Andronico I Comneno

“Per questo tutta la città desiderava Andronico e il suo arrivo era considerato come una face, un astro splendente in una notte senza luna(1)”.

 “Giunto il mattino, non c’era abitante della città che non fosse lì, che non pregasse Dio perché Isacco diventasse Imperatore e Andronico fosse deposto dal regno, venisse arrestato e patisse i mali che aveva fatto(2)”.

In questi due estremi, tra di loro non così lontani nel tempo quali potrebbero apparire, risiede il mistero dell’esistenza del cugino del grande Manuele Comneno, un’esistenza tormentata ed errabonda, tremenda e fascinosa, miserabile e grandiosa, piena d’odio e ricca d’amore. Un’esistenza estrema, come estreme furono le emozioni che Andronico seppe suscitare, sempre, e consapevolmente. Fino a restarne egli stesso vittima, con quella teatralità con cui amava accompagnare ogni passo della propria vita e della vita di coloro che fatalmente traeva a sé, in un palcoscenico che per un tempo breve ma tragicamente gravido di conseguenze drammatiche fu un Impero.

ASCENDENZE INQUIETE

Andronico Comneno vide la luce in un anno compreso tra il 1118 ed il 1123, figlio di Irene e del sebastokrator Isacco, fratello minore di Giovanni II, che in parte proprio a lui ed alla sua fedeltà doveva quel trono che non era parso del tutto sicuro alla morte di Alessio I, e la cui stabilità comunque assorbì molte delle energie del sovrano, costretto a continuare la politica paterna di sottile e complesso bilanciamento delle forze sociali dell’Impero, in un gioco che coinvolgeva ovviamente la stessa famiglia regnante. Tra il basileus e suo fratello tuttavia il rapporto si incrinò, e verso il 1130 Isacco, insieme ai figli Giovanni ed Andronico, riparò presso il sultano di Iconio ove, cercando anche appoggi presso gli Armeni ed i Franchi del regno di Gerusalemme, si adoperò per creare un fronte comune contro l’Impero dei Romani da suo fratello governato. Vi erano sicuramente motivazioni di carattere personale in un simile gesto: gelosia ed invidia, il carattere stesso di Isacco, uomo irrequieto, umorale, più letterato che politico, più versato in dotte disquisizioni teologiche che nelle attività connesse all’agone politico, ma non è affatto improbabile che tramite il Comneno agissero quelle stesse forze d’opposizione al regime che, in seguito, avrebbero affiancato il figlio. All’avventura del sebastokrator comunque posero fine le campagne di Giovanni in Armenia e Siria, il cui successo privò Isacco degli appoggi necessari ai suoi intrighi, ma la riconciliazione tra i due fratelli, tanto celebrata dai rètori di corte, fu di breve durata: in occasione della campagna contro Masud di Iconio uno screzio tra l’Imperatore e Giovanni, primogenito d’Isacco e suo degno erede, portò alla diserzione del giovane in campo avversario, ove tra l’altro avrebbe sposato una figlia del sultano. Tale clamoroso gesto fatalmente condusse all’allontanamento del padre del transfuga, esiliato ad Eraclea Pontica. Isacco concluse la sua vita intorno al 1152 e venne sepolto, secondo la sua volontà, nel monastero che aveva voluto erigere in Tracia, dedicandolo alla Theotokos Kosmosòteira,  ma le vicissitudini di questo principe inquieto non sarebbero restate a lungo isolate, poiché un suo figlio avrebbe ricalcato ben presto le orme paterne, ma in ben altro modo.

PRINCIPE RIBELLE

Non c’è dubbio che caratterialmente Andronico ed Isacco fossero tanto simili da suscitare stupore. Essendo coetanei, il figlio del sebastokrator e suo cugino Manuele che, quartogenito dell’Imperatore, pareva lontano dal trono, furono affiatati compagni di giuochi d’infanzia e crebbero insieme, probabilmente accomunati da interessi e passioni comuni a due giovani colti, valorosi ed estremamente intelligenti: non è del resto un segreto il fatto che mai Manuele cessò d’ammirare e di provare un profondo e, spesso, irrazionale ed incomprensibile affetto per questo suo cugino.  Combatterono insieme nelle molte campagne di Giovanni in Asia Minore e, almeno una volta, Andronico tolse Manuele dai guai, e quando, mancato improvvisamente il basileus, Manuele dovette precipitarsi a Costantinopoli per raccoglierne un’eredità imprevista ed incerta, Andronico, che ne difendeva la retroguardia dalle incursioni turche, cadde prigioniero di Masud di Iconio, da cui venne rapidamente riscattato dal nuovo basileus.

