Maurizio Imperatore

“Uomo temperato ed avveduto, estremamente preciso in tutte le cose, non era schiavo dell’agitazione; morigerato e coerente nello stile di vita e nei costumi, avvezzo soltanto ai cibi necessari e comuni, dominava pure tutti gli altri vizi che danno lustro all’esistenza dei dissoluti”.

(Evagrio di Epifania, Storia Ecclesiastica, V, 19).

Gli antefatti (539 – 582 d.C.)

Flavio Maurizio nacque intorno al 539 d.C. ad Arabisso in Cappadocia da una famiglia che vantava di essere oriunda di Roma. Suo padre si chiamava Paolo (il nome della madre è ignoto), ebbe un fratello, Pietro, e due sorelle (Teoctista e Gordia), gli eventi della sua infanzia non sono noti, evidentemente quando divenne adulto entrò nelle forze armate facendo carriera. Mentre Maurizio cresceva d’età e scalava i gradi dell’esercito, l’Impero dovette affrontare varie difficoltà.

Regno di Giustino II (565 – 578)

Nella notte tra il 14 ed il 15 Novembre del 565 si spense a Bisanzio l’imperatore Giustiniano I, al suo posto salì al trono il nipote Giustino II con sua moglie Sofia (nipote dell’imperatrice Teodora). Nel 566 l’imperatore Giustino assunse il consolato, l’anno seguente i Longobardi di Alboino e gli Avari iniziarono la seconda guerra contro i Gepidi (la prima era avvenuta ai tempi di Giustiniano). Quest’ultimi furono duramente sconfitti, il loro re, Cunimondo, fu ucciso, sua figlia Rosmunda dovette sposare Alboino mentre i Gepidi superstiti furono integrati nel popolo longobardo. L’Impero pensò di trarre profitto dalla loro fine e riuscì a recuperare la città di Sirmio che i Gepidi avevano conquistato nel 538. Il 568 si aprì con una notizia luttuosa, a Roma si spense il generale Narsete: ex governatore d’Italia e vincitore dei Goti, caduto in disgrazia presso la corte era stato esonerato dal comando d’Italia e sostituito con il prefetto Longino. La penisola si stava lentamente riprendendo dalle devastazioni portate dalla Guerra Gotica (conclusasi nel 554 con l’emanazione della Prammatica Sanzione), quando, il 2 Aprile, i Longobardi di Alboino partirono dal lago Balaton e, valicate le Alpi Giulie, occuparono, senza trovare resistenza, Cividale del Friuli (fondandovi il primo ducato longobardo d’Italia), seguita da Ceneda, Treviso, Vicenza e Verona. Il prefetto del Pretorio d’Italia, Longino, non riuscì a fronteggiare adeguatamente l’invasione, intanto gli Avari che, dopo la fine dei Gepidi, avevano creato un forte stato in Pannonia e spinto i Longobardi a migrare in Italia, per punire Giustino, che aveva cessato di versare il tribuno concordato, dilagarono nelle province balcaniche portando distruzione e morte senza trovare alcun ostacolo.

Nel 569 i Longobardi ripresero l’avanzata. Caddero Bergamo, Brescia e Milano (3 Settembre); dopo aver organizzato i ducati di Torino ed Asti (per tenere sotto controllo i Franchi), Alboino mise l’assedio a Pavia.

Mentre Pavia resisteva, nel 570 – 572 i Longobardi presero Parma, Modena, Bologna, Imola, Lucca, Chiusi; sempre nel 572 Pavia cadde, Alboino vi fissò la capitale del suo regno, il 26 Giugno, però, il grande re morì in una congiura ordita da sua moglie Rosmunda (per vendicare il padre), e forse sostenuta dai Bizantini che accolsero la sovrana fuggiasca a Ravenna (qui l’ex regina morì). Ad Alboino successe il sanguinario Clefi che proseguì nelle conquiste.

Neanche nei Balcani, in ogni modo, l’Impero aveva conseguito vittorie. Dopo ripetute sconfitte, nel 571, Giustino si decise a firmare la resa con gli Avari che concessero la pace in cambio di un tributo di 80.000 solidi l’anno e promisero di intervenire contro gli Sclaveni (tribù slava) che stavano devastando la regione. Le razzie si rinnovarono nel 578 ed allora gli Avari intervennero.

Si era appena conclusa la guerra con gli Avari che si aprì un nuovo fronte in Oriente. Sempre nel 571 giunsero, infatti, emissari da parte dei Persarmeni; questi, obbligati ad abiurare il Cristianesimo ed a convertirsi allo Zoroastrismo, dopo aver ucciso il Surena, governatore persiano della regione, si recarono a Bisanzio a chiedere la protezione imperiale, subito furono seguiti dagli Iberi del re Gurgene. Tali eventi (ed il rifiuto da parte di Giustino di pagare il tributo dovuto alla Persia) infransero la pace stipulata nel 562 da Giustiniano e Cosroe I di Persia; era la guerra (la terza dai tempi di Giustiniano). Nell’estate del 572, di conseguenza, le truppe romane, sotto il comando di Marciano, magister militum per Orientem, passarono il confine e misero l’assedio alla fortezza di Nisibi. Per tutta risposta, Cosroe inviò il generale Adaarmanes contro la fortezza di Circesium sull’Eufrate, mentre egli stesso puntò su Dara. Marciano, non avendo conseguito alcun risultato contro Nisibi, fu sostituito, mentre l’esercito ebbe l’ordine di ritirarsi. Mentre l’assedio di Dara proseguiva, Adaarmanes, superata Circesium, puntò verso l’interno della Siria: sebbene Antiochia sull’Oronte si salvò, caddero Eraclea ed Apamea, quindi Adaarmanes, carico di bottino, raggiunse il suo re all’assedio di Dara, la città cadde tra l’11 ed il 15 Novembre del 573. I Persiani tornarono a casa con 292.000 prigionieri (di questi ben 176.000 provenienti dalla sola Apamea).

L’Impero era nel caos più totale, a questo si aggiunse che Giustino II iniziò a mostrare segni di squilibrio che sfociarono nella follia, l’imperatrice Sofia, degna di sua zia Teodora, prese le redini del comando ed inviò l’anziano Traiano ed il medico Zaccaria in Persia per stipulare una tregua con Cosroe. Dopo lunghe discussioni il patto fu firmato tra Febbraio e Marzo del 574, per un triennio la guerra fu sospesa dietro il pagamento di un tributo di 30.000 solidi l’anno (ma la Persarmenia ribelle rimase fuori dagli accordi). Conseguito quest’importante risultato, l’imperatrice convinse il marito, in un momento di lucidità, a nominare Cesare il comes excubitorum Tiberio (8 Settembre 754). Questi, oriundo della Tracia, aveva appoggiato Giustino al momento del suo insediamento e, negli anni seguenti, aveva conseguito buoni risultati contro gli Avari e avrebbe potuto fornire un valido appoggio al governo della sovrana.

In Italia, intanto, in Agosto era stato ucciso re Clefi ed i Longobardi, nell’attesa che il piccolo Autari raggiungesse la maggiore età, furono governati da trentasei duchi che portarono il regno all’anarchia.

Tiberio, probabilmente, cercò di approfittare della situazione e provò a farla finita con i Longobardi. Le notizie sul periodo sono molto scarne, pare che, nel 575, giunse a Ravenna un esercito imperiale guidato dal comes sacri stabuli e curopalate Baduario (generale di grande esperienza e genero di Giustino II). Sembra che Baduario affrontò i Longobardi in una località sconosciuta ma fu sconfitto morendo poco tempo dopo (forse per le ferite); la sconfitta del curopalate diede maggiore impulso all’espansione longobarda che conseguì ampi risultati insediandosi ancora più a fondo in Italia e giungendo a minacciare il territorio della città di Roma. Sempre nel 576 i Longobardi penetrarono nel centro-sud e fondarono i ducati di Spoleto e Benevento.

