I figli del tuono e i principi dei flutti

I figli del tuono e i principi dei flutti

 

In un tempo e in un luogo lontano sorgeva un palazzo fronteggiato da cinque altari dalle sembianze umane. Nella materia scura e solida della quercia, gli artigiani del principe avevano pazientemente trovato e fatto riaffiorare lineamenti destinati a raffigurare qualcosa che superava l’umanità mortale. Tra i cinque volti di quercia, uno spiccava su tutti, luccicante per uno strato d’argento a sua volta  acceso dal riflesso aureo di una fluente barba che brillava fin dalle prime luci del mattino.

Gli sguardi di ogni  altare erano cupi e  senza  vita:  gli dei non parlavano e non udivano il lamento del genere umano di cui erano custodi. Essi oltrepassavano la quercia in cui erano raffigurati e si espandevano dallo spazio immediatamente circostante a tutto il percettibile; permeavano ogni elemento: terra, mari in tempesta, fiumi limpidi e perduti nella grande macchia ignota, fiamme crepitanti in villaggi ed accampamenti… Essi arrivavano ad assorbire in sé ogni elemento compreso tra ciò che la mano poteva toccare e la linea lontana dell’orizzonte, irraggiandosi come un’invisibile aura ai quattro angoli del mondo. Erano la scintilla vitale contenuta  tanto nei fluidi bruni e scarlatti che sprizzavano dalle belve abbattute quanto nei vagiti di una nuova nascita. Eppure il loro sguardo rimaneva vuoto, insondabile, senza sentimento, un abisso profondo rivolto più al creato che all’uomo. Essi  non dovevano giudicare, ma nemmeno salvare o redimere oppure perdonare o ascoltare: non conoscevano la pietà. Essi assistevano all’eterno ciclo di rinnovamento, ne erano parte, essi erano. Senza traccia di odio…e senza amore. La forza era il loro credo, e su tutti regnava PERUN, sovrano della volta celeste: un cielo che a tratti si faceva plumbeo, da cui saettava la sua furia, armata di un martello capace di tramutare ogni elemento in pietra. A lui l’uomo doveva rivolgere le proprie preghiere, disperandosi. Le folgori che scendevano erano simili a quelle del mediterraneo Zeus e parimenti temute e venerate.

Questa però era la loro ultima alba, poiché stavano per essere abbattuti. Perun e i suoi fratelli stavano per essere tagliati alla radice e convertiti ad altro uso da altrettanto zelanti falegnami del sovrano, per ordine dello stesso la cui realpolitik dopo molte esitazioni aveva avuto la meglio su timori reverenziali.

Il luogo di cui si parla è Kiev ed il tempo è un millennio orsono, più una manciata di anni: siamo nel 988 d.C.

Il palazzo che compare nell’incipit  (anch’esso in legno probabilmente) è dimora di Vladimir I, il Grande, sovrano della Kiev Rus, meglio noto per essere l’ultimo monarca pagano del proprio regno e forse l’ultimo regnante del continente europeo, fatta eccezione dei re vichinghi, a rispettare ancora il culto dei padri, prima di accogliere il messaggio di Cristo ( ma ciò deve ancora avvenire).  Gli altari che si parano innanzi alla sua reggia raffigurano le principali divinità della civiltà slava e quello più alto che brilla di oro e argento è Perun stesso.

La dimensione pre-cristiana degli slavi dell’antichità è l’ideale punto di partenza per poter tracciare un affresco di quella civiltà che in seguito svilupperà il primo grande stato organizzato nell’Europa orientale. Perun con i suoi fulmini, è il primo, immaginario, tassello di un millenario processo di formazione d’identità che dagli abissi della protostoria ci conduce fino all’età moderna della coscienza slava, plasmata attraverso un plurisecolare viaggio caratterizzato da linee di continuità e violente cesure.

