’impero. Questo dimostrerebbe, oltre al duca Droctulfo, che molti dei nuovi venuti simpatizzassero per l’impero e allora perché questa scelta?

Mi dispiace aver dato questa impressione. Non era la mia intenzione, anche se forse sono stato influenzato da antiche letture come l’Anecdota di Procopio o ‘L’ambasceria’ di Liutprando da Cremona. Devo confessarlo, nonostante la sua rivalutazione in particolare per il ruolo avuto durante le guerre persiane, non ho ancora trovato il punto di equilibrio tra la Teodora di Procopio e quella dei mosaici ravennati. E lo stesso vale per gran parte dei personaggi bizantini. Forse c’è anche qui una damanatio, e per certo la storia bizantina ha un tale strato di incrostazioni negative che è difficile oggettivarla. Poi c’è il solito rapporto ieri-oggi. Ciò che non perdono a Bisanzio è di avere creato le premesse della sua stessa dissoluzione. Mi riferisco a un’altra attualità: Costantinopoli si è servita degli arabi, li ha armati e militarmente allevati senza capire di stare organizzando la propria fine. Questo le fa venire in mente nulla? Lei dirà che forse semplifico grossolanamente, e in parte è senz’altro vero. Ma a me, insisto su questo, la politica bizantina tra VII e XIV secolo ricorda tristemente quella occidentale di oggi, il che m’impedisce l’obiettività dello storico. In uno scrittore, alle volte, la sensazione vince sul ragionamento. E io ho scritto un romanzo, non un saggio. Perciò mi perdonerà se vivo più le sensazioni della realtà. Ma per tornare ai longobardi, essi sognarono l’Italia grazie ai bizantini. La videro durante le guerre gotiche come loro alleati e ormai si dà per certo, almeno credo, che Belisario qualcosa fece per agevolare la loro conquista di questo Paese.

Nel racconto appare un’eccellente descrizione di Costantinopoli. Come mai ha deciso di inserire anche una parte dedicata alla capitale imperiale?

Perché è nell’orientale Costantinopoli che per oltre un millennio è sopravvissuta la civiltà dell’occidente. Io sono uno di quelli che credono nelle radici giudaico-cristiane, ma trovandole limitate. Un bel fittone della nostra civiltà è bizantino, e questo tende a venire sminuito tirando costantemente in ballo il “bizantinismo”. Poi quelle mie pagine sono un planctus su Costantinopoli, su Santa Sofia e San Giovanni. Purtroppo, a meno che non mi sia sfuggito, non c’è un “romanzo bizantino”. E cedo che il motivo sia la paura del politicamente scorretto. È un po’ come l’ultima storiografia sulle crociate. Una massa di predoni e briganti sporchi, crudeli e selvaggi che si riversa su dei santi pacifici, civilissimi, buoni e privi di colpe. Una vera baggianata. Io ci sto pensando a un romanzo che rimetta le cose al suo posto anche per Bisanzio, ma la cosa mi fa tremare i polsi. Non si tratterebbe di affrontare un microcosmo come quello longobardo, ma di immergersi in un oceano dove l’orizzonte si sposta sempre più in là. Inoltre, almeno per ora, non credo di avere la preparazione necessaria.

A Costantinopoli vengono descritti i Demi e i loro rappresentanti, inoltre appare imponente la figura di Eraclio. Come mai la scelta di descrivere questo spaccato della società?

Sa, mio padre è morto quando avevo un paio di settimane di vita. Quel poco che ho saputo e conosciuto di lui l’ho trovato in mia madre e nel suo sangue. Un evento, un fatto, un aneddoto scoperti grazie a uno zio o una sua cognata. Qui è la stessa cosa. Se voglio scoprire qualcosa in più sulle mie radici, debbo ascoltare attentamente anche un aneddoto bizantino. E poi Eraclio a me piace proprio tanto, lo trovo una figura straordinaria.

In conclusione, crede che il rapporto tra Longobardi e Bizantini sia sempre stato riottoso, o come dice Stiliano, sia stata colpa degli Esarchi?

Che gli esarchi fossero in gran parte dei rapinatori è difficile negarlo. Ma ciò che ha creato inimicizia fra longobardi e bizantini è la solita faccenda. A Costantinopoli, per miopia politica, si vedeva la pagliuzza e non la trave. Insomma, i longobardi a Ravenna e non il papa a Roma. E si faceva del “bizantinismo” per riavere il proprio tramite il papato, con la convinzione di poterlo poi giocare. Non si erano accorti che il vero ‘bizantinismo’ abitava ormai in Laterano e stava contagiando Aquisgrana. Se ne sono accorti dopo Desiderio, con Adelchi. Ma ormai era troppo tardi. E questo ho cercato di raccontarlo ne ‘La vendetta del longobardo’.
Un grazie di cuore per la gentile concessione, e spero di poter continuare con il secondo libro “La vendetta del Longobardo” e per poi finire con il terzo “L’ultimo Longobardo”.
Sono io a ringraziare lei, anche per il suo sito e la rivista on-line. Ci sono interventi eccezionali, perle di studiosi davanti alle quali togliersi il cappello. Ultimamente lo sto letteralmente rapinando, lo confesso. Sa, nel caso trovassi il coraggio di scrivere il famoso ‘romanzo bizantino’.

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Di Nicola

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