Cosroe, nel frattempo, marciò prima contro la Persarmenia, poi si diresse su Cesarea di Cappadocia. Qui giunto scoprì che il generale Giustiniano lo attendeva con una grand’armata, scoppiò una battaglia che vide la sconfitta persiana. Cosroe rientrò in patria inseguito da Giustiniano che, vinti i Persiani a Melitene (575), trascorse l’inverno del 576 in Persia senza essere disturbato; la presenza dell’armata imperiale spinse il Gran Re a rendere operativa la tregua stipulata nel 574, così, nel Giugno del 576, le truppe di Giustiniano tornarono a casa.

Nel 577, allo spirare della tregua, Tiberio decise di passare al contrattacco, rimosse Giustiniano e nominò Maurizio (che evidentemente si era fatto notare nel corso degli anni) magister militum per Orientem; subito le truppe imperiali (rinforzate da 15.000 Federati appena arruolati) entrarono in Persia conseguendo ottimi risultati e tornando in patria carichi di preda.

Regno di Tiberio II Costantino (578 – 582)

Il 26 Settembre del 578, Giustino II, sentendo vicina la fine, nominò Tiberio II Costantino Augusto, quindi, il 5 Ottobre, si spense a Bisanzio dopo dodici anni e dieci mesi di regno. Tiberio divenne unico sovrano ed inaugurò un nuovo corso nella politica imperiale. A differenza del suo predecessore (che per risanare le casse dello stato esaurite dalle ingenti spese dell’età di Giustiniano aveva inaugurato un periodo di forte contenimento delle uscite giungendo, tra l’altro, a non versare più il tributo ad Avari e Persiani), diminuì le tasse ed iniziò ad elargire abbondantemente denaro in opere pie giungendo a divenire prodigo (nei primi tre anni sperperò non meno di 7.200 libbre d’oro l’anno), le casse imperiali non avrebbero retto a lungo. Tra i primi atti di governo vi fu la nomina di Maurizio a comes excubitorum. Giunse in quei giorni a Palazzo un’ambasceria dall’Italia, guidata dal patrizio Panfronio, che porse i propri omaggi al nuovo sovrano, offrì un dono di 3.000 libbre d’oro e chiese aiuti contro i Longobardi. Tiberio, nell’impossibilità di inviare rinforzi, restituì il denaro consigliando che fosse usato per corrompere i duchi nemici o chiedere l’aiuto franco. Una nuova legazione, inviata l’anno dopo, ricevette poche truppe in supporto.

Il 579 fu un anno molto intenso: in Italia riprese l’avanzata longobarda (il duca di Spoleto occupò temporaneamente il porto ravennate di Classe, mentre, a Novembre, Roma fu posta sotto assedio), in Persia Cosroe I Anoksciakravan, il grande nemico dell’Impero, si spense dopo quarantotto anni di regno, il trono passò al figlio Ormisda IV.

Approfittando del cambio di governo, Tiberio cercò di intavolare trattative di pace con la Persia, ma l’ostinazione di Ormisda, sordo a qualunque concessione territoriale, portò alla ripresa della guerra (mentre i Turchi, da poco giunti dall’Oriente, ne approfittarono per razziare la Persia). Il comando delle operazioni fu affidato a Maurizio che, a Costantina nel 581, conseguì una splendida vittoria sui generali Adaarmanes e Tamcosroe (nonostante il mancato intervento di Moundhir, sovrano dei Ghassanidi, che non riuscì a guadare il fiume Eufrate). Nel corso dell’estate, Moundhir fu catturato con l’accusa di tradimento e deposto. Il suo popolo non tollerò l’affronto e cominciò a devastare la Siria.

La fama di Maurizio era enorme, l’imperatrice Sofia spinse Tiberio (ormai malato) a nominare il generale suo erede, il sovrano accettò (secondo Gregorio di Tours, l’imperatrice Sofia progettava di sposare Maurizio ed affiancarlo nel regno, ma la notizia, non confermata dagli autori bizantini, sembra priva di fondamento [1]). Il 5 Agosto del 582, l’imperatore promise in sposa sua figlia, Costantina (o Costanza), a Maurizio, lo nominò Cesare e lo adottò (il generale fu, quindi, chiamato Flavio Tiberio Maurizio). Il 13 Agosto, Maurizio fu incoronato Augusto, l’indomani Tiberio II Costantino morì all’età di quarantatré anni dopo aver regnato per quasi quattro (alcuni affermarono che fu avvelenato con un piatto di more). Maurizio, a quarantatré anni d’età, divenne unico imperatore.

Il regno (582 – 602)

Secondo le fonti bizantine, appena salito al trono, Maurizio sposò Costantina, che divenne Augusta (al contrario Gregorio di Tours e Paolo Diacono, che lo usa come fonte, sostengono che le nozze avvennero prima della morte di Tiberio e dell’incoronazione di Maurizio [2]); quindi il nuovo sovrano dovette affrontare innumerevoli minacce in Italia, in Oriente ed in Illirico, a cui si aggiunsero problemi in Spagna ed Africa ed enormi difficoltà finanziarie.

Le forze armate

Fin dai tempi della riforma militare del IV secolo, le forze armate furono divise in due gruppi, il primo fu costituito dalle truppe di confine, il secondo dalle truppe campali. Il primo gruppo, che ebbe il compito di controllare i confini e fornire la prima difesa in caso d’invasione, con il passare degli anni fu sempre più trascurato giungendo ad essere male armato e mal retribuito, finché Giustiniano I, nel 545, smise di pagare del tutto queste truppe, ormai poco utili (ma che contavano ancora circa 195.500 uomini intorno al 559) e che andarono progressivamente smobilitandosi; di conseguenza, dal 550 in poi, l’imperatore cessò di considerare le truppe di confine soldati regolari. Il cuore vero dell’esercito era costituito dal secondo gruppo, formato dalle migliori truppe che Bisanzio potesse schierare e che furono le protagoniste delle grandi campagne di conquista dell’età giustinianea. Secondo studi recenti [3], nel momento in cui Maurizio prese il potere, le truppe campali dell’esercito imperiale ammontavano a circa 150.000 uomini che, fino all’inizio del regno di Giustino II, erano così suddivise: due armate, di circa 20.000 uomini ciascuna, chiamate Praesentales (erano, infatti, alloggiate alla “presenza” del sovrano), di stanza in Asia Minore, l’Armata d’Oriente, composta di 20.000 uomini, acquartierata in Siria e Mesopotamia, l’Armata di Tracia, di 20.000 soldati, posta in Europa lungo il basso Danubio, l’Armata d’Illirico, composta di 15.000 uomini, alloggiata lungo il corso superiore del Danubio, l’Armata d’Armenia, con un effettivo di 15.000 militari, l’Armata d’Italia, con 20.000 soldati (di cui 2.000 circa in Sicilia), l’Armata d’Africa, con 15.000 uomini, e l’Armata di Spagna, con circa 5.000 unità. A seguito dell’invasione longobarda in Italia, degli assalti dei Goti in Spagna e delle aggressioni dei Mauri in Africa, le armate occidentali subirono, sotto Giustino II, molte perdite. Nel 577, Tiberio II reintegrò, questi ammanchi arruolando altri 15.000 Federati che però furono schierati non nelle province occidentali ma in Oriente (grazie a questi rinforzi, come detto, Maurizio conseguì le sue vittorie sui Persiani). In questo modo le truppe campali raggiunsero nuovamente la cifra di 150.000 soldati che poi rimase invariata almeno fino al 602. Con questi effettivi il nuovo imperatore s’apprestò all’immane compito che l’attendeva: difendere l’Impero dai nemici che l’aggredivano da tutte le parti; il primo fronte interessato fu l’Italia.