Cosa è esattamente ciò che chiamiamo “KIEV RUS”?  Cosa rappresenta nella storia dell’est Europa? A cosa corrisponde, non solo territorialmente, ma anche nella più importante sfera della psiche, del vissuto storico di quei popoli e dei loro successori nelle età a venire?  Sono questi, naturalmente, interrogativi troppo vasti per l’ambizione di qualsiasi accademico. Proviamo almeno a trasmettere un affresco efficace per quanto superficiale, del processo storico che ci conduce ad essa. Giusto un unico rapido colpo di pennello e, per fare questo, facciamo qualche passo indietro, prima di quel mattino in cui gli altari saranno abbattuti.

Qual è la dimora di Perun? Risposta, semplice: alberga nella coscienza umana che ha fede nelle sue armi, nel suo fulmine. Le fonti antiche ci informano che tutti popoli slavi dell’età tardoantica credono in esso, in questa possente entità uranica che assieme ai suoi fratelli Svarog e Veles, determina il ciclo eonico dell’esistenza. Questo significa un’areale vasto ed inaccessibile: prendiamo innanzitutto coscienza della profondità geografica in cui ci si muove. Puliamo la mappa d’Europa di tutta quella ragnatela di linee e demarcazioni politico amministrative tratteggiate col tormento di migliaia d’anni, e focalizziamo l’occhio sul settore orientale di tale carta, verso un oriente europeo regredito alla sua pura essenza geografica. Immaginiamo noi ora alcune linee, vaghe sfumate come la nebbia: una a nord del Danubio ed un’altra a sud della fascia del Baltico.

Questo asse nord-sud che si sovrappone e fa scintille col limitrofo areale germanico, si estende a dismisura ad est, fino a sfiorare il Volga ei suoi infiniti affluenti, andando a trovarsi per una sua larga superficie nella cintura eco climatica boreale. Non ha realmente confini se non la barriera fisica costituita da invalicabili ostacoli naturali, da popoli estranei o da imponenti difese pianificate da stati organizzati. Non esiste una idioma comune, ma un susseguirsi esasperato di parlate più o meno imparentate tra loro che dà forma ad una Babele mutualmente intellegibile: se, come viandanti, decidessimo di percorrere un’immaginaria linea d’aria che dall’angolo più remoto della taiga del Volga ci porta fino all’attuale propaggine occidentale della Boemia, noteremmo leggere alterazioni, ad ogni miglio di strada, lasciandoci stupefatti a fine viaggio, della coesione, nonostante le divergenze nella totalità, di quello che i filologi di molte ere dopo chiameranno “protoslavo”.  E’ naturale, poiché le genti di cui parliamo sono protoslave ed ancora non si sono evolute nei grandi ceppi slavi di cui la filologia moderna ci informa, men che meno nell’albero di etnie e nazionalità slave note a noi oggigiorno.

Questo grande brodo primordiale ancora indifferenziato, sopravvive in buona simbiosi con l’ecosistema boreale e continentale che lo ospita, non teme i rigori di madre natura, è generalmente robusto e di  altezza mediana, presenta un incarnato chiaro, fino al latteo, che si accompagna ad una moltitudine di varietà del biondo (dalla tonalità del grano fino al castano vivo) ed iridi in massima parte chiare, perlomeno fin verso le zone di transizione dove l’assorbimento di elementi stranieri dà progressivamente vita a nuove fisionomie. Un popolo essenzialmente nordico quello antesignano di tutte le forme di slavità oggi esistenti, che a tratti pare quasi emergere nella sua vitale costituzione, da una bruta era glaciale perdurata ai margini del continente. Anche la moderna antropologia farà eco a tale dimensione identitaria, tanto da nutrire quel mito iperboreo che fa capolino tra le correnti più visionarie dell’antroposofia del XX secolo.

