Un’autocrazia dai tratti assoluti, un imperatore vicario di Dio e una “chiesa d’impero”. Questi sono i cardini dell’istituzione imperiale bizantina: la sua origine, nonché la sua definizione e codificazione, le sue prerogative e i suoi limiti sono il tema centrale del presente scritto.

La nascita di quegli elementi che saranno poi peculiari dell’istituzione imperiale bizantina si hanno nel momento del passaggio dal Principato al Dominato che si verificò nell’impero romano durante la crisi del terzo secolo. In una situazione tanto travagliata, infatti, mentre nemici sempre più aggressivi premevano alle frontiere e problemi, più o meno acuti, emergevano all’interno della società il potere dell’imperatore romano progressivamente si irrigidì: per reggere lo Stato non bastava più l’auctoritas di un primus inter pares, anche dopo che questa venne codificata dalla lex de imperio di Vespasiano. In un momento di tale incertezza e pericolo il potere di cui si arrogava l’autocrate divenne assoluto e nelle forme esteriori la transizione fu segnata dal saluto che a questo doveva essere rivolto. Alla salutatio tipicamente romana si sostituì l’adoratio, o proskynesis, ovvero la prosternazione fisica dinnanzi all’autocrate. Questi venne sempre più rappresentato come il sovrano assoluto per eccellenza, supremo regolatore del cosmo. In questa transizione crebbe considerevolmente nell’elezione degli imperatori il ruolo ricoperto dall’elemento extra-mondano, dalla volontà divina. Il sovrano venne assimilato alla figura divina conferendo una specifica impronta teocratica al suo potere: Diocleziano si pose sotto la protezione di Giove Ottimo Massimo e Massimiano sotto quella di Ercole. La politica religiosa di costoro, oltre a tendere ad un marcato conservatorismo volto a preservare le divinità che formavano il pantheon pagano, contribuì a delineare l’idea di un sovrano dalla natura semi-divina. Già le fonti coeve parlano dell’imperatore come di un dominus noster ed è con queste caratteristiche che si impose il Dominato: istituzione che esigeva da parte della popolazione una dedizione totale verso lo Stato che si manifestava nella restrizione delle libertà personali e nello sfruttamento totale dei propri beni per i fini del fisco imperiale. Venne elaborato un complicato cerimoniale di corte che doveva unificare il consenso tramite un linguaggio codificato dallo Stato con il preciso compito di glorificare la figura del sovrano.

Il modello che si tentò di imitare era quello delle grandi monarchie orientali: dei regni ellenistici e dei successori della stato Achemenide. In questo, in particolar modo, si era realizzata l’incarnazione dello stato nella figura del sovrano e tale peculiare qualità venne ricercata nel mondo romano tardo antico. L’imperatore venne designato sempre più con termini quali “sacer” e “divus”, a marcare, quindi, la sua distanza dalla realtà e a legittimare il suo progressivo isolamento nelle stanze più segrete del palazzo imperiale.

L’ideologia che riguardava il sovrano di Costantinopoli discendeva da tale modello; essa, tuttavia, per via della particolare importanza che progressivamente, da Costantino in poi, venne riservata alla religione cristiana assunse dei particolari connotati che in seguito sarebbero stati peculiari della sua istituzione imperiale. Le difficoltà che il mondo tardo antico poneva al sovrano erano tali che una sanzione puramente istituzionale del suo potere non era più sufficiente per contrastare efficacemente le contingenze storiche alle quali questi era chiamato. La religione cristiana, quindi, venne utilizzata e sfruttata per i fini della politica; il potere la utilizzò per magnificare se stesso e definire le proprie prerogative. In questa formulazione un ruolo di primo piano è attribuito ad Eusebio di Cesarea. Ci si allontanò dall’idea, tipica dell’ultima fase pagana, dell’imperatore-dio per la figura di un sovrano eletto da Dio e oggetto di una speciale santificazione da parte della grazia divina. Il Dio unico cristiano, quindi, interviene nel flusso della storia modificando ed alterando i meccanismi umani d’elezione e favorendo le personalità che Egli stesso ha scelto. Un teorico di età Giustinianea, infatti, giunge ad affermare che “la potestà imperiale è data da Dio e presentata agli uomini” mentre, nella sua Esposizione di capitoli parenetici, Agapeto Diacono scrive che “chi ha raggiunto un’elevata autorità deve imitare, per quanto può, Colui che gliel’ha elargita”. E il concetto è talmente forte che addirittura nel XI secolo Cecaumeno lo ribadisce dichiarando che “Dio ti ha elevato al potere imperiale di sua mano”. Ogni forma di potere, quindi, proviene da Dio e in ciò è ulteriormente illuminante quanto riferisce San Paolo: “Ogni anima sia sottomessa alle potestà superiori. Non esiste infatti potestà che non provenga da Dio. Quelle che ci sono, sono state volute da Dio”.