L’esarcato d’Italia (582 – 602)

Nonostante l’anarchia dei trentasei duchi, la situazione in Italia rimase grave (tra il 579 ed  il 581 i Longobardi attaccarono il Piceno, presero Fermo, assediarono Napoli e distrussero il monastero di Montecassino); per questo motivo Maurizio, appena salito al trono, decise di creare una nuova struttura amministrativa più adatta a gestire la complessa situazione di guerra permanente che ormai si registrava nella penisola. Forse già nel periodo di Tiberio II la Prefettura d’Italia aveva subito dei rimaneggianti che avevano accorpato i territori rimasti imperiali, ma fu solo con Maurizio che nacque l’esarcato d’Italia.

È incerta la data di creazione di questa nuova struttura, è citata per la prima volta in una lettera di papa Pelagio II, datata al 4 Ottobre 584, come attiva da qualche tempo (il primo esarca sembra essere stato un tal Decio), in quell’anno era esarca Smaragdo. Con l’istituzione dell’esarcato ogni funzionario civile risultò subordinato all’autorità militare rappresentata dall’esarca che nel corso del tempo assunse poteri immensi. Tranne Decio (che sembrerebbe d’origine romana), tutti gli esarchi furono oriundi dell’Oriente, spesso eunuchi, rivestiti del titolo di patrizio e della fiducia del sovrano e provenienti dalle più alte gerarchie non solo militari ma anche civili. La loro presenza sul campo, con poteri ben maggiori degli antichi governatori bizantini (essendo in pratica dei viceré), avrebbe dovuto costituire un valido strumento di lotta contro la marea longobarda. All’esarca d’Italia fu data l’amministrazione di tutti i territori bizantini della penisola: le coste liguri, il litorale veneto (con le isole della laguna), alcune cittadine del suo entroterra, l’Istria, Ravenna (con il porto di Classe e l’entroterra) che divenne l’Esarcato per antonomasia, la Pentapoli (divisa in Pentapoli Annonaria con Urbino, Fossombrone, Gubbio e Pentapoli Marittima con Rimini, Fano, Pesaro, Senigallia, Ancona), la “Provincia castellarum” (che, difesa da piazzeforti, tipo il ducato di Perugia, garantiva i collegamenti con Roma attraverso un tratto della Via Flaminia che era, poi, sostituita dalla Via Amerina), il ducato di Roma, quello di Napoli (che estendendosi lungo la costa giungeva fino a Salerno), la Puglia e la Calabria (separate dalla Basilicata longobarda), la Sicilia e Malta. Lungo il regno di Maurizio furono creati anche i vari duces o magistri militum che ebbero l’incarico di difendere dei territori tanto distanti tra loro: poco dopo il 584 fu creato il magister militum per Roma, nel 591 è attestato per la prima volta un dux a Rimini, nel 592 (su pressione di papa Gregorio I) fu inviato un dux a Napoli, mentre (nello stesso anno) fu nominato un magister militum per Perugia, nel 599 fu la volta del magister militum per l’Istria. La maggior parte di questi comandanti non erano di origine italica, in alcuni casi furono capi longobardi passati dalla parte dell’Impero (tipo il primo magister militum dell’Istria, Gulfari, nel 599). Tutta l’Italia settentrionale, e la quasi totalità della moderna Toscana (divenuta il ducato di Tuscia), divenne il regno dei Longobardi (prendendo il nome di Langobardia, perpetuatosi fino ad oggi nella moderna Lombardia), con capitale Pavia, a cui si aggiunsero i ducati autonomi di Spoleto e Benevento nel centro-sud.

Nel 583 l’imperatore inviò emissari presso il re franco Childeberto II con un donativo di 50.000 solidi d’oro in cambio d’aiuti militari contro i Longobardi; l’anno seguente un’imponente armata franca scese in Italia guidata dal re in persona. I Longobardi, temendo gli invasori, si rinchiusero nelle città ed aprirono trattative. Alla fine, dietro il versamento di un sostanzioso tributo annuo, i Franchi si ritirarono senza concludere nulla a favore dell’Impero. Scampato il pericolo, i Longobardi si scelsero un re nella persona di Autari, figlio di Clefi: l’anarchia dei duchi era finita. Autari decise di iniziare il riassetto amministrativo e la pacificazione dei territori sottratti all’Impero (anche se proseguì nelle aggressioni distruggendo, ad esempio, la cittadina di Brescello).

Maurizio non apprezzò il comportamento dei Franchi e scrisse una dura lettera a Childeberto che, alla fine, decise di inviare una seconda armata in Italia (585), questa, però, non fu guidata dal re, ma da alcuni duchi i quali, gelosi l’uno dell’altro, litigarono tra loro e, alla fine, tornarono in patria senza aver concluso nulla. Sempre nel 585 gli Imperiali riuscirono a riprendere Classe, ma non poterono impedire ai Longobardi di conseguire altri ottimi risultati, così l’esarca Smaragdo fu, alla fine, costretto a scendere a patti e, per la prima volta dall’inizio dell’invasione, fu firmata una tregua di tre anni.

Libero da problemi militari, l’esarca si dedicò alla ricomposizione dello Scisma dei Tre Capitoli che opponeva il Papa alla diocesi di Aquileia. In accordo con il Papa, l’esarca scrisse ad Elia, metropolita di Aquileia per cercare un accomodamento. Elia si rivolse a Maurizio che scrisse all’esarca intimandogli di non occuparsi di questioni religiose. Alla morte di Elia, però, nel 586 o 587, Smaragdo pensò bene di rapire il suo successore, Severo, e obbligarlo ad accettare la riunione con Roma. Dopo un anno di prigionia, Severo tornò a casa e denunciò l’accordo estortogli; in conseguenza delle lamentele e dello scalpore suscitato dall’azione, Smaragdo fu deposto e tornò a Bisanzio. Il 31 Marzo del 589 tutto era stato compiuto, a Ravenna risiedeva il nuovo esarca, Giuliano.

Forse non fu solo il fallimento nella questione religiosa a far perdere il posto a Smaragdo, nel 587 re Childeberto II cambiò idea e propose a Maurizio nuove azioni congiunte contro Autari. Senza attendere il ritorno degli emissari, truppe franche invasero l’Italia, ma furono duramente sconfitte da Autari che, inoltre, sottrasse l’insula Comacina agli imperiali e devastò l’Istria.

Del governo di Giuliano non sappiamo nulla, dopo di lui divenne esarca (alla fine del 589) Romano, questi era un militare di professione ed ebbe un atteggiamento più aggressivo verso i Longobardi.