Il brodo primordiale ha molti nomi. Oppure nessuno. Essi non identificano se stessi se non con nomi collettivi, ma con quelli che provengono dalla propria arcaica struttura tribale…i villaggi sono popolati da clan e questi assieme formano tribù che sono in realtà microscopiche entità autogovernate. Sono tante, troppe per essere state riportate tutte: è una costellazione di nazioni grandi quanto una provincia, disperse su un territorio che spazia per metà di un continente, esse si spalmano senza fine dalle radure boeme attraverso la pianura sarmatica e le steppe fino alle estremità sub artiche dei grandi laghi ugro finnici;  Poliani, Drevliani, Dregovici, Voliniani e poi ancora Ulici e Tiverci, Buzhani, Croati bianchi, Severiani, Krivici, Viatici, Radimici e cento altri ancora. Si potrebbero paragonare alle centinaia di nazioni che i pionieri anglosassoni troveranno nel Nord America del XIX secolo.

E’ uno strabiliante particolarismo etno-tribale che nessun artificio moderno della grafica potrebbe rappresentare su una mappa: costoro nonostante l’evidente comunanza linguistica (in cui le fonti bizantine ancora non riescono a trovare demarcazioni chiare) non considerano se stessi un’unica grande nazione, ma obbediscono in toto alla logica particolaristica coeva e questo significa che ogni grande capotribù, ogni valoroso comandante militare è a tutti gli effetti un re.  Abbiamo pertanto, nella concezione tribale di allora, tanti piccoli re, un interminabile avvicendarsi di sovrani e principi il cui regno non varca i confini di pochi villaggi o al massimo di una piccola regione, del tutto analoghi a quei re germanici che costellano il settore occidentale del nordeuropea dalle prime collisioni con l’orbita latina fino al tramonto di quest’ultima.

Analogamente ignoto tanto l’urbanesimo latino, quanto l’universalismo ellenistico. La loro è una civiltà del legno, scaturita dalla roccia, stadio semicivilizzato dell’umanità che ha appena lasciato le foreste dopo aver scoperto l’aratro e la cui coscienza politica non supera il consiglio del clan.

Tutto questo è il cosmo protoslavo nel V° sec dopo Cristo. Pellegrini, viaggiatori, esploratori intrepidi di ogni secolo dell’antichità mediterranea sono già venuti in contatto con queste genti del nord e per legge della soggettività conferiscono loro una denominazione comune, un ombrello che li ricomprenda: diventano così “Vendi”, “Sclavini” e “Anti” nei resoconti che vanno dall’era di Plinio fino a Costantinopoli. Questo porterà gli storici moderni a vedere in tale primeva catalogazione la sorgente della successiva evoluzione tra slavi occidentali (Vendi), meridionali (Sclavici) ed orientali (gli Anti). Tale dimensione non certo sconosciuta, era ancora largamente inesplorata al tempo degli ultimi imperatori romani dell’occidente. Mentre questi ultimi, ormai ombra dei loro predecessori, franano sotto il peso della traiettoria storica ormai stabilita da tempo, Costantinopoli riesce ancora a gestire il processo globale in atto: gli slavi nonostante una generale pressione esercitata, vengono arginati nel loro habitat originario. Del resto il loro stadio di evoluzione è ancora molto arretrato sotto ogni aspetto e malgrado lo scambio commerciale fiorente è assente ogni traccia di cooperazione o associazione che possa dare vita a fenomeni federativi di ampio respiro. In altre parole l’universo protoslavo non è uno stato, non ne possiede coscienza e pertanto alcuna delle prerogative ed aspirazioni che solo un’entità politica organica e strutturata può possedere. L’unica cellula di organizzazione destinata a lasciare un nome nella storia è “MIR” : la più elementare forma di società tra i primi slavi. Nucleo di cooperazione, talvolta collettivo, che si forma presso di loro. Il vasto mare delle tribù slave è destinato a rimanere un semplice fatto materiale, senza finalità definita a parte la sopravvivenza: una massa senza forma che ancora non supera di molto i fondamenti mitico-fantastici della propria esistenza, semplice e genuino frutto della propria cosmogonia. Incastonato in una cosmologia arcana e lineare a simbolo della quale vi è il grande albero, omologo del germanico Iggdrasyl (o “frassino dell’universo”): sui suoi rami più alti l’aquila (personificazione del multiforme Perun), e alla sua base il drago (il fratello maligno, Veles). Dal conflitto di questi principi cosmici proviene la continuazione del mondo, segnata da qualche progresso della materia, come le armi di Perun che dalla nuda pietra diventano metallo (in concomitanza con l’età del ferro) e i tanti riti dell’eterno avvicendarsi delle stagioni. Così prosegue l’esistenza, senza oggi ne domani.

