Il collasso del limes anatolico

I Turchi si affacciano sul Mar Egeo

L’Impero Romano d’Oriente, nella seconda metà del XIII secolo, era uscito vincitore nella grande lotta per la sua stessa sopravvivenza, riuscendo nel districarsi dall’enorme caos scaturito dal disastro della IV Crociata del 1204.

Nel 1261 Costantinopoli era stata ripresa e il basileus Michele VIII, con la sua incoronazione, aveva posto le basi della nuova dinastia dei Paleologi, la quale si sarebbe rivelata la più longeva della storia bizantina.

Dopo un cinquantennio di sforzi, la sovranità romana era stata ricostituita lungo un territorio che, seppur con alcune soluzioni di continuità, andava dalla parte occidentale dell’Asia Minore fino al Peloponneso.

Un ruolo cruciale per la riconquista dei territori perduti venne giocato dalle province d’Anatolia le quali, rimaste intatte rispetto alla disgregazione avvenuta nei Balcani, costituirono il nucleo di resistenza del c.d. Impero di Nicea.

Furono infatti le truppe e le risorse provenienti da queste contrade a garantire i successi dei Lascaridi prima, e delle campagne offensive e difensive di Michele VIII poi.

In quel tempo l’Asia minore romana comprendeva un territorio uniforme, che partiva dal fiume Meandro e risaliva verso Nord, lambendo la città di Ancira (l’odierna Ankara), raggiungendo poi le sponde del Mar Nero, in cui erano situate città quali Efeso, Smirne, Brussa, Nicea, Nicomedia ed Eraclea, abitate prevalentemente da Greci ed Armeni.

Il confine con l’entroterra anatolico, dominio dei Turchi Selgiuchidi, era saldo e ben presidiato, specialmente dopo che questi ultimi dovettero subire gli attacchi dei Mongoli che provocheranno il crollo del loro sultanato.

La relativa tranquillità del limes orientale fu tuttavia uno dei fattori che innescheranno il suo stesso sfaldamento: tutta l’attenzione e le energie dell’Impero vennero rivolte verso Occidente, prima nel frenetico sforzo di recuperare la capitale e le terre in Grecia spartite fra crociati e signorotti locali e poi nella difesa dagli attacchi dei Bulgari, Serbi e Angioini.

La politica di Michele VIII si era rivelata vincente ma dispendiosa e, quasi in un parallelo con quanto era successo con Giustiniano, i Romani avevano operato una piccola Restauratio svuotando tuttavia le casse statali.

Inoltre, l’ascesa al trono di Michele Paleologo segnò la definitiva affermazione della classe aristocratica, determinando una decisiva accelerazione della decentralizzazione e della creazione di latifondi, a discapito della piccola proprietà terriera contadina e della bassa nobiltà.

Metodi feudali, quali il sistema della pronoia e l’arbitrio tributario, divennero sistematici ed endemici.

L’esercito, così minato dalla carenza di risorse e di uomini, dovette sempre più ricorrere a milizie mercenarie o ad alleati stranieri, spesso strozzini come si riveleranno Venezia e Genova.

Fu in questa situazione che avvenne la concomitanza di un grande e fatidico evento storico: la turchizzazione definitiva dell’Anatolia.

Lo stanziamento di popolazioni turcomanne in Asia Minore fu un fenomeno progressivo, attuato a più riprese.

La prima ondata migratoria avvenne dopo la battaglia di Manzicerta del 1071 e la conseguente fondazione del Sultanato Selgiuchide di Rum.

La capitale dei Selgiuchidi era posta ad Iconio e il loro impero si estendeva sull’Anatolia centrale, mentre le coste erano controllate da Costantinopoli.

L’immigrazione turca era favorita dallo spopolamento e dalla politica selgiuchide di canalizzare verso le zone di confine le tribù nomadi che potevano essere fonte di disordini interni.

Si ritiene che alla base di questi grandi spostamenti di genti vi era uno dei tanti movimenti a catena caratteristici della steppa euroasiatica e fu proprio l’invasione mongola dell’Asia Centrale del XIII secolo a causare una seconda potente iniezione di sangue turco.

L’Impero Selgiuchide venne pesantemente sconfitto dalle orde mongole nel 1243 a Kose Dag e il loro stato travolto, lasciando un enorme vuoto di potere.

Un notevole numero di famiglie turche, sedentarie o nomadi, cercarono rifugio proprio in Anatolia, spingendosi sempre più verso Occidente, e verso la fine del Duecento la turchizzazione della regione era ormai un fatto compiuto e irreversibile.

La colonizzazione dell’elemento turco fu anche favorita dalla conversione massiccia delle popolazioni indigene di etnia greca o armena.

Si venne a creare un clima di sincretismo sia nelle campagne che nelle città, specialmente quelle dell’interno come Sivas, Konya, Ankara, Erzurum e Kayseri, le quali si erano trasformate in grandi centri musulmani, arricchiti da comunità cristiane, greche, armene, franche, ebraiche, dediti al commercio e punti di transito per le rotte carovaniere provenienti dalla Siria e dalla Persia.

Con lo sgretolamento dell’Impero Selgiuchide e le attenzioni dell’Impero Romano tutte rivolte allo scacchiere balcanico la frontiera tra i due mondi entrò in una fase di acuta sollecitazione: le tribù guerriere turcomanne, non più frenate da un’autorità centrale, sfruttarono questo spazio vuoto dando vita ad insediamenti autonomi, assecondando le naturali spinte secessioniste.

Nacquero così i beilikati, piccoli emirati turchi musulmani, turbolenti e bellicosi, che iniziarono una inesorabile penetrazione nel territorio romano, spingendosi sempre più a Ovest, fino a giungere alle sponde del Mar Egeo.

Il contatto diretto con il mare fu un evento rilevante per la diaspora turcomanna: questi nuovi Stati non gravitarono più verso capitali situate all’interno e legate al mondo asiatico, ma guardavano all’Occidente, inserendosi nella vita e nelle relazioni del Mar Mediterraneo, con Genova, Venezia e la stessa Costantinopoli.

La nuova carta politica dell’Anatolia, agli albori del Trecento, fu suddivisa secondo un frazionamento che, non a caso, riproduceva per gran parte le partizioni regionali dell’antichità: i possedimenti ilhanidi occupavano la Cappadocia e Galizia, i Qaramanidi erano in Panfilia, l’emirato mentescide a Mileto e nella Caria, l’aidinide, il saruhanide e il qaraside in Lidia, il ghermiyanide in Frigia, il giandaride nel Ponto e nella Paflagonia e l’emirato ottomano in Bitinia.

Le nuove formazioni politiche si composero in base alle condizioni geografiche ed economiche dell’ambiente regionale, conducendo ad un migliore sfruttamento delle risorse locali e alla fioritura di nuovi centri regionali, liberi dalla sudditanza di lontane capitali, generando una situazione favorevole, che verrà poi presa per mano dallo Stato ottomano, quando fonderà su nuove basi l’unità politica dell’Anatolia.

autore: JACOPO ROSSI

FONTI:

Georg Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Einaudi, 1968

Redazioni Grandi Opere di UTET Cultura, LA STORIA, De Agostini Editore, UTET, 2004

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Di Nicola

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