All’inizio del 590 una nuova, numerosa, armata franca entrò in Italia per condurre le operazioni in coordinamento con i Bizantini. Una prima parte dell’armata fu fermata e distrutta dai Longobardi, una seconda colonna pose sotto assedio Milano, mentre la terza, e più numerosa, puntò verso Verona. L’avanzata fu inarrestabile, intanto gli Imperiali avevano iniziato le operazioni ottenendo buoni risultati, poi, però, qualcosa andò storto: durante l’estate i Franchi si ritirarono. Secondo Gregorio di Tours e Paolo Diacono ciò fu dovuto alla dissenteria che colpì gli invasori, secondo i Bizantini il duca che assediava Verona si accordò con i Longobardi per una pace separata di dieci mesi e si ritirò [4]. I Bizantini, in ogni caso, proseguirono le operazioni conseguendo vittorie non decisive e chiedendo ai Franchi di riprendere le operazioni, cosa che non avvenne. La grande campagna del 590 si concluse con un sostanziale nulla di fatto, si perse l’occasione di eliminare i Longobardi e si giunse alla decisione di non fidarsi mai più dell’alleanza franca.

Il 590 vide molti cambiamenti in Italia, il 3 Settembre morì di peste papa Pelagio II che fu sostituito da Gregorio I, il 5 dello stesso mese si spense re Autari. Il regno passò prima alla sua vedova, la regina Teodolinda, poi al suo nuovo marito, Agilulfo, duca di Torino che, nel Maggio del 591, fu riconosciuto re dei Longobardi dai duchi del regno.

La pressione dei Longobardi era andata aumentando; papa Gregorio si trovò a dover fronteggiare difficili situazioni (Minturno, Fano, la Calabria furono devastate dai barbari, nel 591 fu occupata Perugia interrompendo così i collegamenti tra Roma e Ravenna), un attacco diretto all’Urbe sembrava imminente. Il Papa cercò di coordinare con i comandi imperiali degli attacchi congiunti contro i Longobardi ma senza effetto. Nell’estate del 592 (per vendicare l’invasione bizantina del ducato di Tuscia) il duca di Spoleto, Ariulfo, iniziò l’assedio di Roma. Gregorio chiese aiuto a Romano che non volle mandare l’esercito, allora il Papa andò di persona dai Longobardi e pagò una certa somma (prelevata dal tesoro papale) affinché togliessero l’assedio, i Longobardi accettarono: Roma era salva.

Verso la fine del 592, finalmente, Romano mosse le truppe e riprese Perugia e le altre città che permettevano di mantenere aperti i collegamenti tra Roma e Ravenna. Nel 593, re Agilulfo in persona partì da Pavia e riprese Perugia, bloccando di nuovo le comunicazioni tra i territori imperiali che furono riaperte nel 594 con la riconquista di Perugia. Intanto i saccheggi longobardi in Campania proseguivano alacremente, sempre nel 593 re Agilulfo assediò Roma, l’Urbe fu salvata di nuovo dall’intervento papale (Gregorio I, infatti, offrì al re cinquecento libbre d’oro affinché si ritirasse). Nel corso del 596 l’esarca Romano morì e fu sostituito dal più accomodante Callinico che aprì trattative di pace con i Longobardi. L’accordo per una tregua biennale fu concluso nell’Ottobre del 598, il Papa fu lietissimo della notizia che dava un po’ di tregua alla popolazione stremata da una guerra ormai endemica. Inoltre la pace gli permise di allacciare più stretti rapporti con la corte di Pavia; sebbene Agilulfo e la maggioranza dei Longobardi fosse di fede ariana, il Papa trovò nella regina Teodolinda (cattolica di fede tricapitolina) un’aperta ed attenta interlocutrice che portò in breve al miglioramento dei rapporti tra il suo popolo da una parte e la Chiesa e l’Impero dall’altra. Poté in questo modo iniziare a concretizzarsi un progetto che stava molto a cuore al Pontefice: l’integrazione dei Longobardi con la popolazione della penisola e la loro conversione al cattolicesimo (nel 603 il figlio di Teodolinda ed Agilulfo, Adaloaldo, nato nel 602, fu battezzato con rito cattolico nel Duomo di Monza). Non solo l’Italia fu nei pensieri di questo Pontefice, ma tutto l’Occidente: così, durante il suo pontificato, il Papa strinse rapporti con le corti franche e con il re dei Visigoti, Recaredo I, in Spagna. Nel 597, inoltre, papa Gregorio inviò il monaco Agostino a convertire gli Angli ed i Sassoni in Britannia, dove furono edificati numerosi conventi e chiese. Con Gregorio I il Papato iniziò a porre le basi del suo futuro potere temporale (favorito, anche, dal progressivo indebolimento della presenza bizantina in Italia): per la sua eccezionale attività non solo nel campo teologico ma anche politico Gregorio I ottenne il titolo di Magno con cui fu poi ricordato.

Purtroppo alla scadenza della tregua gli eventi precipitarono. Callinico, infatti, approfittando, forse, della rivolta dei duchi del Friuli e di Trento, catturò, con un colpo di mano, la figlia di Agilulfo, che si trovava a Parma, e la portò a Ravenna. Agilulfo non tollerò l’affronto e mise sotto assedio Padova che fu presa, razziata ed in parte distrutta, nel corso del 602 stessa sorte toccò alla fortezza di Monselice, il 21 Agosto toccò a Cremona ed il 13 Settembre fu la volta di Mantova. A seguito di questi rovesci, Callinico fu deposto e sostituito con Smaragdo che, così, tornò per la seconda volta esarca d’Italia; questi, nel Settembre del 603 stipulò una tregua con i Longobardi (che fu rinnovata di volta in volta fino al 616, concedendo una relativa quiete all’Italia prostrata).

Dopo anni di frequentazione e conoscenza, il giudizio imperiale su Franchi e Longobardi fu il seguente: “Danno grande importanza ai valori della libertà, e sono coraggiosi ed intrepidi in battaglia; poiché sono spavaldi ed impetuosi, e considerano qualsiasi paura, e perfino una breve ritirata come una vergogna, disprezzano facilmente la morte […]. Non obbediscono ai loro capi, sono oziosi, privi di qualsiasi astuzia, saggezza e capacità di capire ciò che è utile, disprezzano le tattiche, specialmente quando sono a cavallo. Essendo avidi sono facilmente corruttibili col denaro. Non tollerano la sofferenza e la depressione, per quanto i loro spiriti siano audaci e temerari, i loro corpi sono deboli e molli, e non sono capaci di sopportare facilmente la fatica” [5].

Il fronte persiano (582 – 591)

Questi furono gli eventi in Italia durante il regno di Maurizio. Sul fronte orientale accaddero questi fatti.

Le incursioni di rappresaglia dei Ghassanidi causarono vari danni (Bostra fu assediata e salvata tramite riscatto). Maurizio decise quindi di nominare filarca prima il fratello di Moundhir e poi il figlio, Naaman (che in ogni modo fu deposto e sostituito nel 584); questo placò gli animi degli Arabi infuriati.

Con la sua elezione ad imperatore, Maurizio fu costretto a nominare un nuovo magister militum per Orientem, la scelta cadde su Giovanni Mystacos, oriundo della Tracia, che fu inviato nel 583. La sua gestione fu altalenante, segnata da sconfitte e vittorie di non grand’entità. Nel 584 fu sostituito da Filippico (cognato di Maurizio in quanto sposo di sua sorella Gordia) che conseguì brillanti risultati razziando la Persia e vincendo alcuni scontri. Nel corso del 585 si ammalò e tornò a Bisanzio lasciando il comando a Stefano. Tornato al fronte nel 586, Filippico (dopo aver vinto a Solachon, presso Dara) fu duramente sconfitto presso Chlomara nell’Arzanene; fu quindi sostituito prima da Eraclio e quindi da Prisco, che entrò in carica nel 587. Nel 588, per far fronte alle scarse riserve dell’erario, giunse l’ordine imperiale di ridurre gli stipendi dei soldati di un quarto (si decise, infatti, di sostituire le indennità versate ai militari per l’acquisto delle armi con la distribuzione delle armi stesse): dall’età di Anastasio I, infatti, la paga dell’esercito campale si era fissata su circa 10 solidi più altri 5 per le armi e 5 per le uniformi, distribuendo le armi invece di versate i 5 solidi, lo stato avrebbe ottenuto un considerevole risparmio economico. L’armata, purtroppo, non accettò questo fatto, si ribellò, cacciò Prisco (che non era amato per il suo brutto carattere) e scelse Germano come suo comandate ed imperatore.