La storia tuttavia va avanti.

L’interminabile ed apparente torpore dei protoslavi si protrae ancora per alcune centinaia d’anni, mentre il mondo cambia attorno ai loro ondeggianti confini : il ¼ di millennio che intercorre tra la deposizione dell’ultimo,  innocente, Augusto dell’occidente romano e la scomparsa dello stato longobardo nell’alta Italia è relativamente tranquillo, fino a che l’intervento incrociato di diversi fattori esterni inizia ad incidere sul processo di formazione identitaria del primitivo cosmo slavo. Storici occidentali e russi non concordano sulle date, o sarebbe meglio dire sull’oscillazione cronologica del periodo. Nessuno potrebbe del resto. Ciò che sta accadendo in questa fase che va dall’VIII  secolo fino all’insediamento del primo re variago dei Rus, può essere definito in differenti modi, ma il significato che più si scorge è quello di “transizione”. Sì, ci troviamo di fronte ad un ambiguo fenomeno di transizione, la cui natura è tanto nebulosa da impedirci di capire se sia durato 50 anni o 100. O anche 200.

Il cuore del problema è che questa fase di transizione ha un nome che è “Kaghanato”, ovvero la denominazione di una statualità immediatamente antecedente alla Kiev Rus, la quale tuttavia fu e tuttora rimane, difficoltosa da penetrare e comprendere fino in fondo. Eppure il nodo del Kaghanato non può essere ignorato in alcun modo: pur nella sua vaghezza esso è il precursore diretto della Kiev Rus, tanto quanto la crisalide precede la farfalla. Allora andiamo dritti al punto e anziché perderci in un flusso mnemonico di documenti o date, componiamo un sistema basilare di spostamenti che rappresenti il procedimento storico.

Esiste un primo movimento che viene dal lontano oriente turcomanno. E’ ad opera dei Kazari, un popolo che in realtà non esiste, bizzarro risultato delle condizioni del tempo: un etnonimo che sta ad indicare un ensamble polietnico di radice turca che a sua volta plasma un proprio stato (o sarebbe meglio dire “cuscinetto”), un’enigmatica elaborazione geopolitica del suo tempo, sintesi e risultato unico degli equilibri mutevoli del vicino oriente altomedievale. Lo strato di separazione tra il mediterraneo orientale e i nomadi mongoli è utile. Quindi i Kazari ed il loro Kaghanato hanno modo di esistere per un certo tempo. Di per sé lo stato che essi fondano è assai fragile, privo di chiara identità quanto ne è il fondatore, atto solo alla sua funzione. Questa è la prima parte della storia…

Esiste un secondo movimento che proviene dalla Scandinavia. Sono uomini del Nord, famigerati già al loro tempo, pochi e invincibili, manipoli di predoni che solcano l’azzurro di fiumi mari e laghi, tra abissali malinconie e bagliori di sanguinosa euforia. Dapprima predoni, incursori, quindi invasori, usurpatori e re essi stessi. Sono passati 300 anni dai tempi di Odoacre allorché quel sinistro bagliore fa visita inaspettata a Lindisfarne sulla costa nord dell’Inghilterra. Seguiranno moltissime visite che portano fuoco e distruzione per i due secoli seguenti. Le intrepide aristocrazie guerriere di alte sagome silenziose dai lunghi elmi affusolati altereranno gli equilibri politici delle isole britanniche quanto del mezzogiorno d’Italia, piegando la direzione della storia.

