La morte di Zimisce, un “giallo” irrisolto

Al ritorno dalla vittoriosa campagna di Siria l’imperatore Giovanni Tzimisce si ammalò improvvisamente e morì una volta raggiunta la capitale, il 10 Gennaio 976, all’età di 51 anni.
Leone Diacono ci racconta che, durante la marcia, l’imperatore, che era sempre stato “forte come un gigante”, accusò torpore alle membra e paralisi in tutto il corpo. Sentendo che la morte si appressava, ordinò di procedere a marce forzate. Nel frattempo erano comparsi “asma severo”, difficoltà a respirare, e camminava con difficoltà, barcollando. I medici non riuscivano né a curarlo né a comprendere la natura del male. Raggiunta finalmente Costantinopoli, si ritirò a letto, comandò di offrire denaro a poveri ed ammalati, soprattutto lebbrosi, diede disposizione di essere sepolto nella Chiesa del Salvatore, che lui stesso aveva costruito, e quindi spirò.
Cosa poteva essere successo?

Tutti i più importanti storici dell’epoca – e anche quelli meno importanti- puntano il dito contro il Gran Ciambellano – paroikomenos-, l’eunuco Basilio.
Leone Diacono, Giovanni Scilitze e Giovanni Zonara raccontano come l’imperatore, attraversando le ricche terre siriane, conquistate al prezzo di duri sacrifici, si fosse scandalizzato all’apprendere che fossero di proprietà dell’eunuco. Quest’ultimo, allarmato, avrebbe comandato ad un servitore di avvelenare il vino del Basileus.
Sulla stessa linea di pensiero troviamo Giorgio Cedreno, Michele Glica, e i più tardi Ioel, Bar Hebraeus, nonchè molti cronachisti Arabi.
Per contro, la stragrande maggioranza degli storici moderni propende per un’altra causa: febbre tifoide.
Il primo fu il grande bizantinista Gustav Schlumberger nel 1925, il quale sospettava febbri maligne o tifo, viste le condizioni ambientali (estenuante campagna estiva, regioni paludose…).
Anche Ostrogorsky opta per il tifo, senza menzionare fonti(!), e così pure Amantos, Christophilopoulou, e ancora, pur con qualche riserva, Browning, Nicol e Jenkins.
Tra gli storici più recenti solo Guilland e Karyabbopoulos seguono le fonti antiche, metre Kazhdan, Treadgold e Cutler si limitano a riferire le voci di un eventuale avvelenamento, senza commentare. Lille parla genericamente di malattia.
E il buon vecchio J.J. Norwich, il “curiosone” della storia bizantina?
Quest’ultimo riporta, con dovizia di dettagli, i sospetti degli storici bizantini, tuttavia anche lui opta per il tifo.
Quanti anonimi soldati, si chiede, morivano in quel periodo di febbri? E quale veleno poteva essere a un tempo così letale ma lentissimo nell’agire?
Già, quale?

In realtà un veleno con tali caratteristiche era ben noto nell’antichità, sin dal tempo di Omero ed Esiodo: l’aconito ( Aconitum Napellus). Tale pianta, conosciuta con una varietà di nomi (elmo blu, cappuccio di monaco, strozzalupo) contiene l’alcaloide aconitina che, se ingerito anche in piccola quantità, può provocare disturbi del sistema nervoso che richiamano da vicino quelli descritti da Leone Diacono: alterata sensibilità, intorpidimento, debolezza muscolare e paralisi. La vittima rimane perfettamente lucida fino alla fine, proprio come nel caso di Giovanni.
Scilitze, un secolo dopo, oltre a ribadire l’azione lenta e graduale del veleno,aggiunge altri dettagli: profusa emorragia dagli occhi e antrace sulle spalle. Tali segni, che evidentemente si basano su un’antica fonte ora perduta, non possono essere considerati più attendibili di quelli del contemporaneo Leone Diacono.
Nondimeno, la “profusa emorragia dagli occhi” potrebbe essere stata causata dalla rottura di un vaso sanguigno per un incremento della pressione arteriosa, non insolito durante l’avvelenamento da aconito.
E la febbre tifoide? Deve essere sottolineato come nessuno dei segni usuali dei primi stadi ( febbre, disturbi gastrointestinali, macchie rosse sul tronco, dolore addominale, mal di testa, vertigini) sia menzionato dagli storici bizantini, e così pure le complicanze tardive (sanguinamento intestinale, perforazione…) o sintomi del sistema nervoso come delirio, afonia e coma.
Le macchie dell’antrace sono color carbone, e non rosso chiaro come nella febbre tifoide.
Allo stesso tempo non abbiamo segni e sintomi di febbre maligna (febbre, coma, ingrandimento della milza…).
Pertanto da questa analisi si può evincere come il quadro clinico dia ragione agli storici antichi rispetto ai Bizantinisti odierni, che forse hanno accettato l’ipotesi originaria di Schlumberger con eccessiva fretta, fuorviati dall'”Ipse dixit”: quest’ultimo infatti, oltre che storico di Bisanzio, era anche un medico di fama.

Verrebbe da esclamare “Il colpevole è il maggiordomo”, perché quello era il ruolo del paroikomenos Basilio Lecapeno.
La medicina moderna, studiando le fonti antiche, sancirebbe la vittoria dell’ipotesi più “romanzesca”.
In effetti se fosse stato tifo come sarebbe stato possibile che ad ammalarsi fosse stato il solo Tzimisce, e non altri del suo seguito?
L’ Imperatore era stato sempre un colosso, e non cadiamo nella trappola della “vita media”: 51 anni erano pochi a Bisanzio come ai giorni nostri.
Certo i medici militari non sarebbero rimasti così sconcertati, e al contempo un’epidemia non sarebbe stata sottaciuta o ignorata dagli storici.
Tuttavia molti dubbi permangono.
Partiamo dal movente: sentendosi minacciato, Basilio avrebbe ordito l’assassinio.
L’Imperatore, vedendo le ricche terre siriane riconquistate per essere di proprietà dell’eunuco avrebbe esclamato” E’ indegno che l’esercito abbia speso fatica e sudore per darle ad un semplice eunuco!”. E avrebbe dichiarato che avrebbe posto fine alle sue malversazioni.
Giovanni era un uomo assennato, non come la “pallida morte” Niceforo Foca. Capiremmo lo sdegno, o un momento di rabbia, ma ci saremmo aspettati una condotta più prudente.
E Basilio come poteva aver appreso così rapidamente le parole del monarca? Forse una delle sue spie aveva assistito alla scena? Un uomo a cavallo si muove molto più in fretta di un esercito in marcia, ma resta una bella passeggiata, per dirla alla Manzoni.
E ancora, avvelenare la coppa del Basileus era così facile?
Per contro si potrà obiettare che il paroikomenos doveva avere occhi e orecchie dappertutto, e che qualsiasi uomo può essere comprato o ricattato.
In conclusione: fu molto probabilmente il veleno a stroncare l’esistenza di Giovanni I, con conseguenze storiche incalcolabili, ma il giallo è ancora lungi dall’essere compreso per intero.

L’articolo è stato realizzato sulla base de “The cause of death of the Byzantine emperor John I Tzimisces(969-976). Poisoning or typhoid fever?” (Lascaratos-Marketos), pubblicato su Journal of medical biography (Agosto 1998). Per le citazioni degli storici moderni si rimanda alle loro opere.

Autore: ALESSIO CITTADINI

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