Nell’Ottobre del 588 un violento terremoto devastò Antiochia sull’Oronte, intanto Germano  conseguì alcune vittorie sui Persiani (a Martiropoli vinse il generale Maruza uccidendo 3.000 Persiani e prendendone prigionieri altri 1.000); per far cessare l’ammutinamento delle truppe orientali l’imperatore decise l’annullamento del provvedimento che riduceva l’indennità e fece versare tutta la paga per intero. L’ammutinamento rientrò, l’armata fu perdonata e ricevette dei premi per le sue vittorie: a questo punto Germano fu richiamato a Bisanzio e messo sotto accusa per la rivolta (anche se alla fine fu graziato); il comando delle truppe orientali fu di nuovo affidato a Filippico. Nel corso del 589 un decurione, di nome Sitta, consegnò con il tradimento Martiropoli ai Persiani; in Lazica il generale persiano Bahram Ciobin, vincitore dei Turchi, fu sconfitto dai Bizantini di Romano e richiamato da Ormisda, geloso della sua fama. Durante l’estate del 590 Filippico giunse presso Martiropoli e conseguì una gran vittoria sul nemico che, in ogni modo, continuò a tenere la città.

Quindi accadde un evento assolutamente imprevisto che mutò il corso delle relazioni tra l’Impero e la Persia. Nel corso del 590 il Gran Re, Ormisda IV, cadde vittima di una congiura e fu assassinato. Della situazione cercò di approfittare il suo figlio legittimo, Cosroe, che provò a farsi riconoscere re; il tentativo fallì e la corona fu consegnata a Bahram VI Ciobin: Cosroe fu costretto a fuggire a Circesium ed a chiedere aiuto a Maurizio.

Nel 591 Filippico fu sostituito da Comenziolo, questi marciò su Sisarbanum, presso Nisibi, dove vinse i Persiani in battaglia uccidendo il loro comandante Fraate, ed ottenendo un numeroso bottino, poi prese la fortezza di Okba, situata di fronte a Martiropoli. Intanto Maurizio e Cosroe (giunto a Ierapoli) concordarono un piano d’azione: Maurizio adottò Cosroe come figlio e s’impegnò a ristabilirlo sul trono in cambio della fine delle ostilità, della cessazione dei tributi che l’Impero versava da anni e della consegna di Dara, Martiropoli, della Persarmenia e dell’Iberia. Cosroe accettò, di conseguenza le armate dei due alleati (guidate dal generale Narsete, di origini persiane e ben accetto a Cosroe) entrarono in Persia. Le truppe di Bahram furono sgominate nel corso di due battaglie (la prima sulle rive del fiume Zab, la seconda presso Blarathos, ai confini della Media, dove i sessantamila uomini degli alleati travolsero i quarantamila nemici), l’usurpatore fu messo in fuga e finì in mano ai Turchi che, per richiesta di Cosroe, lo uccisero. Cosroe II Parvez fu riconosciuto Gran Re di Persia e tenne fede al patto giurato con Maurizio (fu consegnato anche il traditore Sitta che fu giustiziato): nell’estate del 591, la guerra persiana (iniziata da Giustino II nel 572) si concluse dopo diciannove anni con la vittoria bizantina grazie alla quale i confini dell’Impero tornarono quasi quelli dell’inizio del VI secolo (raggiungendo in Persarmenia la capitale Dvin ed il lago Van e Tblisi in Iberia), ottimi rapporti si instaurarono tra i due governi.

Non era uno sviluppo facile a prevedersi, in quegli anni questo era il giudizio che si dava sui Persiani: “Il popolo persiano è perverso, ipocrita e servile, ma allo stesso tempo obbediente e patriottico. Essi obbediscono ai loro governanti per paura, ed il risultato è che sono tenaci nel sopportare le fatiche e le guerre per il bene del loro paese […]. Sono inconciliabili nelle trattative, in quanto non sono mai i primi ad avanzare una proposta, anche se riguarda la loro salvezza, ma aspettano che siano i nemici a farlo” [6].

Cosroe, tuttavia, non solo tenne fede all’alleanza, ma nei primi tempi usò mille soldati bizantini come guardia del corpo (finché non fu sicuro della fedeltà dei suoi) e mostrò pia devozione nei confronti di San Sergio al cui santuario di Sergiopoli fece donazioni. Questo fu dovuto, secondo Evagrio [7], a due fattori. La prima volta ringraziò il Santo per avergli concesso vendetta su Zadespram (questi era un nobile persiano imprigionato da Ormisda per malversazioni compiute a Martiropoli che, dopo la morte del Gran Re, uscì dalla prigione schierandosi con Bahram). Per ringraziare San Sergio di quest’evento, Cosroe restituì al santuario la croce d’oro (dono di Giustiniano I e Teodora) sottratta da Cosroe I nel 542 insieme ad una seconda croce d’oro creata appositamente. La seconda volta il Gran Re volle ringraziare il Santo per la miracolosa gravidanza di sua moglie Sirne, o Sirem, che era cristiana (le fonti orientali sostengono che fosse una figlia di Maurizio [8]). In questo caso fu donata la croce d’oro di proprietà della donna (del valore di 4.400 stateri), più altri 5.000 stateri che furono usati per creare una patena, un calice, un’altra croce e un turibolo, tutti d’oro, con un velo di seta ornato d’oro (la rimanenza della somma totale fu versata nel tesoro del santuario).