Nella medesima forchetta cronologica,  ad oriente dell’areale scandinavo gli stessi uomini del nord sotto il nome di Variaghi, iniziano una silenziosa marcia lungo il complesso sistema idrogeografico del continente slavo, villaggio dopo villaggio, dal grande nord boreale sino al più temperato sud, fino a toccare le rive tiepide del Mar Nero. Siamo attorno all’anno 800 dopo la venuta di Cristo, quando il loro processo di colonizzazione è nel pieno sviluppo. Certo si tratta di una minoranza, numericamente paragonabile a pochi fogli di carta appoggiati sullo spessore di un libro intero (i normanni inglesi non superano il 2% sul totale dei nativi anglosassoni), ma tali fogli sono sulla sommità del libro e da quella piccola vetta si percepisce la realtà in modo del tutto differente: per i principi Variaghi l’intricata parcellizzazione territoriale slava, stabile nel suo millenario isolamento rurale, non ha significato se non quello di facilitarne la penetrazione e quindi la sottomissione.

Tra i Variaghi esiste una potente frazione nota col nome di “Rus”. Il termine è antico e con le debite storpiature ed alterazioni presente in tutte le lingue dell’area finno-baltica. Riporta semplicemente all’atto di remare, che è ciò che di continuo facevano gli equipaggi dei lunghi drakkar, risalendo e discendendo i fiumi slavi; ancora oggi gli svedesi sono chiamati “ruotsi” in lingua finlandese. E’ remando che si materializzano nella nebbia delle fredde mattine della foresta boreale per fare incursione nei villaggi: questa è la prima immagine che si imprime nella mente degli aborigeni slavi poco prima che si accendano i fuochi della razzia. Altri epiteti, dati da altri popoli ed in tempi differenti, contribuiscono a fornirci una vaga, lontana, distorta, eppure sinistramente colorita immagine del Rus: una manciata di aggettivi pare dare vita ad un’indistinta sagoma alta e massiccia, atletica e dai tratti regolari, capigliatura del colore del grano dal temperamento intrepido ed incline alla fragorosa risata, veloce o rapida nei movimenti. Quest’ultimo elemento completa, integra l’atto del remare: è certo che sono molto, molto rapidi, arrivano e scompaiono dopo il saccheggio, i loro blitz sono inaspettati, fulminei, inarrestabili e arrivano ovunque ci siano corsi d’acqua, che abbondano nello sconfinato bacino geografico tra il Volga e la Crimea. Ovunque, compaiono i draghi variopinti sulla prua delle loro leggere imbarcazioni,  e portano tempesta. Gli slavi antichi vedono sorgere un nuovo signore dalle rive dei fiumi che li circondano, dapprima come spaventosa presenza che va e viene, ma che tende sempre più a rimanere ed infine si impianta nello stesso territorio, dominandolo.

Fermiamoci un attimo adesso. Abbiamo pertanto i tre elementi che caratterizzano la transizione: la vasta massa nativa slava, in armonia col grande albero della vita custodito da Perun dall’alto dei cieli, quindi gli uomini del profondo nord, vichinghi Variaghi tra cui i Rus primeggiano, inarrestabili invasori portati dai flutti dei mari e dei fiumi e quindi la consuetudine dei Kazari e del loro multilingue stato che dal vicino oriente si proietta sul versante più meridionale dell’areale slavo. Il cosmo slavo non è più l’incontaminato e misterioso mondo accennato nelle cronache del VI secolo, ma terra di conquista e di influenze reciproche. A questo punto, dall’asimmetrica, disordinata sovrapposizione di questi tre elementi avviene il miracolo.

E’ possibile, in una manciata di parole spiegare come nasce ciò che chiamiamo nazione? Si può, nello spazio di poche pagine, descrivere la meccanica di un’etnogenesi, certo, ma come trasmetterne il senso? Ancora una volta, è oltre le facoltà di chiunque, quindi occorrerà ripiegare sulla prima opzione, ma anziché divulgata in un milione di parole, ridotta alla sua essenza antropologica.