Ma qualcosa si era infranto, nel frattempo, tra Manuele ed Andronico. Come a suo tempo tra Isacco e Giovanni. L’Imperatore decise di investire il cugino, rientrato a corte, del titolo di doux di Cilicia, ma Andronico approfittò della sua posizione per tramare contro l’Impero con i Selgiuchidi e con i Franchi. Privato della carica, ebbe comunque il ducato di Belgrado, Braničevo e Niš, con Kastoria quale personale appannaggio. Tutt’altro che grato del trattamento riservato, Andronico –concordi Giovanni Cinnamo e Niceta Coniata– cominciò ben presto a stringere segreti accordi con Geza II d’Ungheria al fine di giungere ad un accomodamento che avrebbe permesso al traditore di conseguire il trono, in cambio della consegna all’Ungheria dei territori governati. Il piano si sarebbe dovuto concretizzare nell’assassino di Manuele mentre era di stanza a Pelagonia ed in un attacco di Geza a Braničevo, ma l’intercettazione delle missive tra il ribelle ed il sovrano ungherese ne provocò il fallimento: questa volta Andronico venne incatenato e gettato nelle segrete del Grande palazzo di Costantinopoli. Era l’inizio del 1155.
Niceta Coniata, nella sua Storia, motiva tale ribellione con torbide relazioni familiari nell’ambito del clan comneno. Manuele, a suo dire –ma questo è provato da altre fonti-, prediligeva in quegli anni in sommo grado un suo nipote, il figlio maggiore del suo defunto fratello Andronico, il protosebastos e protovestiarios Giovanni. Tale affetto avrebbe ingenerato un feroce sentimento di gelosia nell’animo del cugino, esacerbato dagli onori che l’Imperatore versò su Giovanni quando costui venne gravemente ferito in occasione d’un torneo e complicato ulteriormente dalla scandalosa relazione che Andronico, inguaribile seduttore già all’epoca, intratteneva con la stessa sorella di Giovanni, Eudocia. Seppure aderente alla realtà dei fatti, tale spiegazione appare semplicistica, soprattutto se vista nell’ottica di quanto avvenne in seguito.

La prigionia d’Andronico durò poco: nell’autunno del 1158, in modo a dir poco rocambolesco, il prigioniero, “tipo ardito, il più versatile degli uomini, pieno di risorse nelle situazioni difficili(3)”, riuscì ad evadere ed a lasciar Costantinopoli, ma non a far perdere le sue tracce, che gli sgherri inviati da una inferocita Imperatrice Bertha/Irene riuscirono a seguire con successo. Andronico finì nuovamente in carcere, e questa volta ci rimase a lungo.  Paul Magdalino ritiene che abbiano ragione coloro che non ritengono pura coincidenza temporale la prigionia e la fuga d’Andronico con i contemporanei eventi che portarono alla cattura ed all’accecamento dell’epì tou kanikleiou, ovvero segretario imperiale, Teodoro Stippeiota e di Michele Glica, tanto più che Glica si trovava in carcere con Andronico(4). E’ probabile che tali fatti siano stati alla base della decisione di Manuele di interrompere le operazioni in Cilicia ed in Siria per precipitarsi nella Capitale, poiché era nelle intenzioni dello Stippeiota, noto esponente della oramai indebolita aristocrazia civile, di deporre il basileus ed incoronarne uno finalmente scelto dal Senato ed a lui obbediente, colto, amante della sapienza e desideroso di circondarsi di uomini tratti dall’aristocrazia senatoria: Andronico stesso, forse? Ed il fatto che Stippeiota appartenesse a quel gruppo che vedeva di cattivo occhio l’alleanza con gli Hohenstaufen spiega anche l’attivismo dispiegato dall’Imperatrice nella ricerca del principe fuggitivo. E’ ovvio che Manuele non applicasse al cugino la stessa pena inflitta ai congiurati: non era bene coinvolgere in un evento tanto spregevole un così stretto componente la famiglia imperiale. Ma appare anche ovvio e logico il coinvolgimento di Andronico in una sorta di colpo di stato che avrebbe riportato indietro la struttura imperiale alla metà del secolo precedente, come del resto sarebbe accaduto anni dopo, quando il destino finalmente avrebbe realizzato i desideri più segreti di Andronico, tanto più che sul trono sarebbe salito comunque un Comneno, e con un nome che rispettava la celebre e diffusa profezia tratta dagli Oracoli di Leone il Saggio, secondo la quale le iniziali dei sovrani d’età comnena, a partire da Alessio I, avrebbero dovuto comporre la parola AIMA.

Non esistevano comunque mura tali da poter rinchiudere a lungo Andronico che, nel 1164, in maniera ancor più romanzesca rispetto a sei anni prima, riuscì a fuggire per rifugiarsi, dopo aver percorso le terre bulgare, presso il principe russo Jaroslav di Galitza, Halič, avversario del filobizantino gran principe di Kiev. Vi restò fino al 1166 quando, inaspettatamente, Manuele lo richiamò al suo fianco, offrendogli totale sicurtà ed ottenendone fedeltà, in occasione del conflitto che opponeva l’Ungheria all’Impero ed in cui molto era stato investito. La collaborazione tra i due cugini si rivelò fruttifera, ed Andronico ebbe modo di dispiegare le sue conoscenze delle tecniche ossidionali, ma non servì ad assicurare il giuramento d’Andronico a quel principe ungherese Béla, ribattezzato Alessio, che Manuele aveva promesso alla porfirogenita Maria e che chiedeva fosse accettato quale suo successore.

