Il concetto di guerra santa a Bisanzio

Bisanzio e la guerra, un binomio inscindibile. Se togliamo la grande stagione del periodo giustinianeo (metà del VI secolo), quando l’Impero Romano d’Oriente ebbe una fase militare espansiva, possiamo affermare che dal VII al X secolo Bisanzio dovette combattere per la sua stessa esistenza. Solamente durante la seconda metà del X secolo, con l’avvento della dinastia Macedone, l’Impero di Costantinopoli poté tornare finalmente protagonista nell’area geopolitica mediorientale. Vi furono tre Imperatori soldato che cambiarono le sorti dell’antico Impero d’Oriente e che portarono risultati militari davvero notevoli. Gran parte delle vittorie avvenne contro i nemici di sempre, gli Arabi e i Bulgari. I primi, specialmente, furono vittime di una lunga guerra di posizione che terminò con la riconquista bizantina di ampi territori, un tempo già soggetti all’Impero di Roma e della stessa Bisanzio poi.

Questo clima marziale portò a dei cambiamenti sociali e politici all’interno della Basileia. Come diretta conseguenza del perenne stato di guerra, durante il V secolo – almeno secondo il bizantinista Carile –, il culto dei santi militari ebbe una grandissima propagazione in tutto il territorio. Questo tipo di diffusione è stato interpretato dallo stesso storico come una nuova difesa alla Cristianità[1]. I santi militari erano invocati come protettori e le loro icone erano mostrate agli eserciti bizantini prima di ogni battaglia. Ma come può questo comportamento essere paragonato al moderno concetto di crociata occidentale? Vi sono delle similitudini tra il sentimento religioso che permeava la guerra nell’Impero di Bisanzio e i pellegrinaggi armati dell’XI secolo, successivamente conosciuti come crociate?

Gran parte degli studiosi rifiuta apertamente[2] questo paragone; altri, invece, contemplano la possibilità di un anticipo di “crociata” contro gli infedeli. A favore di quest’ultima tesi vi sono due importanti esempi: la guerra di Eraclio contro i Persiani (602-638) e le guerre di conquista di Niceforo Foca (963-969). Pur diversi, questi due casi sono riconducibili in parte all’idea di crociata per i motivi che andiamo ad analizzare.

Secondo la teoria contraria alla crociata, i bizantini che non si riconoscevano nella guerra santa, per altro a loro estranea, la ripudiavano, visto quello che intimava il XIII canone di San Basilio. Esso inibiva qualsiasi soldato alla comunione per la durata di tre anni se commetteva omicidio, anche in guerra. Quindi la totalità dei soldati non poteva comunicarsi per lunghi periodi, viste le continue lotte che coinvolgevano l’Impero. Eppure, sempre secondo Carile, questo canone era già superato negli anni successivi alla morte del santo e riabilitato solamente durante il regno di Niceforo Foca. L’Imperatore forzò alla Chiesa affinché i suoi soldati morti in battaglia contro gli infedeli fossero assurti novelli martiri della Cristianità. Prima di questa strana richiesta, è molto probabile che la Chiesa non avesse alcun interesse verso il XIII canone di San Basilio, vista la perenne situazione di conflitto in cui era ricaduto l’Impero. Tornò invece utile per il Patriarcato di Costantinopoli dopo l’ufficiale richiesta da parte di Niceforo, che fu ovviamente rifiutata con il recupero dell’antico canone basiliano. È infatti molto probabile che il canone sia stato utilizzato da parte della Chiesa ortodossa contro il potere politico di Niceforo e la sua figura di Imperatore. Quindi un utilizzo politico e non religioso del termine. Infatti, vi era pure un altro canone, quello di Sant’Atanasio di Alessandria, che permetteva agli uomini di andare in guerra. Sia Sant’Atanasio che San Basilio sono padri della Chiesa, quindi a livello teologico i loro canoni hanno lo stesso valore. Per un’inspiegabile ragione, quindi, il Sinodo che fu convocato per rispondere alla richiesta di Niceforo preferì un canone al posto di un altro. Fece, quindi, una scelta di campo che avrebbe segnato indelebilmente la carriera politica di Niceforo.

Prima di ogni battaglia, gli eserciti bizantini innalzavano canti sacri; tutti si facevano il segno della croce e, come popolo eletto, combattevano contro i nemici della Cristianità seguendo gli esempi di Mose, Aaronne, Joshua e Davide[3]. Sempre secondo Carile, l’Imperatore era l’immagine di Cristo sulla Terra e per questo poteva chiamare la guerra santa.

L’apparizione di San Demetrio a Salonicco, della Madre di Dio a Costantinopoli, di Santa Tecla a Seleucia, oppure la visione che ebbe Cosroe a Nisibi, fa dell’Impero bizantino il defensor fidei per eccellenza. L’aiuto dei Santi e di Dio durante la battaglia aumentava l’aurea della santità imperiale.

Tornando ai due esempi bizantini di “pre-crociata”, essi sono riconducibili ad una guerra santa per due ragioni differenti. La prima è una risposta alla distruzione di Gerusalemme che trasforma tutta la controffensiva bizantina in una vendetta cristiana, mentre la seconda è una campagna militare contro gli Arabi con richiesta di martirio per i soldati che sarebbero morti combattendo gli infedeli. In tutta la storia di Bisanzio solamente questi due esempi possono essere vagamente ricondotti al concetto di crociata occidentale. Eraclio venne visto come il liberatore di Gerusalemme, colui che sconfisse i novelli faraoni e le armate di Babilonia. Niceforo Foca, invece, fu promotore di una guerra totale contro gli Arabi con la convinzione che i suoi soldati caduti sul campo meritassero il paradiso e il titolo di martiri.

autore: NICOLA BERGAMO

tratto da “La Morte pallida dei Saraceni, le crociate di Bisanzio” di Nicola Bergamo
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[1] A. Carile, “La Guerra Santa nella Romània (Impero Romano d’Oriente) secoli VII-XI”, p. 251-261, in Guerra santa, guerra e pace dal vicino oriente antico alle tradizioni ebraica, cristiana e islamica a cura di M. PERANI, Giuntina, Bologna, 2005.

[2] G. T. Dennis, ‘Defenders of the Christian People: Holy War in Byzantium’, in The Crusades from the Perspective of Byzantium and the Muslim World, edited by Angeliki E. Laiou and Roy Parviz Mottahedeh, published by Dumbarton Oaks Research Library and Collection Washington, D.C. 2001

[3] A. Carile (2005), p. 258

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