Lo stanziamento delle popolazione slave nel territorio imperiale fu un processo che prese forma dagli anni ottanta del cinquecento. Dapprima esse si posero come furono: feroci conquistatori. Assieme agli Avari, difatti, riuscirono in breve tempo, tra il 582 e il 584, a espugnare Sirmio, Viminacio e Singiduno: i tre capisaldi che permettevano ai bizantini di controllare i passaggi attraverso il Sava e il Danubio. Da allora ogni argine si ruppe e le masse slave dilagarono nell’Impero arrivando perfino a porre l’assedio alla città di Tessalonica,. Il momento più grave lo si ebbe, certamente, nel 626 quando slavi e avari giunsero ad attaccare il cuore stesso dell’Impero: Costantinopoli. Furono momenti drammatici per la città, l’imperatore Eraclio era molto lontano e non poté portare soccorso alla sua capitale. Seguirono momenti bui e lotte feroci che fecero togliere l’assedio agli attaccanti portandoli così alla fuga. La potenza Avara eclissò mentre gli Slavi approfittarono della situazione per consolidare la loro presenza nei territori imperiali. Si organizzarono in sclavinie, entità autonome l’una dall’altra e guidate da aggressive aristocrazie, che modificarono il profilo etnico dei Balcani. E per comprendere appieno ciò ci basti ricordare, come si evince da una cronaca dell’Imperatore Costantino Porfirogenito, che lo stesso Eraclio, col fine di indebolire ulteriormente la potenza Avara, permise a Serbi e Croati, che prima abitavano al di là dei Carpazi, di stabilirsi permanentemente nella penisola balcanica; a patto, tuttavia, di convertirsi alla fede cristiana. L’elemento greco, dunque, certamente non scomparve ma venne comunque ridimensionato: i rappresentanti di quest’etnia si rifugiarono in luoghi inaccessibili, dalle alte montagne alle più remote isole, in attesa di una controffensiva Imperiale.

Lo stabilimento delle masse slave fu, tuttavia, permanente e gravido di conseguenze: esso, infatti, contribuì alla separazione politico culturale delle due “pars” che un tempo formavano l’unico Impero Romano e che, faticosamente, Giustiniano aveva cercato di riunificare. Perse le province orientali a causa dell’attacco arabo e compromesso il controllo su quelle balcaniche per la presenza delle masse slave la cultura bizantina intraprese quindi quel processo di grecizzazione che avrebbe favorito l’emergere di quei tratti più peculiari della sua civiltà.

E in Occidente, poco più di un secolo dopo gli avvenimenti appena accennati, sorgeva un altro Impero. Non è questa la sede atta a discernere la legittimità di una tale rivendicazione di forza ma sicuramente di primaria importanza è la valenza che Carlo Magno attribuì al suo potere. Egli doveva difendere ed espandere la religione cristiana arrogandosi, pertanto, la medesima missione del sovrano di Costantinopoli. Carlo Magno cristianizzò i Sassoni che riuscirono a sopravvivere alle sue campagne e, eliminando definitivamente il regno Avaro, espanse il suo Impero sino a quelle terre ancora abitate da popolazioni slave. Evento cruciale questo. Quanti abitavano quel confine progressivamente vennero cristianizzati; si creò, pertanto, un medesimo contesto comunicativo nel quale il latino fu la lingua per eccellenza della vita religiosa.

Il confronto tra le due istituzioni imperiali, e i modelli culturali che esse esprimevano, doveva misurarsi nell’evangelizzazione di tutte quelle popolazione che ancora non avevano ricevuto il messaggio di Cristo: in particolar modo, quindi, nelle masse slave. Esse, pertanto, si trovarono sotto questa duplice pressione, sollecitati alla latinizzazione o alla grecizzazione della loro cultura.

Ciò contribuì a formare quel netto confine che ancora oggi divide quelle popolazioni. Un confine che risulta tanto percepibile quanto difficile da designare con rigore e scientificità; basti ricordare la posizione di Riccardo Picchio, che divideva con forza la “Slavia Romana” da quella “Ortodossa”, o a quelle di Sante Graciotti, il quale preferiva utilizzare i termini di “Slavia Occidentale” ed “Orientale” in luogo della terminologia proposta da Picchio. Un confine, dunque, che passa attraverso la lingua, i testi liturgici e letterari, e che, sicuramente, avrebbe preso una forma definitiva solo nei secoli successivi al tema che qui analizzeremo più ampiamente ma la cui esistenza è doveroso tenere presente sin da ora.

In questa sede ci concentreremo sulla missione dei due fratelli di Tessalonica, Cirillo e Metodio. In una missione che aveva forse un grande sogno: quello di unire la Slavia, di dare, quindi, un’unica lingua e un’unica chiesa a quelle sterminate masse. Avremo modo di vedere, infine, come l’eredità che essi lasciarono contribuì a rendere più profondo quel solco e quel confine che invano essi tentarono di superare.