Pur avendo rifiutato di giurare fedeltà al successore designato del suo Imperatore, o forse proprio per quello, Andronico venne nominato stratego sul fronte armeno, con ampî poteri e con l’appannaggio di Cilicia e Cipro. Se Manuele riteneva che tale incarico avrebbe portato alla luce le capacità militari e strategiche del cugino, responsabilizzandolo, in questo fallì, poiché Andronico si fece battere più volte dall’armeno Toros. Invece ebbe modo di mantenere vive ben altre sue qualità, del resto già note, dal momento che ad Antiochia Andronico, che “godeva delle sfrenatezze come Sardanapalo”(5), ebbe modo di frequentare e di avviare una relazione con Filippa, figlia di Raimondo di Poitiers e sorella di Maria, sposa di Manuele Comneno. Lo scandalo che sortì da tale relazione, ritenuta incestuosa come lo era stata anni prima quella con Eudocia, fu enorme, e l’ira incontenibile del basileus costrinse un sicuramente soddisfatto Andronico all’ennesima fuga, questa volta presso il re di Gerusalemme Amalrico, che gli affidò la signoria di Beirut. Ma anche qui l’ineffabile principe non si smentì, invaghendosi follemente della splendida Teodora, vedova del re Baldovino III ma, soprattutto, figlia d’Isacco, fratello di Manuele. Era troppo: Amalrico, strettamente legato a Bisanzio, non poté più garantire alcuna protezione ad Andronico che, insieme al suo nuovo amore, da cui avrebbe avuto Alessio ed Irene, che si sarebbero aggiunti a Manuele, Giovanni e Maria, nati da una precedente sposa di cui non si conosce il nome, dovette continuare lungo la strada dell’esilio, riparando prima presso il sultano Nur ad-Din e poi presso il governatore turco di Teodosiopoli, l’attuale Erzurum.  Costui affidò all’esule una fortezza confinaria, da dove per anni Andronico condusse periodiche incursioni entro i confini bizantini, riportandone prigionieri da rivendere come schiavi e, probabilmente, un anatema dal Patriarca di Costantinopoli.

INFIDO PROTETTORE

Era comunque scritto nel destino che le strade di Manuele e di Andronico dovessero fatalmente incrociarsi. Memoria dell’infanzia e dell’adolescenza? Profondo senso della famiglia? Rispetto ed ammirazione per le impressionanti qualità dell’uomo? Non è chiaro, non lo sarà mai, tuttavia, in previsione d’un futuro incerto l’Imperatore ritenne che era meglio tentare per l’ennesima volta di legare alla Corona una personalità tanto potenzialmente pericolosa piuttosto che averlo quale sicuro nemico. Tramite il doux di Trebisonda Niceforo Paleologo, Manuele riuscì a catturare Teodora e a portarla a Costantinopoli, dove si precipitò, come previsto, Andronico che, supplice ed in catene, fu costretto a giurare fedeltà all’Imperatore ed al suo successore designato, il figlio Alessio. Era il luglio del 1180 e lo stanco, disilluso e malato Manuele poteva a buon diritto credere d’esser riuscito nell’intento di legare tramite quel giuramento al figlio quel cugino tanto turbolento quanto geniale. Andronico venne, infatti, ricompensato con l’assegnazione del governatorato di Oinaion, l’attuale Űnye, e di Sinope, sul Ponto, benché Eustazio, nell’Espugnazione di Tessalonica, definisca Andronico governatore della Paflagonia.