I fronti minori e la famiglia imperiale

Durante il regno di Maurizio giunsero luttuose notizie anche dalla Spagna. La sua parte sud-orientale era stata riconquistata tra il 552 ed il 554, ai tempi di Giustiniano I, grazie al caos che regnava nel paese. Nel 568 salì al trono dei Goti re Leovigildo, questi fu un fervente ariano che riprese le persecuzioni contro i cattolici, ma nel contempo avviò la ripresa dello stato riducendo il potere della nobiltà, assumendo i titoli ed il simbolismo della corte bizantina e favorendo la fusione tra i Goti e la popolazione locale (fu tolto il divieto ai matrimoni misti fino ad allora in vigore). Oltre a ciò fu dato il via ad operazioni militari su tutti i fronti per restaurare il potere ed il prestigio gotico a spese dei vicini: nel 570, di conseguenza, fu conquistata la bizantina Medina Sidonia (grazie al tradimento di un certo Framidaneo), nel 572 cadde Cordova (capitale della zona imperiale), che, però, fu ripresa dai Bizantini dopo poco tempo. Quindi i Goti conquistarono la città di Baza e devastarono la regione di Malaga, vincendo un esercito imperiale inviato contro di loro. In seguito dilagarono nella valle del Guadalquivir conquistando città e fortezze e vincendo anche una grande armata di contadini ribelli che avevano creato una zona cuscinetto tra Imperiali e Goti. Nel 577 le operazioni si spostarono nella regione di Orospeda dove i Goti vinsero nuovamente i contadini ribelli. Nel 584 una seconda spedizione gotica assalì Cordova e questa volta l’Impero, troppo occupato sugli altri fronti, non fu in grado di riprenderla. Nel 585 si assistette ad un nuovo successo di Leovigildo: approfittando della morte di Teodemiro, re degli Svevi, i Goti assorbirono nel loro regno la Galizia sveva. L’anno dopo il re morì e fu sostituito da suo figlio Recaredo I che proseguì nella romanizzazione del regno; inoltre, nel 587 Recaredo abiurò la fede ariana ed abbracciò il cattolicesimo. Mentre i Goti assistevano alla loro rinascita, il governo della provincia bizantina fu affidato, in questi stessi anni, ad un magister militum Spaniae che fu sottoposto all’esarca di Cartagine, il primo magister a noi noto è Comenziolo che restaurò le porte di Cartagena lasciandone il ricordo su un’epigrafe datata al 1° Settembre 589. Sempre nel 589 si tenne il III Concilio di Toledo presieduto da Leandro, vescovo di Siviglia. Durante questo concilio, per volontà di re Recaredo, che vi prese parte, quasi tutti i vescovi ariani passarono alla fede cattolica, di conseguenza tutto il popolo visigoto divenne cattolico abbandonando l’arianesimo. Non fu quindi più possibile per l’Impero presentarsi come difensore dell’ortodossia contro gli eretici (era stato questo uno dei pretesti usati da Giustiniano per intraprendere la conquista), di conseguenza venne a mancare l’appoggio della Chiesa cattolica che si accordò con i Goti (Gregorio I intrattenne rapporti epistolari con il re) e s’attribuì un ruolo di mediatore tra Goti e Bizantini (come stava cercando di fare anche in Italia con i Longobardi). Siamo poco informati sugli eventi successivi, a quanto pare i Bizantini ripresero l’offensiva e spinsero Recaredo a chiedere la pace; nell’Agosto del 599 il re scrisse a papa Gregorio offrendosi di riconoscere il territorio imperiale secondo il trattato che Giustiniano aveva stipulato con re Atanagildo al tempo della conquista. Papa Gregorio avvisò il re che il trattato era andato distrutto durante un incendio e quindi lo sconsigliò di fare concessioni che potevano essere maggiori di quelle dovute. Svanita la possibilità di pace, la riconquista gotica riprese inarrestabile e portò, nel corso del secolo seguente, alla totale perdita dei territori bizantini in Spagna (gli Imperiali furono definitivamente cacciati intorno al 624).

Anche l’Africa ebbe qualche problema, sebbene di minore entità: i Mauri avevano ripreso le ostilità per breve tempo sotto Giustino II ma furono fermati. Per tutta risposta, nel 587 circa, Maurizio decise di creare anche in Africa (ad imitazione di quanto fatto poco tempo prima in Italia) un esarcato che ebbe la sua capitale in Cartagine, da qui l’esarca amministrò tutti i possedimenti africani un tempo parte del regno dei Vandali, fino al confine con la Cirenaica, la Spagna, la Corsica, la Sardegna e le isole minori (tipo le Baleari). Grazie all’energica azione dell’esarca Gennadio i Mauri furono tenuti sotto controllo e l’esarcato rimase in pace fino all’invasione araba alla fine del VII secolo. In una data imprecisata (tra il 600 ed il 602) divenne esarca il vecchio generale armeno Flavio Eraclio (che nel 586 aveva sostituito Filippico sul fronte orientale).

Maurizio e Costantina ebbero la benedizione di molti figli, in totale furono otto (cinque maschi e tre femmine di nome Anastasia, Teoctista e Cleopatra). Il primogenito, nato nel 585, fu chiamato Teodosio e fu associato al trono nel 590, il secondo maschio ebbe il nome di Tiberio, il terzo fu Costantino. La nascita di Teodosio fu salutata con gioia dall’Impero, sfatò, infatti, la profezia pronunciata dal patriarca monofisita di Antiochia, Severo, secondo cui, fino a quando l’Impero fosse stato calcedoniano, nessun imperatore romano avrebbe avuto come erede al trono un suo figlio naturale [9]. In effetti l’ultimo imperatore ad avere un figlio maschio che gli era subentrato sul trono era stato Arcadio che, morendo nel 408, aveva lasciato il potere a suo figlio Teodosio II. Subito dopo la morte di Teodosio II si tenne il Concilio di Calcedonia (451) i cui risultati non furono accolti da tutti e portarono all’eresia monofisita; dopo Arcadio nessun imperatore ebbe come suo successore un proprio figlio, fino alla nascita del figlio di Maurizio. Nel 597, colpito da una grave malattia, e credendo di dover morire, Maurizio fece testamento e divise l’Impero tra i suoi figli. Il testamento però rimase nascosto fino all’inizio del regno di Eraclio.

Lo Strategikon

L’imperatore Maurizio fu anche scrittore: di lui rimane un trattato d’arte militare in 11 libri (un dodicesimo libro fu aggiunto in seguito), intitolato Strategikon, dove, con un linguaggio molto semplice e per nulla aulico si prendono in esame i vari nemici dell’Impero e si consigliano le mosse più adatte per fronteggiarli, si discute di strategia e tattica, si danno consigli ai generali e suggerimenti di vario tipo. Dopo i testi del IV sec., questo è il primo trattato militare bizantino che ci sia pervenuto e aprì la pista a molti emuli (ad esempio l’imperatore Leone VI il Saggio, basandosi sullo Strategikon, compose i Taktikà). Non tutti, in ogni caso, concordano nell’assegnare il trattato alla penna dell’imperatore, alcuni reputano che sia stato scritto non da Maurizio ma da qualche membro delle forze armate a lui vicino e, forse, su sua ispirazione (si è fatto, ad esempio, il nome del generale Filippico in virtù dei numerosi riferimenti ad Annibale di cui egli era un cultore). I molti riferimenti storici citati nel testo dimostrano, ad ogni modo, che il trattato fu scritto da un militare di alto lignaggio negli ultimi anni di governo di Maurizio (o durante i primi anni dopo la sua morte) per essere un pratico aiuto per i generali durante le campagne.

Il fronte Illirico (591 – 602)

Libero da problemi in Oriente, Maurizio (sebbene la guerra proseguisse violenta in Italia) decise di farla finita con Avari e Slavi. Anni di lotte portarono Maurizio a dare questa valutazione sui suoi avversari: “Gli Avari si danno un’organizzazione militare, e questo li rende più forti degli altri popoli Sciti quando sono chiamati a combattere […]. Sono i più perfidi e scaltri, e sono i più esperti nelle questioni militari” [10]. Gli Slavi: “Sono prolifici e pazienti, sopportano senza difficoltà il caldo, il freddo, la pioggia e la mancanza d’indumenti e di beni di prima necessità. Sono benevoli ed ospitali con gli stranieri […]. A causa della mancanza di un’autorità e della loro insofferenza reciproca, non conoscono alcuna tattica, e non sono neanche capaci di sostenere una battaglia […]. Sono assolutamente sleali e non hanno alcun rispetto per i patti, che accettano più per paura che per ottenere dei vantaggi” [11].