Tanto era forte, quindi, il legame che veniva a crearsi tra Dio e l’imperatore che quest’ultimo venne concepito come una sorte di intermediario tra l’umanità e la divinità stessa. Il già ricordato Agapito nel 527 infatti scrisse: “Nell’essenza corporale l’imperatore è uguale ad ogni uomo ma per l’autorità che deriva dal suo potere è simile al dio supremo: non ha infatti nessuno in terra più alto di lui”. L’imperatore era quindi il Vicario di Dio in terra. E la sua autorità era tale che egli solo aveva la possibilità d’interpretare il Verbo divino e di difendere l’unico impero dove la religione cristiana veniva professata nella sua forma ortodossa.

Nel suo governare l’imperatore doveva perseguire la mimesis. Aveva il compito, cioè, di modellare il proprio regno su quello celeste. Un perfetto esempio di tale formulazione ci è fornito da Eusebio di Cesarea, oltre che nel Discorso Regale, nel IV libro della Vita di Costantino. Descrivendo il momento in cui Costantino stava delineando i preparativi per la successione egli scrive: “Infatti a lui il Dio universale aveva assegnato il dominio sulla terra, e lui, a imitazione dell’Onnipotente, aveva affidato loro l’amministrazione delle singole circoscrizioni dell’impero, ma tutti, al momento opportuno, avrebbero dovuto render conto del proprio operato al supremo sovrano”. La volontà di assimilarsi alla divinità è ben presente in un’altra significativa scelta operata dallo stesso Costantino. Egli ordina che il proprio mausoleo sia costituito dalla Chiesa dei Santi Apostoli; decide, quindi, di collocarvi dodici cenotafi recanti i nomi degli Apostoli. Egli sarebbe stato sepolto accanto ad essi testimoniando materialmente la sua prossimità con il Salvatore.

Tale dottrina dell’imitazione era talmente forte e radicata nella mentalità bizantina che riaffiorerà nei secoli successivi ora in forme letterarie, ora in forme artistiche. Delle opere d’arte che riflettono tale rapporto lasciateci dai bizantini ne analizzeremo una fra tutte: la corona di Leone VI conservata nella basilica di San Marco. Essa è parte integrante di un complesso noto come “la grotta della Vergine” poiché sorregge un’edicola di cristallo la quale conserva una piccola statua d’argento dorato della Vergine. La corona presentava in origine quattordici medaglioni smaltati di cui uno con la figura del sovrano. Simmetricamente a questa doveva corrispondere l’immagine del Cristo a sottolineare il parallelismo intercorrente tra la corte celeste e quella terrena. La dottrina dell’imitazione, come si è visto centrale nell’ideologia bizantina, non era tuttavia originale della formulazione cristiana. Essa derivava dalle speculazioni sulle monarchie ellenistiche, condotte su basi neoplatoniche e neopitagoriche. Di seguito esse vennero filtrate dalla speculazione giudaica-alessandrina e di qui giunsero sino ad Origine, che ne rivendicò l’originalità cristiana affermandone addirittura l’ascendenza veterotestamentaria.