Il 24 settembre del 1180 Manuele I Comneno cessò di vivere. Il gran carro dell’Impero che da Alessio, ininterrottamente, mai aveva cessato di correre, accelerando sotto l’energica guida di Manuele, parve fermarsi e, venendo a mancare quel sovrano che, come efficacemente testimonia Niceta Coniata, aveva moltiplicato se stesso per l’intera Ecumene, Bisanzio sentì l’esigenza di ripiegarsi al suo interno, come per un’intima necessità a ripensare se stessa.  Il nuovo basileus, l’undicenne Alessio II, venne affidato ad una reggenza che aveva nella madre, la latina Maria d’Antiochia, ora monaca con il nome di Xene, la Straniera, il fulcro, ma le redini dello stato finirono intieramente nelle mani del protosebastos Alessio Comneno, un nipote del defunto Imperatore. Strisciante ma rapida giunse ben presto l’implosione del sistema, e giunse per opera della stessa porfirogenita Maria, figlia di Manuele. Costui, conscio della delicatezza della situazione che si sarebbe creata al momento della sua scomparsa, aveva pensato un consiglio di reggenza ove non vi fossero figure di spicco, anche per non creare spaccature in una compagine familiare che già Miriocefalo aveva decimato, e che necessitava di tempo per rigenerarsi, magari all’insegna di quella trasformazione dello Stato che Manuele avrebbe desiderato, da delicato sistema d’alleanze familiari a vero e proprio dominio della Corona. Non ne ebbe il tempo, è chiaro, e la rapida ascesa del protosebasto Alessio accelerò lo scollamento del sistema di potere comneno, fino ad allora basato sulla fedeltà e sui legami incrociati delle varie forze di potere politiche ed economiche ad un principe indiscusso. Il protosebasto non lo era, e la porfirogenita Maria, sentendosi defraudata di quei diritti sovrani dei quali si riteneva legittima depositaria, ben più della matrigna o d’un parente burocrate, degna discendente di Anna Comnena, volle porsi a capo d’una congiura il cui fine era la scomparsa di coloro che, a suo dire, usurpavano l’Impero. Né agiva da sola: molti si mostravano apertamente insofferenti alla situazione esistente, e molti ritenevano che fosse giunto il momento per un vero rivolgimento, un momento al quale non voleva né poteva essere estraneo colui che ben vedeva approssimarsi l’ora della definitiva riscossa.
Andronico da Oinaion pensò di far valere a suo favore quel giuramento impostogli a suo tempo dallo scomparso cugino e, tramite una fitta corrispondenza, si rivolse a quanti potessero aver motivi d’attrito con il protosebasto, ponendosi quale protettore degli interessi del giovane nipote. In breve Andronico divenne il punto di riferimento di quel gruppo decisamente disomogeneo che intendeva rovesciare la reggenza, e che definire antilatino e antiaristocratico è davvero semplicistico: per quanto tra i suoi sostenitori vi fossero larghi strati del popolo, non mancavano tra essi esponenti dell’aristocrazia comnena, così come lo appoggiavano quanti dell’aristocrazia civile aspiravano ad un ritorno all’antico sistema pre-comneno; inoltre Maria era di madre tedesca, e suo marito, il cesare Ranieri, era un Monferrato, e tra le sue truppe non mancavano mercenari franchi, come del resto tra le truppe imperiali.

La congiura organizzata da Maria e da Ranieri fallì, ma fu all’origine di quella “guerra sacra” che nel marzo del 1181 vide i ribelli asserragliati in Santa Sofia, da dove li trasse, amnistiati, il Patriarca Teodosio II Boradiota: le notizie di quel conflitto, e del disordine e dell’incertezza politica che ne seguirono, portate a Eraclea Pontica dalla figlia Maria, convinsero Andronico che era giunto il tempo di agire. Riprese le redini dell’esercito che già da mesi aveva approntato ad Oinaion, composto per lo più da Paflagoni e mercenari turchi, nella primavera del 1182 l’oramai sessantenne Andronico mosse in direzione della Città, confortato dalle notizie e dai pressanti inviti ricevuti. Era da tempo che mancava dalla capitale, ma certo non era stato dimenticato quest’uomo pieno di fascino, d’aspetto ammirevole, estremamente giovanile, di altissima statura –con un luogo comune letterario Niceta Coniata lo dice alto ben dieci piedi–, di grande eleganza, dall’animo valoroso e dotato di una eloquenza brillante, suadente e seducente. La marcia d’avvicinamento non fu esente da intoppi: Nicea, retta da Giovanni Ducas, si rifiutò d’accoglierlo, ed allo stesso modo gli impedì il passaggio nel tema dei Tracesi il suo governatore, il megas domestikos Giovanni Comneno Vatatze. Incurante, Andronico proseguì, finché a Charax, nei pressi di Nicomedia, fu fermato da un esercito che, alla guida di Andronico Angelo, il protosebasto aveva allestito contro l’usurpatore. Pur disponendo di truppe inferiori di numero Andronico ebbe ragione dell’avversario che, temendo le conseguenze della sconfitta, disertò, e così il Comneno poté allestire il suo accampamento a Calcedonia, di fronte alla Città. Spaventato, il protosebasto lasciò alla flotta il compito di allontanare da sé il pericolo incombente ma, invece di combattere, il megas doux Andronico Contostefano preferì passare con le sue navi dalla parte di Andronico, oramai dunque vincitore incontrastato ed acclamato quale liberatore per le vie di Costantinopoli.
Prima di occuparla, l’astuto usurpatore attese affinché nella Città si scatenassero tutte le contraddizioni fino ad allora tenute sotto controllo, con il consueto strascico di vendette e massacri. Il protosebasto venne catturato e fatto accecare, i figli d’Andronico, già imprigionati, vennero rilasciati ed inviati al suo accampamento, che non fu certo all’oscuro di quanto nel frattempo accadeva a Costantinopoli, dove la folla, sicuramente incitata ed aiutata dai mercenari d’Andronico, prese a sfogare antichi e nuovi rancori, spesso irrazionali, contro i Latini presenti in città, accusati d’essere al servizio di Maria e del protosebasto.  Dei forse diecimila stranieri di Costantinopoli, per lo più genovesi e pisani, privati d’ogni bene ed oggetto di feroce violenza, quelli che non fuggirono lontano dalla città vennero massacrati senza pietà. L’inizio del dominio d’Andronico non poteva presentarsi in modo peggiore: già precedentemente, in un Mediterraneo che diveniva rapidamente sempre più piccolo, il ripiegamento di Bisanzio su se stessa, seguendo un moto centripeto del tutto in contrasto con gli sforzi internazionali di Manuele, non aveva certo giovato all’Impero. Ma un gesto sconsiderato come il massacro dell’aprile del 1182 fu un errore che presto Andronico avrebbe pagato a caro prezzo.