Come detto prima, nel 571 Giustino II concordò di versare 80.000 solidi l’anno di tributo agli Avari che promisero di tenere sotto controllo gli Sclaveni (loro vassalli) che stavano devastando la regione. Allo scoppio della guerra contro la Persia, comunque, il chagan Baian ruppe l’accordo e sferrò un violento attacco, in conseguenza di ciò, gli furono concesse le terre nella regione di Sirmio. Dopo qualche anno, nel 578, il chagan spinse gli Sclaveni ad assalire l’Impero: approfittando della situazione (con il pretesto di aiutare i Bizantini), Baian pose l’assedio a Sirmio, chiave di volta di tutto il sistema difensivo danubiano. Dopo tre anni d’assedio, Sirmio cadde nel 582, il limes danubiano cedette: nuove ondate di Slavi giunsero a razziare il Peloponneso, Maurizio, in ogni modo, giunse ad un accordo con gli Avari. Nell’estate del 583, tuttavia (al rifiuto imperiale di aggiungere altri 20.000 solidi al tributo), le incursioni avare ripresero: caddero Singidunum, Augusta, Viminacium ed Anchialo (nel 584), fu posto l’assedio a Tessalonica (la più importante città imperiale della Macedonia), la città si salvò per miracolo, Maurizio ottenne una tregua pagando 100.000 solidi. Intanto, cacciate dalla Tracia (dove s’erano recate su incitamento di Baian), le bande slave saccheggiarono Atene (585); nel frattempo gli Avari stessi, rotta la tregua, assalirono la Dacia Ripuaria e la Mesia II. Il contrattacco bizantino, nel 586, portò al ritiro temporaneo degli Avari; nel frattempo, però, nel mese di Settembre, gli Slavi, per una settimana, posero un secondo assedio a Tessalonica (anche questa volta salvata miracolosamente dal suo patrono, San Demetrio). Nonostante il fallimento gli Slavi irruppero in Grecia, presero Corinto ed iniziarono ad insediarsi nel Peloponneso, le prime sclavinie furono fondate anche in Macedonia; il volto dei Balcani era destinato a mutare.

Nel 588, gli Avari posero un secondo assedio contro Singidunum (senza riuscire a prenderla), quindi si spostarono lungo il Danubio ed in Tracia, cadde Anchialo e gli invasori raggiunsero le Lunghe Mura di Anastasio I. Nonostante ciò, nel corso del 588-589 le razzie avare iniziarono a scemare, gli Imperiali riuscirono a riprendere il controllo della Tracia (il chagan non riuscì, tra l’altro, a conquistare Beroea e Dioclezianopoli). Tra i vari generali che ebbero il comando del fronte illirico, si distinsero Comenziolo (per il suo tergiversare) ed i suoi due sottoposti, Martino e Casto, che compirono azioni grandiose contro il nemico. Bene si comportò pure il nuovo magister militum per Thraciam, Giovanni Mystacos (tornato dal fronte persiano), ed il suo comandante in seconda, Droctone, che salvò Adrianopoli assediata dagli Avari.

La continua devastazione delle province europee e la guerra perpetua in Italia ed Oriente, (insieme agli esosi tributi concessi ai nemici ed alla prodigalità di Tiberio II) portò all’esaurimento delle casse imperiali, di conseguenza l’imperatore decise, nel 588, di ridurre di un quarto le razioni alle forze armate (questo portò alla rivolta delle truppe in Oriente di cui abbiamo già parlato). Oltre a ciò il clima nelle città iniziò a divenire ostile nei confronti del sovrano accusato di non riuscire a respingere le varie invasioni.

Quando, finalmente, nell’estate del 591, si giunse alla vittoria sulla Persia, Maurizio decise di riprendere le ostilità contro gli Avari e farla finita con le loro angherie contando sulla maggiore disponibilità di truppe. Questo era stato un cruccio per l’Impero: da quando Giustiniano I aveva intrapreso la riconquista di Africa ed Italia, l’Illirico era rimasto progressivamente senza un adeguato numero di soldati. La situazione non era migliorata né sotto Giustino (che aprendo le ostilità con la Persia aveva creato un nuovo fronte), né sotto Tiberio II. La ventennale guerra in Oriente e la contemporanea invasione longobarda avevano frustrato ogni serio tentativo di arginare gli Avari che (complice l’annientamento dei Gepidi e l’esodo dei Longobardi) erano riusciti a creare un vasto e forte regno tra la Pannonia e le regioni transdanubiane. Ora, finalmente, con l’Italia affidata agli esarchi, e la Persia alleata, Maurizio ebbe tutte le truppe necessarie a concludere la questione avara in modo definitivo.

Maurizio in persona si mise al comando dell’armata: “per due secoli, nessuno dei successori di Teodosio s’era fatto vedere sui campi di battaglia” [12]. Giunto ad Anchialo (a sette miglia dalla Città), cattivi presagi dissuasero l’imperatore dal proseguire (gli morì il cavallo preferito ed incontrò un cinghiale). La notizia dell’arrivo di Zalabzas, emissario del Gran Re, a Palazzo, lo convinse a tornare indietro. Dopo qualche tempo la spedizione si rimise in marcia, anche questa volta cattivi presagi turbarono il sovrano (una tempesta lo obbligò a sostare ad Eraclea, qui nacque un neonato mostruoso, senza mani, occhi, sopracciglia e palpebre, con la coda di pesce attaccata alla coscia); tutti pensarono che la spedizione non partisse con i migliori auspici.

A questo punto furono gli Avari a prendere l’iniziativa ed assediarono Singidunum. Maurizio nominò Prisco (che aveva sostituito Eraclio nel 587 sul fronte orientale) comandante e lo mandò contro il nemico, questi intanto distrusse il santuario del martire Alessandro a Drizipera ed obbligò gli Imperiali a rifugiarsi nella città di Tzurulo. Maurizio riuscì a negoziare un accordo con gli Avari che si ritirarono, gli Sclaveni, intanto, furono vinti in battaglia. Prisco, nonostante tutto, cadde in disgrazia e fu sostituito al comando europeo da Pietro, fratello dell’imperatore.

Pietro non ottenne buoni risultati, fu sconfitto dagli Sclaveni e sostituito nuovamente con Prisco. Sempre a corto di soldi, nel 593 Maurizio ordinò ai suoi soldati di svernare a nord del Danubio (in territorio nemico) e trovare in quei luoghi il sostentamento necessario (questo avrebbe fatto risparmiare allo stato le razioni destinate all’armata). I soldati minacciarono l’ammutinamento e Maurizio, alla fine, revocò l’ordine. L’anno seguente l’imperatore ordinò che lo stato distribuisse le armi e le uniformi invece dell’indennità in denaro necessaria per il loro acquisto. Per evitare ammutinamenti (come quello del 588 causato da un provvedimento simile), Maurizio promise che gli invalidi avrebbero continuato a percepire la paga e che i soldati che fossero morti in guerra sarebbero stati sostituiti dai loro figli; i militari, con le minacce, ottennero che lo stato non solo attuasse queste promesse, ma pagasse anche la paga per intero.

Nel 595 si spense a Bisanzio il patriarca Giovanni il Digiunatore; intanto la guerra proseguiva con alterne fortune(Singidunum fu nuovamente assalita ma la flotta imperiale la salvò, gli Avari, allora, aggredirono la Dalmazia). Le truppe soffrirono pure la fame nell’accampamento (la regione non era in grado, dopo anni di devastazioni, di sostentarli adeguatamente, questo fece aumentare il malumore delle truppe). Gli uomini del chagan invasero intanto la Mesia e vinsero l’armata di Comenziolo che fu fatta a pezzi, il generale riuscì a fuggire. Nel 597 gli Avari ripresero le operazioni sul Danubio ed in Tracia, le fortezze bizantine a difesa delle Porte di Ferro furono definitivamente distrutte, Prisco rimase tutto l’inverno bloccato a Tomi; per la seconda volta la città di Drizipera fu presa dagli Avari che avanzarono fino a Bisanzio, lo scoppio della peste li obbligò alla ritirata. Maurizio, con molta fatica, ed aumentando il tributo, riuscì a stipulare una tregua con gli Avari che passarono sulla difensiva.

