Il sacco di Costantinopoli del 1204

Difficile stabilire la responsabilità degli avvenimenti che hanno portato i crociati, nel 1204, alla conquista di Costantinopoli, città cristiana anche se di fede greco-ortodossa, anziché Gerusalemme in mano ai Musulmani. Gli attori sono il papa Innocenzo III, i Veneziani del doge Enrico Dandolo e la maggior parte dell’alta nobiltà europea agli ordini di Bonifacio di Monferrato. In base alle fonti, a parte quella relativa a Niceta Coniate, si direbbe che la presa di Costantinopoli sia stata il risultato di una “concatenazione di circostanze, di una serie di sventure e di errori umani, la cui conclusione predestinata né il papa né alcuna altra potenza poteva impedire”[1].

Subito dopo la presa di Costantinopoli, i grandi signori si impadroniscono dei palazzi e conventi più ricchi: il marchese di Monferrato occupa il boukoleon[2], un complesso monumentale composto da 500 sale e 30 fra chiese e cappelle[3], oltre alla chiesa di Santa Sofia e la sede patriarcale, mentre Enrico di Hainaut, fratello di Baldovino di Fiandra, occupa la Blacherne, il nuovo palazzo imperiale di circa 200 sale e 20 fra chiese e cappelle[4]. Di questo comportamento lo stesso Roberto di Clari si lamenta, ritiene infatti ingiusto che i grandi signori si accaparrino le migliori prede a discapito dei cavalieri più poveri[5]. In ogni caso, per tre giorni, dal 13 al 15 aprile, non viene esercitato alcun controllo sui crociati che sono liberi di saccheggiare la città.

Se gli storici testimoni oculari occidentali sono piuttosto reticenti per non dire silenziosi sulle violenze perpetuate sui bizantini, sono, al contrario, estremamente prodighi nel definire il bottino incredibilmente ricco. Ecco come si esprime l’imperatore Baldovino I in una lettera inviata al papa Innocenzo III per informarlo degli avvenimenti: “Viene presa una innumerevole quantità di cavalli, di oro e di argento, di sete, di vesti preziose e di gemme e di tutto ciò che tra gli uomini è elencato tra le ricchezze. Viene trovata una tale immensità di abbondanza che non pareva possedere l’intera Latinità (…)”[6]. Goffredo di Villehardouin dice che “il bottino fu così grande che nessuno saprebbe dirvene la fine, oro e argento e vasellame e pietre preziose e drappi di raso e di seta e vesti di vaio e di grigetto e di ermellino e tutte le cose più ricche che mai si trovarono in terra”[7]. Anche Gunther di Pairis così si esprime: “Trovarono quindi in abbondanza qua e là una tale quantità di argento e di oro, tale splendore di gemme e di vesti, tanta ricchezza di merci preziose, tanta abbondanza di viveri, dimore così eleganti e ricolme di ogni bene, che tutti improvvisamente da poveri e stranieri che erano divennero ricchissimi abitanti della città”[8]. Infine Roberto di Clari, ancora più entusiasta: “E c’era ricco vasellame d’oro e d’argento e drappi a trama d’oro e tanti ricchi gioielli che era una vera meraviglia quel bottino (…) infatti, dacché il mondo fu creato, non erano mai stati visti né conquistati tesori così grandi, né così magnifici, né così ricchi, né ai tempi di Alessandro, né ai tempi di Carlo Magno, né prima, né dopo. Neppure io credo, per quanto a mia conoscenza, che nelle quaranta città più ricche del mondo vi siano tante ricchezze quanto se ne trovarono a Costantinopoli”[9].

Oltre a tutte queste magnificenze di tipo secolare, in questa città, ve ne sono altre, di altrettanto valore, di tipo religioso. Costantinopoli infatti è diventata nel tempo sede di un gran numero di oggetti il cui potere miracoloso ha loro conferito un grandissimo valore: le reliquie. Questo incomparabile tesoro aveva addirittura spinto alcuni a proporre, nelle ultime assemblee dei crociati, di tornare nella capitale bizantina dopo la conquista della Terra Santa. Si era infatti radicata l’idea che la città scismatica non fosse degna di possedere queste importantissime reliquie e che prenderle con la violenza non fosse peccato[10].