L’elemento più attivo è quello variago (o, Rus ormai): nel giro di un centinaio di anni si è oramai trapiantato dalla nativa Scandinavia al continente slavo, immergendosi nelle sue profondità più nascoste. Giungono fino al Mar Nero, laddove improvvisamente si ritrovano nella fragile bolla del Kaghanato kazaro. Il sistema messo in piedi dai Kazari è del tutto diverso dalla consuetudine slava ed un gradino più evoluto della stessa tradizione norrena. L’incontro tra questi due elementi non pare essere una collisione, data la natura assai sfumata delle due parti (ancora predoni gli uni, e stato artificiale gli altri), bensì ha la malìa propria dell’amalgama. Gli uomini del nord combattono, servono, comunicano, si può dire “dialogano” con questa bizzarra creazione che è il kaghanato: soprattutto ne apprendono alcuni concetti chiave come quello di organizzazione e comando. Tra tutti un’idea forse passa, filtra nella coscienza dei Rus, quello del monarca al di sopra di tutto, dell’autorità politico-militare indiscussa. Il meme dell’assoluto di lontana matrice orientale, portatore del concetto di ordine, si fa progressivamente strada nella mente dei Variaghi. Forse. Forse i principi dei fiumi e dei laghi (come la lingua turca del tempo definisce le barbe bionde a bordo dei drakkar), iniziano ad assimilare alla propria tradizione monarchica, intrepida quanto barbarica, il senso dell’assoluto divino che permea i loro omologhi del vicino e lontano oriente.

Il kaghanato, verso la fine della sua ellisse storica è divenuto ormai una stravagante creatura, le cui strutture formali sono di origine orientale o turca, mentre le energie che lo dirigono sono ormai variaghe. Per questo la storiografia moderna ci consegna definizioni come quella del kaghanato Rus, cosiddetto: in realtà rimane una meteora delle circostanze storiche e geografiche, destinato a dissolversi in tempi (storicamente) brevi. I Rus non hanno ne la possibilità e nemmeno la volontà di fare del kaghanato la loro dimora, di trasformare tale fragile stato cuscinetto, utile a Bisanzio, in un forte stato organizzato, tuttavia senza esitazioni apprendono da esso. Lo scambio tra Variaghi e Kazari sarà fruttuoso per entrambi in fondo, ma vincente per i primi in definitiva: per quanto utile si dimostrino l’ingaggio e le alleanze con la forza norrena, questo non modifica la sorte del debole stato kazaro, mentre al contrario i Rus imparano da esso quanto di fondamentale per il loro futuro regnare. Non esistono prove, ma solo leggende di una continuità tra Kazari e Variaghi nel lunghissimo forgiarsi della statualità russa e le storie di matrimoni tra principi Kazari e nobili figlie dei Rus, rimarranno nel nebuloso novero di mitologie identitarie alternative, di tendenza orientalistica. La questione è ben più che genealogica o biologica, poiché non riguarda più la materia organica ma la sfera della coscienza: non il gene, ma l’ancor più inafferrabile meme è oramai metabolizzato nella psiche dell’aristocrazia militare variaga che si appresta alla grande impresa di unificare le masse slave in un unico stato. Non esiste continuità diretta che possa essere provata tra il kaghanato dei Rus e la Kiev Rus che è alla sua vigilia, eppure non c’è dubbio che su un più indiretto piano di ordine psicologico ne costituisca il prodromo. I Rus, acquisito ora il senso di una monarchia che viene dal cielo, hanno l’indispensabile strumento per la conquista della terra che vi è sotto. A lungo si è parlato di come l’oriente è stato assorbito, sintetizzato, nel grande corso della storia russa in molti momenti ed esperienze: forse il primitivo contatto dei Rus è la prima, negletta, tra tutte queste. Ancora non si tratta di vera orientalizzazione, chiaro, ma soltanto di una minuscola particella nella dimensione del pensiero, tuttavia costituisce un inizio.