Di fronte all’opinione pubblica, ancora lealista, seppur confusa, Andronico mantenne un atteggiamento cauto, omaggiando da una parte il giovane Alessio II, legittimo basileus, giungendo fino al punto di inscenare una nuova incoronazione in Santa Sofia nel maggio del 1183, ma dall’altra allontanando da Palazzo Maria d’Antiochia. L’usurpatore preparava in tal modo la sua scalata al potere, isolando sempre più il sovrano legittimo, blandendo e ricompensando chi lo appoggiava e liberandosi cinicamente e senza scrupolo alcuno di chi in qualche modo avrebbe potuto costituire un ostacolo. La figlia di Manuele, Maria, scomparve ben presto, probabilmente avvelenata, e la seguì presto il marito, il cesare Ranieri. Essi avevano forse pensato di usare Andronico per i propri scopi, ma costui non era certo uomo da poter essere manovrato.  Nel settembre del 1183 venne decretata la fine della stessa Imperatrice madre: accusata di cospirare con suo cognato, Béla III d’Ungheria, colui che a suo tempo era stato promesso alla porfirogenita Maria, la vedova di Manuele venne rinchiusa nel monastero di San Diomede e quindi soffocata. L’ultimo uomo che avrebbe potuto fare ombra ad Andronico, il venerato patriarca Teodosio Boradiota, aveva deciso di ritirarsi dagli affari mondani nell’agosto, per non essere costretto ad avallare un regime tirannico e, da ultimo, l’unione tra Irene, figlia del reggente, ed Alessio, figlio illegittimo di Manuele, un matrimonio tra cugini primi che mai la Chiesa avrebbe benedetto. Venne chiamato a succedergli Basilio II Camatero, uomo vicino ad Andronico.

IMPERATORE

Nel frattempo, eliminata Maria/Xene, Andronico fece preparare la sua ascesa al trono, facendosi acclamare per le vie della Città dai suoi sostenitori e dallo stesso Alessio. Pochi giorni dopo l’omicidio dell’Imperatrice, Santa Sofia vide l’incoronazione di Andronico Comneno, proclamato basileus prima del giovane figlio di Manuele I, posto dunque in posizione di secondo piano. In effetti Alessio II continuava a vivere nell’isolamento cui era costretto, mentre l’usurpatore regnava, noncurante delle minacce che provenivano oltreconfine e della disgregazione interna della compagine imperiale, poiché il destino di Alessio era oramai segnato: immediatamente dopo la cerimonia dell’incoronazione il figlio di Manuele Comneno venne strangolato con una corda d’arco ed il suo cadavere, privato del capo, venne gettato a mare. L’assassino non esitò quindi, per scrupolo di legittimità, benché fosse ultrasessantenne, a sposarne la dodicenne vedova, Agnese/Anna, figlia di Luigi VII di Francia e, per rafforzare la propria posizione, volle associare al trono il figlio secondogenito Giovanni, dal momento che del primogenito, Manuele, ostile a molte delle scelte paterne, non riteneva di potersi fidare. Andronico I Comneno era autocrate, finalmente, e poteva regnare, da solo.