Per avere un’idea della quantità e della preziosità delle reliquie che erano a Costantinopoli ecco l’elenco di quelle portate via solo dal vescovo di Halbertstadt per onorare la sua chiesa: un’ampolla con il sangue di Gesù; un pezzo della Vera Croce; parte del Santo Sepolcro; una parte della Corona di spine; una parte del Santo Sudario; un frammento del tessuto che aveva impressa la faccia di Cristo; la spugna e la canna della Crocefissione; capelli della Vergine Maria e alcuni suoi indumenti; una parte della testa e dei capelli di Giovanni Battista oltre che un suo dito e alcuni suoi indumenti; una tibia, capelli e frammenti di abiti di San Pietro; un pezzo della carne di San Paolo e reliquie di San Andrea; un braccio dell’apostolo Simeone; la testa di san Giacomo; la scapola dell’apostolo Filippo; un braccio dell’apostolo Barnaba; parte della testa di Stefano, il primo martire, insieme al gomito; un braccio del papa Clemente; reliquie di San Lorenzo, San Procopio, San Teodoro, San Demetrio, Abele, San Martiniano, San Pantalone, San Ermolao, San Ermagora; un dito di San Nicola; reliquie di San Giovanni Crisostomo, San Giovanni Elemosinaro, San Gregorio, San Basilio; la mano e braccio di Sant’Eufemia; reliquie di Santa Lucia, Santa Margherita, Santa Caterina, Santa Barbara, e molti altri santi martiri, confessori e vergini[11].

Lo stesso Roberto di Clari, semplice cavaliere, porta a Corbie, al suo ritorno in Francia, cinque pezzi della vera Croce; un po’ del Santo Sangue, un frammento del tessuto che copriva i lombi di Cristo quando era sulla croce,una parte della corona di spine, una parte della spugna e circa 45 reliquie di persone o di cose[12].

Bisogna pensare che ogni chiesa, ogni santuario, ogni monastero di Costantinopoli aveva delle reliquie di grande importanza spirituale che hanno fatto della capitale bizantina una delle mete principali del pellegrinaggio religioso. Per i numerosi prelati al seguito dei crociati non risulta difficile riconoscere e appropriarsi di queste reliquie, testimonianza tangibile dell’eredità cristiana e quindi di enorme valore simbolico. Oltretutto, come già accennato, queste sottrazioni non appaiono come gesti di dubbia moralità anzi sembra siano frutto di una vera e propria missione, tesa a mettere questi oggetti al sicuro in mani migliori di quelle eretiche bizantine.

Comunque la perdita di vite bizantine e la distruzione fisica della città è enorme. Nonostante i precedenti giuramenti di non toccare le chiese, i monasteri e di non molestare le donne, nei tre giorni del saccheggio, non essendoci alcun controllo, i crociati non hanno remore di alcun tipo. La capitale dell’impero romano d’oriente cade in preda ad un dei sacchi più tremendi e metodici che la storia abbia mai conosciuto. Niceta Coniata è testimone oculare anzi si salva lui stesso a stento grazie alla collaborazione di un mercante di vino veneziano, un certo Domenico, che fingendo di avere catturato lui e la sua famiglia, riesce a portarlo fuori della città[13]. La descrizione che dà delle efferatezze perpetuate dai crociati è terribile: “Ognuno aveva la propria pena, nelle strette vie si udivano singhiozzi e lamenti, nei trivi gemiti, nelle chiese pianti, grida di uomini, urla di donne e arresti, sequestri, stupri e separazioni fisiche di gente fino ad allora insieme. I nobili si aggiravano nudi, i vecchi lamentandosi della vecchiaia, i ricchi derubati. Così accadeva nelle piazze, così negli angoli, così nei santuari, così nei luoghi nascosti: non c’era nessun luogo che non fosse perquisito o che offrisse sicurezza a chi soffriva”[14].