Fra il Dio unico cristiano e l’imperatore, pertanto, si stabiliva un legame forte ed univoco. Per Eusebio, infatti, il basileus “porta nella sua mente, come in uno specchio, le virtù promananti dell’esempio celeste”. L’imperatore, pertanto, risulta depositario sia dell’immagine del regno celeste, verso il quale farà tendere quello terreno, sia della filantropia divina. Di un modello etico perfetto, quindi, in base al quale può condurre la sua opera provvidenziale governando a imitazione di Dio.

Il sovrano, pertanto, è sacro e sacro è tutto ciò che a lui si connette. La sua volontà imperiale è definita “divina disposizione”, il Palazzo dove risiede è designato con l’aggettivo di “sacro” e gli imperatori defunti sono di “divina sorte”. Ed è quindi sacro anche lo spazio dove l’imperatore si muove, ovvero la corte. Questa è il riflesso di quella celeste e il cerimoniale che regola la prima ha il preciso compito di riprodurre l’ordine che regola la seconda. La gerarchia imperiale, inoltre, ha una determinata e precisa valenza. Stando allo Pseudo-Dionigi, infatti, in essa si comporrebbe un insieme di specchi che rifletterebbero l’uno con l’altro la luce celeste a seconda dei meriti e della posizione che l’individuo vi occupa. Il fine della gerarchia, dunque, è quello di favorire l’assimilazione e l’unione a Dio.

Tanto rilevante, dunque, era l’importanza che veniva riservata alla religione cristiana che i dettami che venivano sanciti dai concili ecumenici assumevano subito valenza di legge. L’ortodossia diveniva un dovere civico e se ci si opponeva ad essa ci si opponeva allo Stato che più di tutti nel suo divenire storico era impegnato nella riproduzione del regno dei cieli in terra. E l’impero che poteva arrogarsi un tale diritto e una tale missione non poteva che essere uno e uno solo. Il problema che si pose con l’incoronazione imperiale di Carlo Magno venne fluidamente aggirato grazie ad un uso accorto della terminologia. Dopo essersi duramente scontrata nella laguna veneta, infatti, Bisanzio accettò di sottoscrivere nel 812 la pace di Aquisgrana: Carlo Magno poteva fregiarsi del titolo imperiale in cambio della cessione di numerose isole dalmate nonché del ducato veneto da Chioggia a Grado. Da quel momento, tuttavia, l’autocrate di Costantinopoli, al fine di sottolineare il suo ruolo comunque e sempre superiore, si arrogò il titolo di “imperatore dei Romani”. E la gerarchia che vi doveva essere risulta chiara ed inequivocabile in una lettera consegnata nel 842 a Ludovico il Pio. In questa, infatti, si può leggere “Michele e Teofilo, imperatori dei Romani rispettosi di Dio” mentre Ludovico viene definito “glorioso re dei franchi e dei longobardi, che viene detto anche loro imperatore”.

L’ideologia imperiale, pertanto, si nutriva della cultura ellenistica e romana dandosi una precisa impronta teocratica a causa dell’importanza conferita alla religione cristiana.

Da quanto detto potrebbe sembrare che il potere dell’imperatore di Bisanzio fosse assoluto; egli ebbe sempre chiaro, tuttavia, il riferimento alla tradizione romana della quale era il suo diretto continuatore. Le sue prerogative, infatti, non erano illimitate ed anzi risentivano profondamente del passato romano e delle sue istituzioni. Egli doveva governare sulla base del consensus omniun. In questo senso particolare importanza nella capitale ebbe lo spazio sociale dell’ippodromo. Qui si concretizzava l’unione tra l’imperatore e la folla che ivi si radunava per assistere alle corse. Momento estremamente significativo: il popolo, infatti, aveva la concreta possibilità di esteriorizzare la propria adesione, o meno, al sovrano stesso, rispettivamente attraverso la sua acclamazione o deprecazione.