Costantino e Metodio

Le popolazioni slave che abitavano all’interno dell’Impero già da tempo erano cristianizzate; lo stesso, tuttavia, non si poteva dire di quelle che erano al di fuori di esso. L’evangelizzazione, come fenomeno a sé stante, aveva da sempre rivestito una grande importanza a Bisanzio, dato lo stretto legame che vi esisteva tra la chiesa e lo Stato. Abbiamo notizia, infatti, di un tentativo già effettuato di evangelizzare le popolazioni slave risalente al settimo secolo; tentativo, tuttavia, miseramente fallito a causa dell’arrivo dei Bulgari. Con Costantino e Metodio, quindi, riprendeva forza e vita un grande progetto che perfettamente poteva rientrare all’interno dell’ideologia imperiale.

Costantino e Metodio erano due fratelli, figli di un drungario di Tessalonica, destinati ad un grande avvenire. Il primo si trasferì a Costantinopoli dove studiò presso Leone il Filosofo e insegnò per alcuni anni alla scuola di Barda. Successivamente venne inviato in missione presso alcuni principi arabi e, di seguito, decise di ritirarsi in un monastero; luogo dove ritrovò il proprio fratello Metodio. Nel frattempo era giunta a Costantinopoli un’esplicita richiesta da parte di Ratislao principe di Moravia, a quel tempo terra che si estendeva dalle Alpi orientali sino alle Alpi della Transilvania, che richiedeva l’invio di una missione nelle sue terre che avrebbe avuto il compito di diffondere la religione cristiana.

La richiesta, dunque, venne felicemente accolta da Michele III e da Fozio. Proprio in quel periodo, infatti, lo stesso Fozio andava elaborando l’ideologia della “famiglia regale”. Nel momento in cui l’impero bizantino, infatti, non poteva più aspirare ad estendere la sua diretta sovranità sull’intera ecumene conosciuta era legittimo sostenere che principi e sovrani stranieri, una volta consacrati alla religione cristiana, entrassero a far parte di una sorte di ideale famiglia a capo della quale era preposto il sovrano di Costantinopoli.

Nel 863, quindi, i due fratelli si avviarono per quelle lontane terre col fine di portare il Verbo di Dio e, magari, di allargare l’area di influenza di Bisanzio. Ma come avrebbero trasmesso il messaggio cristiano? Giorgio Ziffer, in un suo recente saggio, ha conferito nuova validità alle parole con cui Chrabr Monaco apriva un suo breve trattato sull’alfabeto slavo. Egli, infatti, diceva: “Un tempo gli Slavi non avevano alcuna scrittura ma, pagani quali erano, contavano e divinavano per mezzo di linee e intagli”. Per le popolazione che abitavano le terre poste al di fuori dell’Impero, pertanto, l’introduzione del cristianesimo corrispose all’introduzione della scrittura stessa. Costantino, da geniale filologo qual era, creò dunque un nuovo alfabeto: il glagolitico.

Questo risultava essere una mescolanza dei dialetti che si parlavano a Tessalonica. Nella città da cui provenivano i due fratelli, infatti, da tempo la lingua slava era assai diffusa. La predicazione effettuata con la nuova lingua, tuttavia, urtava, e non poco, il clero germanico uso ad esprimersi in latino. La permanenza dei fratelli in Moravia fu oltremodo breve: già nel 867 venivano entrambi chiamati a Roma da papa Nicola I che negli ultimi mesi della sua vita stava cercando di attirarli dalla sua parte. Essi, dopo la dipartita di Nicola I, furono accolti nella città eterna da Adriano II. I due portarono con loro le reliquie di san Clemente che avrebbero miracolosamente rinvenuto a Cherson e che avrebbero dovuto portare in omaggio al pontefice. Secondo Honigmann vi sarebbe stato un ordine segreto tramite il quale i due fratelli avrebbero dovuto consegnare le reliquie al pontefice per agevolare i tentativi di dialogo tra la sede patriarcale di Costantinopoli e la sede Romana. Dopo la caduta di Fozio, venuto meno il presunto movente politico, Costantino e Metodio consegnarono le reliquie al pontefice che li ricambiò riconoscendo nella liturgia la nuova lingua slava.

Costantino, intanto, dopo essersi dato il nome di Cirillo si spegneva a Roma il 14 aprile 869. Metodio, nel frattempo, tornò in Moravia e, presso il lago Balaton, incontrò il principe Kocel. Incontro significativo poiché qui si decise di creare, sulle rovine della antica Pannonia romana, una nuova provincia ecclesiastica che avrebbe accolto gli slavi che già si erano convertiti al cristianesimo come quelli che si ritenevano pronti per la conversione; qui, infine, Metodio venne consacrato arcivescovo degli slavi.

La reazione tedesca non si fece tuttavia attendere. Svatopluk, un nipote di Ratilsao, accecò lo stesso principe di Moravia mentre Metodio, convocato dinanzi ad un consiglio presieduto dallo stesso Ludovico il Germanico, venne imprigionato. Ci vollero ben due anni affinché giungesse una risposta da parte del pontefice. Giovanni VIII scomunicò i vescovi che avevano approvato la prigionia di Metodio ma si astenne dal pronunciarsi in merito alla nuova lingua. Metodio dovette recarsi dunque a Roma dove, una volta provata la sua ortodossia, nel 880 la liturgia accolse nuovamente la lingua slava. Papa Giovanni VIII, tuttavia, accolse anche la richiesta di Svatopluk; nominò, dunque, Vichingo, il più acerrimo nemico di Metodio, a suffraganeo dell’arcivescovado moravo. L’equilibrio creatosi con la piena legittimazione della lingua slava come della liturgia ben presto si incrinò.