I crociati vengono così descritti da Niceta Coniate: “[…] estranei alle Muse e senza familiarità alcuna con le Grazie, hanno natura feroce e l’ira più rapida delle parole.”[15]. Neanche la cattedrale di Santa Sofia si salva: “L’altare sacrificale, ricoperto di ogni tipo di materiali preziosi, fusi assieme col fuoco e intarsiati in una straordinaria bellezza e policromia, assolutamente rara e degna dell’ammirazione di tutti, fu fatto a pezzi e diviso fra quei predoni, così come tutto il sacro tesoro, altrettanto ricco e infinitamente prezioso (…)”[16]. Per portare via l’enorme quantità di oggetti preziosi vengono introdotti nella chiesa degli asini che sporcano con i loro escrementi il pavimento della cattedrale mentre una donnaccia seduta nel seggio patriarcale deride Cristo cantando e ballando[17]. Vale la pena di riportare la descrizione dell’altare lasciata da Roberto di Clari prima del saccheggio: “L’altar maggiore della chiesa era così ricco che non gli si potrebbe attribuire un valore preciso. Infatti la predella, su cui poggiava l’altare, era tutta d’oro e di pietre preziose, squadrate e molate, tutte fuse insieme, che aveva fatto fare un ricco imperatore, e questa predella era lunga ben quattordici piedi. Intorno all’altare, c’erano colonne d’argento che sostenevano un tabernacolo sull’altare, che era fatto a forma di campanile, tutto d’argento massiccio, tanto ricco che non se ne può stimare il valore”[18].

I crociati non si fermano nemmeno davanti ai sepolcri degli imperatori, contenuti nel mausoleo dell’“Heroon” presso la chiesa dei Santi Apostoli, prototipo di San Marco. Qui è il luogo di sepoltura di Costantino il Grande e di gran parte degli imperatori di Bisanzio fino all’XI secolo, oltre che di un gran numero di vescovi e patriarchi; e qui viene profanata perfino la tomba di Giustiniano per depredarne gli arredi sacri.

Dal punto di vista artistico lo scempio è catastrofico. Vengono infatti sistematicamente distrutte le opere in bronzo come le statue che ornano le piazze o gli edifici pubblici per fonderle e ottenerne monete. Si tratta di opere di valore artistico assoluto, poste soprattutto nel centro della città, nell’area cioè dell’ippodromo, dei fori imperiali e del palazzo imperiale, descritte con infinito rimpianto da Niceta Coniate. Così si apprende che vi era una gigantesca statua di pesante bronzo collocata nel foro di Costantino che rappresentava Era, dalle dimensioni talmente grandi che, una volta smantellata, per trasportare la testa al Gran Palazzo, dove probabilmente era allestito il crogiuolo di fusione, c’era voluto un carro trainato da 4 buoi aggiogati. Viene fusa anche una magnifica statua che rappresentava Afrodite che porge a Paride la mela della discordia e un incredibile e singolare meccanismo di proporzioni gigantesche con funzione di banderuola dove “vi era rappresentato ogni uccello cantatore che gorgheggi le melodie primaverili; vi erano raffigurati le opere dei contadini, flauti, mastelli, pecore belanti e saltellanti capretti; sotto scorreva l’acqua del mare e si vedevano branchi di pesci, alcuni dei quali caduti nelle reti, altri che le rompevano e di nuovo si immergevano liberamente nelle profondità marine; c’erano alcuni amorini, a gruppi di due o tre, gli uni di fronte agli altri, nudi, mentre si scagliavano reciprocamente delle mele, scuotendosi tutti in una dolce risata. In alto, sull’aguzza punta di quel monumento quadrangolare terminante a forma di piramide, si vedeva una statua femminile che si rigirava ai primi soffi del vento: per questo motivo era detta anche Anemodoulion[19].