Su di un Impero che, tuttavia, andava a pezzi. Già da tempo Kilidj Arslan di Iconio, “saputo che era passato nell’Ade colui che egli temeva come un masso incombente sulla testa(6)”, aveva ripreso ad attaccare le frontiere imperiali che, sguarnite, non offrivano resistenza, e così erano cadute Sozopoli, l’attuale Uluborlu, Cotieo, l’attuale Kütahya, ed Antalya si trovava in stato d’assedio. Nei Balcani, poi, l’intera costruzione così faticosamente eretta da Manuele I si sgretolava rapidamente: Stefano Nemanja, resosi indipendente, unì la Zeta alla Rascia e prese a devastare periodicamente i territori imperiali, saccheggiando Belgrado, Braničevo, Niš e Sofia, insieme a Béla III d’Ungheria, che a sua volta, rotta l’alleanza con Bisanzio, aveva conquistato Dalmazia, Croazia e la regione di Sirmio. Ma anche le province davano segni di fermento: già durante la reggenza d’Andronico il megas domestikos Giovanni Comneno Vatatze, duca dei Tracesi, si era reso protagonista d’una ribellione che aveva visto l’esercito regolare, comandato da Andronico Laparda, sconfitto davanti a Filadelfia, l’attuale Alaşehir, e che si era esaurita solo dopo la morte del Vatatze, seguita dalla vendetta e dalle repressioni d’Andronico. Ma questo episodio non era destinato a restare isolato. Nella prima metà del 1184 si ribellarono Isacco Angelo e Teodoro Cantacuzeno a Nicea, Teodoro Angelo a Prusa, ora Bursa, e Lopadio, attualmente Ulubad. Andronico non esitò a mettersi in marcia e, mentre Alessio Brana riportava alla ragione Lopadio, strinse d’assedio Nicea. Le operazioni furono lunghe e contraddistinte da episodi di efferata brutalità, ma, ucciso il Cantacuzeno, Nicea decise di arrendersi: Isacco Angelo venne risparmiato ed inviato a Costantinopoli, ma la città venne punita ferocemente, come in seguito accadde a Prusa, presa d’assalto. Nel frattempo, tuttavia, Costantinopoli perdeva definitivamente il controllo su Cipro, in virtù d’una vicenda che ebbe quale protagonista un altro dei tanti insoliti personaggi che popolano la Bisanzio della fine del XII secolo. Isacco era un nipote del fratello di Manuele, anch’egli di nome Isacco, ed era governatore della Cilicia armena negli anni che videro la scomparsa del grande basileus. Scomparso Manuele, Isacco venne catturato dagli Armeni e consegnato a Boemondo d’Antiochia: riscattato, tramite l’intervento dei cavalieri Templari che si occuparono della somma necessaria, Isacco poté tornare a Costantinopoli, dove Andronico decise di affidargli il governo di Cipro, benché Niceta Coniata sostenga che tale nomina fosse falsa, sostenuta tramite documenti contraffatti. Ciò che conta, comunque, è che Isacco, una volta giunto sull’isola, non riconobbe più alcuna autorità, assumendo in seguito il titolo imperiale, né valse a nulla il fatto che Andronico facesse sterminare la famiglia del ribelle, come era sua consuetudine. Le ribellioni non risparmiarono Costantinopoli e videro protagonisti quei settori dell’aristocrazia comnena che avevano inizialmente appoggiato Andronico: venne alla luce una congiura che pareva ordita dal megas doux Andronico Contostefano e da Andronico Angelo, ed in seguito fallì un tentativo di ribellione promosso da quell’Andronico Laparda sconfitto dal Vatatze. Tutti soffocati nel sangue, questi complotti erano comunque spie d’un diffuso malessere cui l’Imperatore rispose con l’unica cura che pareva conoscere: il terrore. L’Impero venne avviluppato in un manto di sangue, in uno scenario degno dei più truculenti racconti dell’orrore. Le repressioni promosse da Andronico non risparmiarono alcun settore sociale, ed investirono con crudeltà inusitata oppositori reali o presunti, insieme alle loro famiglie ed ai loro conoscenti. Tra le vittime vi furono persino il genero Alessio, privato della vista –un dono che l’Imperatore amava distribuire con larghezza-, la figlia Irene, monacata ed un loro segretario, tal Mamalo, arso vivo.

Tutto quello che Alessio, Giovanni e Manuele avevano creato rovinava, né, del resto, sarebbe stato nelle possibilità d’Andronico di porre un freno al crollo che investiva l’Impero. Scioltosi il sistema di alleanze e di intrecci familiari tra l’aristocrazia civile, quella militare ed il clan dominante dei Comneni, drasticamente ridotto in parte a causa di Miriocefalo ed in parte grazie alle purghe promosse da Andronico –le ricerche di Alexander Kazhdan confermano che la presenza dei Comneni nell’élite governativa crollò dall’89 al 43%(7)–, automaticamente si dissolse anche il legame che teneva unite le province alla capitale, tanto più che, come ancora conferma il Kazhdan, venne ad aumentare enormemente l’importanza di quell’aristocrazia civile cui comunque Andronico –e forse anche suo padre– era già legato prima di salire al trono, fino a superare l’epoca d’Alessio I e, addirittura, gli anni della metà dell’XI secolo. Ancora, nei ranghi della nobiltà civile emersero nuove famiglie e molte assunsero incarichi militari. E’ dunque evidente che, bruscamente, Bisanzio vide interrotta una naturale evoluzione delle sue strutture politiche e sociali, in favore di un arretramento dell’orologio della sua storia di quasi un secolo e mezzo. Riapparvero persino nelle stanze del potere gli eunuchi che, sotto Giovanni e Manuele, erano stati relegati ad incarichi minori, estromessi dall’esercito e dall’apparato statale(8). Tutto ciò non poteva che avere il risultato di creare un vuoto di potere che, in assenza d’una guida forte, non poteva essere colmato. Le province cominciarono a sollevarsi ma non più, come prima, per raccogliere le forze necessarie a rovesciare il governo centrale, ma allo scopo di conseguire l’autonomia, privando dunque Costantinopoli di preziose entrate e costringendola a continue spedizioni militari costose e pericolose; le frontiere cominciarono a cedere, a causa della scarsa attenzione e delle scarse risorse riservate all’esercito, alla flotta ed alle fortificazioni; l’Impero si chiuse in un pericolosissimo isolamento, ribaltando completamente la tradizionale politica comnena. Né paiono del tutto accettabili o credibili le notizie, per lo più riportate da Niceta Coniata, relative al buon governo di Andronico: avrà pure questo sovrano blandito la folla con donativi, per ingraziarsela, ed avrà pure riaffermato l’obbligo di non attaccare e saccheggiare i vascelli naufragati, norma del resto già esistente nel Digesto e nei Basilici, ma è difficile credere che abbia soppresso gli abusi dei potenti o che abbia seguito criteri meritocratici nella redistribuzione degli incarichi, se è vero, come è vero, che l’inetto Romano, governatore di Durazzo, era una sua creatura, come lo era il fido e crudele Stefano Agiocristoforita. Molto semplicemente ad un regime ne seguiva un altro, con tutte le conseguenze del caso. Per quanto riguarda la rifioritura delle province, alleggerite fiscalmente, probabilmente Michele, fratello di Niceta, non rammentava che Atene era uno di quegli oria, distretti marittimi, le imposte dei quali servivano all’allestimento ed al mantenimento della flotta comnena, smantellata sotto Andronico, ed altri uomini, per lo più di Chiesa,  che lamentavano la pesantezza del fisco nelle regioni periferiche non rammentavano che la sicurezza delle aree di confine, principalmente in Asia minore, era fondata sul costoso ma necessario mantenimento delle fortificazioni e delle truppe: non per nulla i Selgiuchidi ebbero buon gioco nel violare i territori bizantini non appena Andronico assunse il potere, e non per nulla le principali rivolte al suo regime esplosero in Asia minore.