Dopo la morte di Metodio, 6 aprile 855, e la consacrazione di Stefano V al soglio pontificio, infatti, il papa, influenzato da Vichingo e Svatopluk, decise di cancellare tutto ciò che Giovanni VIII aveva costruito. La nuova lingua venne bandita; decisione che si rivelò catastrofica determinando una lunga e durevole rottura con la cultura slava.

Nel frattempo i discepoli di Metodio, a causa dell’ostilità del clero germanico, si inoltrarono nel khanato Bulgaro, tradizionalmente ricordato come il primo impero bulgaro. Ed è qui che l’influenza, e l’eredità, dei due fratelli si manifestò più fortemente. A partire dalla maiuscola greca prese forma il cirillico mentre lo slavo ecclesiastico divenne la lingua della liturgia e della cultura. Si creò una struttura ecclesiastica slava modellata su quella bizantina e si tradussero dal greco i libri liturgici. La cultura di questa parte della Slavia risentiva in maniera sempre più forte dell’influenza di Bisanzio. E ci basti osservare la vasta produzione di versi destinati al canto che vennero realizzati calcando l’innografia bizantina; griglie melodiche e schemi che già avevano una lunga tradizione alle spalle e che potevano essere ben utilizzati allo scopo. E questo processo di avvicinamento culturale ben si potrà osservare con Simeone che, poggiandosi ad antiche spinte autonomistiche, nel 917 elevò a patriarca l’arcivescovo di Preslav. L’imperatore Bizantino lo riconoscerà, ma solo nel 927 e per l’antica sede di Silistra. Contemporaneamente al rigoglio culturale che possiamo osservare in Bulgaria assistiamo al progressivo inasprimento di quel confine che via via si consolidava sempre più all’interno della Slavia.

Nel 925, infatti, Roma organizzava, nel Regno di Croazia, le regioni di Dalmazia, Istria e Cattaro all’interno di un medesimo arcivescovato; facente riferimento alla città di Spalato. Nell’area si rafforzò, pertanto, il processo di latinizzazione che provocò una progressiva emarginazione della lingua slava, percepita sempre più come elemento di vicinanza alla tradizione bizantina. In Dalmazia, tuttavia, il glagolitico, grazie all’opera del clero slavo, rimase anche se graficamente modificato. E ciò fu reso possibile grazie ad una pia bugia, ad un inganno che venne perpetrato a danno della Chiesa Romana. Si affermò, infatti, che quella lingua era stata in realtà creata da San Girolamo, secoli prima che gli Slavi si affacciassero sull’Adriatico.

Quello strappo che i fratelli di Tessalonica tanto faticosamente avevano cercato di ricucire oramai si apriva in maniera duratura e sempre più profonda. E basti solo accennare allo scisma che di lì a breve avrebbe diviso la cristianità o alla quarta crociata e alle sue nefaste conseguenze. Conseguenze che portarono al crollo momentaneo di Costantinopoli e alla formazione in Oriente di un clero cattolico. Eventi che alterarono l’orientamento e la composizione della Slavia e che, per ovvi motivi, non possiamo analizzare qui in maniera approfondita.

Ed è bene tenere presente che, nel mondo slavo, la questione della lingua è intimamente connessa a quella dell’identità religiosa e che tale identità sarà alla base della successiva evoluzione in campo culturale di quelle popolazioni. Ed è proprio dalla lingua che possiamo muovere importanti riflessioni. Questa, infatti, come efficacemente sostenuto da Numanov non è solo uno strumento comunicativo ma, elemento non meno importante, essa rappresenta l’identità più intima di una cultura e di un popolo. Ed è quindi lecito pensare che Cirillo e Metodio, nella loro missione, conferendo ad un popolo privo della scrittura una lingua e un alfabeto avessero voluto immaginare una Slavia unita. E tale programma può essere ulteriormente verificato dal significato che il vescovo Adalberto, successivamente, diede alla figura stessa di Metodio. Il vescovo, infatti, impegnato nel progetto di rinascita dell’Impero romano cristiano affermò che la sede pontificia aveva realizzato con lui il grande obbiettivo di dare un’unica chiesa agli slavi e di sottoporre questa all’autorità diretta del pontefice. E Adalberto, o Vojtech, si poneva dunque come suo ideale continuatore.

Come si è potuto evincere, dunque, una missione che era nata per diffondere la religione cristiana e, probabilmente, per dare unità ad un popolo finì col porre invece profonde quanto insanabili basi per la sua divisione.

autore: GIAN LUCA GONZATO

Immagine tratta da http://cyrilandmethodius.org/en/index.html

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