Siamo oramai attorno alla metà del IX secolo e le testimonianze bizantine, arabe ed anche occidentali, sono sempre più ricche di informazioni su questo chiassoso e dinamico popolo che solca i fiumi e crede nel Valhalla. Sono i Rus a questo punto, ad uno stadio di maturazione pressappoco analogo a quello in cui si trovavano i longobardi secoli prima, al momento del loro ingresso in alta Italia dalla Pannonia. Popolo ambizioso, consapevole delle risorse naturali su cui possono espandersi, dotati della forza militare e dell’idea di comando per attuare forme di governo organizzate. Avvinti dal fascino del misterioso e opulento oriente. Al pari dei loro contemporanei non conoscono pietà o compassione, praticano la tratta degli schiavi ed esigono gravi tributi alle sparse masse aborigene su cui riescono ad imporsi nella vastità dello spazio tra la taiga e la steppa. Esprimono una dominanza che si colloca al di sopra di qualsiasi  tra le antichissime forme di autogoverno che caratterizzano le terre slave, come al di sopra dell’anarchia territoriale che è lo status naturale del continente protoslavo.

Proprio quest’ultimo punto sarà il più fondamentale: nell’antica Novgorod, che già è il centro del loro potere e testa di ponte per la successiva espansione verso il Volga, vengono detronizzati e cacciati da una vasta rivolta popolare contro il cui numero è impossibile opporsi. Paradossalmente, le stesse popolazioni in rivolta invocheranno il loro ritorno poiché il ripristino dei Rus è indispensabile per il mantenimento di un ordine costituito, in mezzo a mille voci discordanti. Questo è quanto riportato nella prima cronaca slava del medioevo e a prescindere da dettagli o inesattezze, testimonia quanto oramai gli invasori del nord siano percepiti: nonostante la natura dispotica del loro regno, hanno tuttavia acquisito un attributo fondamentale, profondissimo, l’unico che veramente conti in un’età di sconvolgimenti. Essi sono l’unità. Un’unità al di sopra delle parti che è ignota al sistema tribale slavo.

Quell’elemento, dal sapore ambiguamente divino, che finalmente supera, nella psiche slava, la dimensione del clan, del capo militare, del re di un villaggio. I principi Rus, sono sovrani di tutti e questo garantisce sicurezza e stabilità; in tutte le epoche della storia umana queste due costanti sono ricercate, spesso a prescindere da quale sia il prezzo e i popoli slavi dell’epoca accettano volontariamente il baratto, le cui conseguenze a posteriori eclissano per vastità qualsiasi previsione se non nelle profezie dei saggi. Corre, nell’occidente ed oriente cristiano, l’anno del Signore 862, quando i Rus riprendono Novgorod: i capi sono tre fratelli alla testa dei quali vi è Rurik, figura di cui le molte gesta sono reali quanto possono esserlo quelle di Alboino o Rosmunda, ma non ha importanza. Egli per tutto e tutti è il re dei Rus e ovunque essi mettano piede.  Dalla sua lontana, ma oramai consolidata capitale del nord si proietta e replica su scala minore lo stesso processo di innesto dell’elemento variago sul substrato nativo degli slavi. Non più predoni, ma minuscole aristocrazie militari figlie di Rurik diramantesi da Novgorod in un processo capillare e a suo modo magmatico. I Rus non schiavizzano il Mir slavo, ma lo penetrano, ne diventano parte integrante per controllarlo dal suo interno: lo spirito Rus si fa componente dominante della primitivo embrione della società slava, conservandone alcune forme basilari ed al tempo stesso conferendone alcune fondamentali proprie. Certo il minuscolo numero dei conquistatori non consente di porre le basi per una totale metamorfosi, ma è sufficiente per colorare l’affresco già esistente con una tinta importante in più. Il processo in corso è talmente profondo che le terre da loro comandate assumono il loro proprio nome: 40 anni dopo l’avvento di Rurik i cronisti iniziano a riferirsi ad essa come “Russkaya Zemlja”. Terra dei Rus. Terra russa. I suoi abitanti, atavica estensione vivente della stessa, a ruota ne accolgono la denominazione e diventano “russi” (nel senso antico del termine), tanto quanto nelle Gallie si divenne franchi o angli nelle isole britanniche.