Gli altri due organi che dovevano garantire il consenso collettivo erano l’esercito e il Senato. Quest’ultimo era di una particolare qualità che lo distingueva da quello romano. A Costantinopoli non si era formato, come nell’antica Roma, un Senato dove al suo interno vi fossero famiglie che potessero fregiarsi dell’onore di appartenere a quell’illustre assemblea da generazioni. I Senatori appartenevano ai ranghi più alti della burocrazia imperiale; il titolo di clarissimo, con il quale si poteva accedere all’assemblea, proveniva direttamente dalla carica, era vitalizio e non ereditabile. Se è vero, pertanto, che mancavano dei lignaggi che potessero ostacolare, in virtù della loro vetusta presenza, l’opera dell’imperatore è altrettanto vero che quella peculiare qualità forniva all’assemblea un alto senso di sé. Essa, mancando di un forte nucleo di famiglie, appariva strettamente connessa alla corte imperiale e al concistoro dando l’impressione, talvolta, che tra i due organismi non vi fosse alcuna differenza. Il Senato aveva un ruolo puramente consultivo e non ebbe mai la forza di opporsi con decisione alle politiche degli imperatori. In tale contesto il VII secolo, dove l’assemblea trovò quel vigore che le permise di ordinare la deposizione di Eracleona e Martina per assegnare sotto la propria reggenza il trono a Costante II, appare come un’eccezione.

L’imperatore, pertanto, nel suo agire doveva tenere ben presente gli umori di questi tre organi, l’esercito, il popolo e il Senato, poiché senza il loro favore il suo potere sarebbe sfociato nella tirannia; tanto disprezzata a Roma, nella prima come nella seconda.

Un altro elemento che contribuiva a limitare le prerogative del sovrano era il riferimento al diritto romano. Le istituzioni statali, infatti, erano precedenti a quella imperiale e il diritto era un quadro di riferimento obbligatorio per ogni sovrano. Questi, infatti, non doveva e non poteva sottrarsi alle leggi emanate dai suoi predecessori. Nel Corpus Iuris Civilis, infatti, è scritto che “le leggi dei sovrani non debbano mai prevalere sul diritto naturale”. L’imperatore poteva modificare si le leggi ma non sottrarvisi. Ed infatti il contesto a cui Giustiniano si rifà nel momento di ordinare la redazione del suo Corpus è proprio la totale convinzione che solo il rispetto delle norme giuridiche costituisca la base di un’ordinata vita civile. Dal momento che il Codex Theodosianus, raccolta di leggi voluta da Teodosio II, si presentava come un’opera inorganica e incompleta era necessario, quindi, intervenire revisionando profondamente lo ius.

Ed infine dobbiamo fare riferimento ai rapporti che legarono l’autocrazia alla chiesa. Se, come si è visto, il legame che univa l’imperatore a Dio era di una tale qualità da far si che quest’ultimo si ponesse come il suo intermediario privilegiato con l’umanità e il suo rappresentante in terra di necessità ne derivava che egli occupasse anche la posizione più importante all’interno dell’ecumene. Di conseguenza compito dell’imperatore era quello di vegliare la purezza della fede ortodossa all’interno di una chiesa armonica ed ordinata. Anche se questa era l’ideologia di corte, tuttavia, è sicuramente da mitigare l’accusa di cesaropapismo, ovvero di un controllo totale esercitato sulla chiesa dal potere civile, rivolto all’autocrazia bizantina. Le criticità non mancarono, certamente, ma le istituzioni tendevano a collaborare. Basti ricordare la Novella VII la quale afferma che “impero e sacerdozio non differivano di molto l’uno dall’altro” poiché anche se erano chiamati ad operare con distinte competenze sulla terra essi procedevano da un unico e identico principio: tra i due, pertanto, vi doveva regnare perfetta coesistenza e armonia. In quest’ottica possiamo ribaltare la pesantissima accusa mossa da Teodoro Studiata al patriarca Tarasio reo, a suo dire, di aver piegato la libertas ecclesia alla volontà imperiale benedicendo il secondo matrimonio di Costantino VI, il figlio di Irene. Il legame tra le due istituzioni, tuttavia, si definì solo successivamente, e particolarmente dopo il periodo iconoclasta che si configurò come una ricerca di un nuovo equilibrio fra i due organismi, in frangenti che qui non possiamo analizzare compiutamente.

autore: GIAN LUCA GONZATO

Bibliografia

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Di Nicola

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