Stessa sorte tocca alla statua equestre posta su un basamento di quattro colonne sormontate da una lastra di marmo di Bellerofonte in sella a uno splendido Pegaso. Sistematica è poi la distruzione di quasi tutte le opere in bronzo poste nell’ippodromo come la gigantesca statua di Ercole così grande che “una corda che avesse avvolto il suo pollice sarebbe stata una cintura adatta ad un uomo”[20]. Medesimo destino tocca al gruppo statutario dell’asino e l’asinaio provenienti da Azio dove era stato messo da Augusto dopo la vittoria su Antonio. E ancora un uomo che combatte un leone, il cavallo del Nilo con la coda ricoperta di squame, un elefante, le Sfingi, la famosa aquila di bronzo di Apollonio di Tiana e molte altre che qui sarebbe troppo lungo elencare.

Sicuramente anche i veneziani avranno avuto la loro parte in questo scempio ma sembra che siano stati più inclini alla conservazione dei beni artistici bizantini piuttosto che alla loro distruzione. Infatti la magnifica quadriga posta anch’essa all’ippodromo assieme a molti altri oggetti di cui più avanti si parlerà, viene salvata e inviata dal doge Dandolo, a Venezia.

Dopo i tre giorni di saccheggio, il marchese di Monferrato, in qualità di capo dell’esercito, e il doge ordinano, come convenuto, che tutto il bottino sia portato in 3 chiese destinate a luogo di raccolta e difese da soldati francesi e veneziani, in ugual numero, particolarmente fidati[21].

autore: GIANCARLO MOLANI



[1]           DONALD M. NICOL, Venezia e Bisanzio, Rusconi libri S.p.A, Milano 1990 pag. 169.

[2]           GEOFFROY DE VILLEHARDOUIN La conquista di Costantinopoli, traduzione di Fausta Garavini, Editore Boringhieri s.p.a, Torino 1962, pag.106.

[3]           ROBERTO DI CLARI, La conquista di Costantinopoli (1198 -1216), studio critico, traduzione e note di Anna Maria Nada Patrone, collana storica università di Genova, Università di Genova, Genova 1972, pag. 216.

[4]           VILLEHARDOUIN, op. cit. pag. 106.

[5]           ROBERTO DI CLARI, op. cit. pag.213-214.

[6]           Registrum Innocentii, reg. VI, 210, in RAVEGNANI, La caduta di Costantinopoli, fonti bizantine e occidentali sulla quarta crociata, Dipartimento di Studi Storici, Università Cà Foscari di Venezia, Venezia, 2004, pag. 188.

[7]           VILLEHARDOUIN, op. cit. pag. 107.

[8]           GUNTHER DI PAIRIS, Historia Constantinopolitana, in RAVEGNANI, La caduta, op. cit. pag. 129.

[9]           ROBERTO DI CLARI, op. cit. pag. 215.

[10]          CHARLES M. BRAND, Byzantium confronts the west 1180-1204, Harward university press, Cambridge, Massachusetts, 1968, pag. 264.

[11]          BRAND, op. cit. pag. 264-265.

[12]          BRAND, op. cit. pag. 265.

[13]          NICETA CONIATA, De signis Constantinopolitanis, a cura di O. MORISANI, F. GAGLIUOLO, A. DE FRANCISCIS, Firenze, 1960.

[14]          NICETA CONIATA, Historia, in RAVEGNANI, La caduta, op. cit. pag. 164.

[15]          NICETA CONIATA, De signis Constantinopolitanis, a cura di O. MORISANI, F. GAGLIUOLO, A. DE FRANCISCIS, Firenze, 1960De signis, op. cit. pag.8.

[16]          NICETA CONIATA, Historia, in RAVEGNANI, La caduta, op. cit. pag. 163.

[17]          Idem, pag. 164.

[18]          ROBERTO DI CLARI, op. cit. pag. 220.

[19]          NICETA CONIATA, Historia, in RAVEGNANI, La caduta. Op. cit. pag. 165-166.

[20]          Idem, pag. 167.

[21]          VILLEHARDOUIN op. cit. pag. 107.

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Di Nicola

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