LA FINE DEL TIRANNO

Ciò che determinò la fine del regime di Andronico e, in ultima analisi, il crollo di Bisanzio fu, molto probabilmente, il ribaltamento dei principî fino ad allora rispettati in politica estera dai predecessori. Se la reggenza di Maria e del protosebasto aveva cessato ogni iniziativa politica fuori dai confini imperiali, condannando l’Impero all’isolamento, Andronico distrusse scientemente tutto il delicato edificio che i predecessori avevano faticosamente costruito con lo scopo di allontanare  i nemici, quando non con quello di passare all’attacco.
Sotto pressione in Asia minore e nei Balcani, Andronico non vide altra soluzione che attuare una politica esclusivamente difensiva ma, soprattutto, decise di optare per una scelta orientale in quella millenaria lotta tra una gravitazione verso occidente ed una verso oriente che, come è noto, afflisse Bisanzio lungo tutto l’arco della sua storia. Pur proseguendo le trattative con Venezia che, del resto, già Manuele aveva riaperto, concludendo un trattato che, in cambio d’una semplice neutralità da parte della Repubblica, prevedeva un rimborso da parte di Costantinopoli di 1500 iperperi, il massacro della primavera del 1181 aveva interrotto ogni rapporto con Pisa e Genova e, inoltre, gettato una sinistra luce su Bisanzio agli occhi dell’Occidente, dove nel frattempo si realizzava il peggiore incubo dei basileis, ciò che per tutta la sua vita Manuele aveva cercato, con successo, di evitare: l’unione tra il regno normanno e l’impero tedesco, realizzatasi tramite le nozze tra Enrico VI, figlio del Barbarossa, e Costanza, zia ed erede di Guglielmo II. Consapevole del pericolo, Andronico non vide altra strada percorribile che stringere un’alleanza con il Saladino, un’operazione che, nelle intenzioni delle due parti, avrebbe lasciato mano libera al sultano nelle sue operazioni contro gli Stati crociati, ed avrebbe dato respiro in Asia minore all’Impero. Sir Runciman sostiene che i due contraenti si sarebbero accuratamente spartiti, nell’occasione, le rispettive zone d’influenza(9), ma certamente l’operazione, se effettivamente giovò alquanto al Saladino –non è un caso se, scomparsa qualunque influenza bizantina nel Levante franco, già nel 1187 Gerusalemme ritornò all’Islam–, ad Andronico fruttò esclusivamente gran discredito e scandalo in un Occidente dove  ben difficilmente sarebbe stata ostacolata qualunque azione diretta a chi si era venduto all’infedele.