Stiamo assistendo in un lasso di tempo strabiliantemente breve (850-900 D.C.) ad una nuova nascita. E’ il cuore dell’etnogenesi, contenuta in 1000 segni dei quali il più evidente è l’etnonimo con cui ci si identifica. Etnogenesi che precede di pochissimo, ed anzi quasi parallelamente si accompagna al primo fenomeno di politogenesi mai vissuto in territori  ignari di romanizzazione o ellenismo: anche questo (la decisa arretratezza del substrato slavo), facilita e rende possibile la colonizzazione Rus, su estensioni di territorio che superano le regioni dell’occidente post romano. Le antiche decorazioni di una spiritualità pagana slava dai contorni ancora animistici si tinge ed arricchisce dei toni decisi dei dominatori del nord, il rosso dei loro mantelli, i draghi che emergono dai flutti del mare e il bagliore delle loro armi, mentre questi ultimi perdono rapidamente le strutture del loro idioma natale per adattarsi a quello locale, accettano presto di immergersi nella cosmologia slavonica a patto di esserne alla vetta. Wotan è sostituito da Perun e Triglav (non che nella dimensione pagana pre-abramitica questo fosse un problema). Chiaro il vantaggio di noi “dotti” contemporanei…..da una prospettiva privilegiata, del tutto unica, di lettori di saggi e monografie godiamo di un’inedita onniscienza che ci consente di osservare, analizzare interpretare col distacco emotivo concessoci da oltre un millennio di distanza, fenomeni di cui gli ignari contemporanei erano solo debole oggetto, sballottati in ogni dove dalla potenza di meccanismi molto aldilà della loro negligibile cognizione delle strutture del mondo. Sì, ancora per molto tempo le tribù slave pur chiamandosi adesso “russi” non comprenderanno appieno cosa sta loro accadendo. Seguiteranno  festeggiare la fertilità con l’arrivo del luminoso Yarilo (che pare ricordare Apollo), continueranno a pregare il cielo affinché le folgori celesti di Perun caccino nelle viscere della terra il demonio Veles (che di fatto diverrà tale col cristianesimo), alzando le braccia al sole o di fronte a grandi fuochi, sacrificando innanzi a cupi altari in mezzo alle foreste. Nonostante questo il motore della storia si è già avviato.

L’anno 862, assumerà nella storiografia nazionale russa, un significato talmente esteso da perderne la giusta prospettiva. Identitarismi di vario conio, nazionalismi e socialismi rielaboreranno gli eventi del tempo rivestendoli delle interpretazioni più adatte al frangente, alla necessità ideologiche e sociali. Molte penne hanno adoperato l’862 ed ancora lo faranno. Impossibile altrimenti poiché è la data convenzionale della nascita di una nazione e di uno stato che la ospita al tempo stesso. Da questo momento in poi esiste un sovrano: barbaro, dalla corona ferrea, armato di spada, circondato di concubine, che presiede ai sacrifici agli dei, eppure un sovrano, unico per tutti i russi. La sua capitale, per il momento è Novgorod, che sarà importante nei secoli. Da qui parte la lunga navigazione che ci condurrà a Kiev.

autore: DANIELE LANZA

1) “Variagi i Rus” – Raccolta di saggi e monografie, ed. Russkya Panorama”, Mosca, 2015
2) “Lineamenti di storia dell’Urss”, a cura di N. Nosov, R. Ganelin, D. Likhacev, ed. progress, Mosca, 1980
3) “Metamorfosi Rossii”, L.C. Vasiliev, ed. Kdu, 2015
4) Cambridge History of Russia, Vol. 1, ed. Maureen Perry, 2006

 

 

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Di Nicola

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