Fu dunque facile per il normanno Guglielmo II accondiscendere alle richieste d’intervento giunte presso la sua corte da esuli provenienti da Costantinopoli, costretti alla fuga dalle persecuzioni del tiranno. Erano un parente di Manuele I, tal Alessio Comneno, con il suo seguito, ed un ragazzo, accompagnato da un monaco, che si spacciava per lo stesso sfortunato Alessio II, cui in effetti somigliava tanto nel fisico quanto nell’atteggiamento. Lo sforzo bellico fu enorme, e venne approntata dal regno di Sicilia una flotta d’almeno 200 navi: le vie che la spedizione avrebbe seguito erano le stesse già percorse dal Guiscardo e da Boemondo, ma questa volta ad attenderla non c’era Alessio I. Andronico era solo, senza alleati, senza una flotta e senza alcuna capacità difensiva, tanto più che neppure Venezia, legata ai Normanni da un trattato stipulato nel 1175, sarebbe intervenuta in sua difesa. Nel giugno del 1185 cadde nelle mani dei Normanni Durazzo, la cui difesa il duca Romano, marito della figlia dell’Imperatore, Maria, neppure tentò, e a quel punto le truppe siciliane impegnarono senza incontrare resistenza alcuna la Via Egnazia. Nel frattempo la flotta occupava senza problemi Corfù, Cefalonia, Zante. L’obiettivo era la città di Tessalonica, che venne investita per terra e per mare. Non vi fu alcun coordinamento tra i difensori, decisamente male organizzati dall’incapace governatore della città assediata, Davide Comneno, e le truppe tardivamente mandate in soccorso da Andronico, e così dopo breve assedio Tessalonica, il 24 agosto del 1185, capitolò. Il saccheggio ed i massacri che seguirono sono ben testimoniati da Niceta Coniata nella sua storia e da Eustazio, vescovo della città devastata, nella sua Espugnazione, ma non servirono a spingere Andronico ad alcuna reazione di rilievo. I Normanni, non appena si sentirono sazi del bottino e del sangue versato, ripresero la loro marcia lungo la Egnazia, diretti verso la Regina delle Città, accompagnati dall’esule Alessio Comneno, neppure contrastati dalle truppe che l’Imperatore aveva mobilitato, attestate in difesa della capitale ove Andronico attendeva paziente ed apparentemente incurante di quanto accadeva.

Evidentemente confidava nella mitica imprendibilità di Costantinopoli e, perciò, con lo scopo di eliminare qualsiasi residua opposizione che avrebbe potuto rendere poco sicura la Città, decise la morte di tutti coloro che fossero stati anche solo sospettati di tradimento. Tra questi vi era Isacco Angelo, della cui cattura s’incaricò lo stesso Stefano Agiocristoforita, che tuttavia da carnefice si trasformò in vittima. Dopo aver ucciso colui che era stato il braccio armato d’Andronico per anni, Isacco cavalcò euforico verso la Chiesa Grande, dove cercò rifugio. Era l’11 settembre del 1185, ed il giorno successivo Isacco era già divenuto il simbolo vivente della ribellione contro il regime instaurato da Andronico, fino al punto da essere acclamato Imperatore. Andronico cercò brevemente d’opporsi, ma valutata la drammaticità della situazione ben presto decise di cedere la corona e non già al successore designato, Giovanni, ma a quel Manuele che spesso aveva contestato le azioni paterne. L’abdicazione tardiva, tuttavia, si rivelò del tutto inutile, ed Andronico decise di fuggire dalla Città, imbarcandosi. Lo accompagnavano la moglie Anna ed una donna di nome Maraptica, che Niceta Coniata identifica come prostituta. Questa volta la fuga all’abile ed astuto Andronico non riuscì: arrestato mentre tentava di raggiungere la salvezza presso i Turchi dagli uomini di Isacco Angelo, Andronico venne gettato in catene nella prigione di Anema, donde venne tirato fuori solo per essere sottoposto ai più atroci ed inenarrabili supplizî, narrati da Niceta Coniata in un’orgia di puro orrore tale da far impallidire il racconto della morte di Creusa e Creonte nella Medea di Euripide o quello delle spaventose sofferenze di Eracle nelle Trachinie di Sofocle. Né miglior destino venne riservato al coimperatore Giovanni il quale, catturato mentre era alla testa delle truppe che, con scarsi risultati, si opponevano ai Normanni, venne accecato in modo tanto brutale che morì per le ferite subite. La stessa pena venne riservata al fratello, Manuele. I resti martoriati di Andronico, che era stato appeso a due colonne, vennero dopo giorni raccolti e gettato in una fossa, ben differentemente da come egli aveva sperato quando nei giorni della gloria aveva rinnovato ed ampliato la chiesa dei Santi Quaranta Martiri affinché un giorno potesse accogliere le sue spoglie mortali.
Già altre volte un sovrano era stato deposto ed anche massacrato; altre volte una situazione difficile, se non disastrosa, era stata anche brillantemente superata. Ma mai nel passato Bisanzio si era trovata in un simile clamoroso vuoto di potere e, soprattutto, nel passato un incapace era stato sostituito da sovrani brillanti e capaci. Ora, quasi per caso, giungevano al trono Isacco II e Alessio III.

autore: SERGIO BERRUTI

Note

(1)Niceta Coniata, Grandezza e catastrofe di Bisanzio, Fond, Lorenzo Valla, 1999 Milano, vol. II,pag. 23
(2)Niceta Coniata, op. cit., vol. II,pag. 287
(3)Niceta Coniata, op. cit., vol. I, pag. 241
(4)Magdalino P., The Empire of Manuel I Komnenos, Cambridge University Press 1993, pag. 198 sgg.
(5)Niceta Coniata, op. cit., vol. II, pag. 233
(6)Niceta Coniata, op. cit., vol. II, pag. 97
(7), Kazhdan A.-Ronchey S., L’aristocrazia bizantina, Sellerio ed., 1997 Palermo, pag, 150
(8)Kazhdan-Ronchey, op. cit., pag. 367
(9)Runciman S., Storia delle Crociate, RCS Libri, 2002 Milano, pag. 646

Di Nicola

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