Nonostante il gran dispiegamento di mezzi la guerra non era andata come previsto, gli Avari erano riusciti ad infliggere dure perdite all’Impero (nel 599, 12.000 prigionieri imperiali furono lasciati morire in mano nemica perché non si volle pagare il riscatto, l’evento turbò moltissimo le truppe che accusarono l’imperatore di avarizia; la delegazione, capeggiata dal centurione Foca, che andò dal sovrano per lamentarsi dell’accaduto, fu duramente trattata). Nonostante ciò la sorte cominciò ad arridere a Maurizio. Alla ripresa della guerra, nel 599, le truppe di Prisco (a cui era stato affiancato Comenziolo che voleva riscattarsi delle sconfitte subite), spintesi fino in Pannonia (nel cuore del regno nemico), conseguirono mirabili vittorie nel corso di cinque battaglie (gli Avari persero 4.000 uomini nel primo scontro, 9.000 nel secondo, 15.000 nel terzo, 30.000 nel quarto. Nel quinto scontro i Bizantini catturarono 3.000 Avari, 8.000 Slavi e 6.200 barbari d’altri popoli). In Tracia fu finalmente riaperta la Via Traiana, in Illirico fu impedito agli Avari d’espandersi a sud delle Porte di Ferro (601 d.C.). Nel frattempo gli Sclaveni approfittarono di questi feroci scontri per liberarsi degli Avari ed evitare di cadere sotto il giogo dei Bizantini, così passarono in gran numero in Dacia Ripuaria ed in Mesia I, da qui si riversarono in Dardania colonizzandola. Durante la campagna del 602 Prisco conseguì nuovi successi portando la guerra oltre il Danubio e recando la distruzione nel cuore del regno avaro (era la prima volta dai tempi di Traiano che un esercito imperiale entrava nell’antica Dacia): quando le truppe furono di là dal fiume, il generale fu sostituito nuovamente da Pietro.

Sebbene l’Impero stesse, finalmente, conseguendo vittorie straordinarie contro il nemico, la popolazione della Città era inquieta (per negligenza Comenziolo aveva fatto morire congelati molti soldati lungo la strada per Filippopoli, all’inizio del 602 la mancanza di pane causò vari tumulti), le continue economie dell’imperatore (anche quando si sarebbe dovuto festeggiare) esasperarono gli animi, neanche le nozze del primogenito di Maurizio, Teodosio, con la figlia dell’aristocratico Germano, che si diceva lontano parente di Giustiniano, migliorarono la situazione. Bisanzio fu travolta dagli incendi e dalle sommosse delle Fazioni dell’Ippodromo, a fatica fu riportato l’ordine, Maurizio, con magnanimità, perdonò i ribelli.

All’arrivo dell’inverno del 602 (dopo un’estate trascorsa in alacre attività in territorio nemico), le truppe sperarono di poter tornare nei confini imperiali e svernare nelle loro caserme, come un macigno giunse al generale Pietro l’ordine del suo imperiale fratello: riprendendo il provvedimento non attuato nel 593, le truppe avrebbero trascorso l’inverno negli accampamenti oltre il Danubio per risparmiare alle casse statali esauste i costi del mantenimento ed essere pronte, all’arrivo della bella stagione, a riprendere le operazioni e concludere per sempre la guerra contro gli Avari.

Quando la notizia si diffuse, i soldati scoppiarono in rivolta, Pietro fu costretto a fuggire ed a comunicare al fratello che le truppe sul Danubio erano insorte. I ribelli, eliminati i partigiani dell’imperatore, elessero il centurione Foca come loro capo e partirono in direzione della Capitale (Ottobre del 602).

La rivolta (602 d.C.)

Questo Foca era stato il capo della delegazione che si era lamentata per il mancato pagamento del riscatto dei soldati catturati nel 599 ed in quell’occasione era stato schiaffeggiato e maltrattato dalla corte, oltre a ciò non aveva, agli occhi di un cittadino perbene alcun merito. Era un rozzo soldato, Teofilatto lo chiama “Il cinghiale Calidonio”, il “Centauro”, il “semibarbaro” [13]. “Sotto una fronte coperta da arruffati capelli rossi, sporgevano due sopracciglia a cespuglio che si congiungevano sul setto nasale; le guance erano attraversate da una lunga, rabbiosa cicatrice che diventava rubizza quando si incolleriva, rendendolo ancora più ripugnante. Ed il dentro non era meglio del fuori: corrotto, ubriacone e di una crudeltà patologica, non c’era cosa che Foca gradisse di più della vista del sangue” [14].

Mentre l’armata si avvicinava alla Città, Maurizio volle dimostrare sicurezza, inviò emissari tra i ribelli per ridurli a più miti consigli (ma gli ambasciatori furono respinti), diede solenni giochi nell’Ippodromo e accolse con favore l’aiuto offerto dalle Fazioni (a cui diede ricchi donativi): 900 Azzurri e 1.500 Verdi si offrirono di difendere le Mura della Città. Nel frattempo un emissario degli ammutinati si presentò a Teodosio ed a suo suocero, Germano, che stavano cacciando, e consegnò loro un messaggio delle forze armate. I soldati chiedevano che Teodosio in persona o Germano divenissero imperatori e sostituissero Maurizio che era odiato da tutti, i due uomini rimasero incerti, e non diedero risposta: la situazione peggiorò quando l’imperatore seppe del messaggio e richiamò i due uomini nella Città. Dopo aver affidato la difesa a Comenziolo, il sovrano ricevette Germano e lo rimproverò violentemente; questi, avvisato dal genero, che temeva per la sua vita, quella notte stessa si rifugiò nella chiesa della Madre di Dio e, in un secondo tempo, direttamente a Santa Sofia. Maurizio accusò il figlio di aver appoggiato il suocero e lo bastonò.

La folla intanto, scoperta la sorte di Germano, insorse contro Maurizio, anche i membri delle Fazioni che presidiavano le Mura, si unirono al tumulto. Nei tafferugli andò distrutta la casa del senatore Costantino Lardys che era stato nominato prefetto del Pretorio per l’Oriente; Bisanzio fu sconvolta dalla rivolta.

Alla mezzanotte del 22 Novembre, l’imperatore, terrorizzato, si tolse le vesti purpuree, imbarcò la famiglia ed il denaro su una nave e lasciò la Città. Una tempesta, però, bloccò la fuga e Maurizio prese riparo nel santuario del martire Sant’Autonomo a Calcedonia, a 150 stadi da Bisanzio, nella baia di Nicomedia. Non potendosi allontanare (fu preso da un attacco d’artrite), Maurizio decise di inviare Teodosio, con la scorta di Costantino Lardys, in Persia da Cosroe; lì giunto avrebbe dovuto ricordare al Gran Re i tanti benefici che aveva ottenuto dall’Impero e chiedergli un’armata per essere rimesso sul trono. Teodosio partì quindi per Nicea (non prima di aver concordato con il padre di tornare indietro solo se gli fosse stato mostrato un anello del genitore).

Mentre accadeva ciò, a Bisanzio i Verdi, che parteggiavano per i ribelli, aprirono le porte della Città, a nulla valsero le richieste di Germano che cercò di convincerli ad acclamarlo imperatore, i Verdi si rifiutarono (infatti, dissero, era troppo ben accetto agli Azzurri); di conseguenza Germano si schierò con Foca.

Il 23 Novembre l’armata ribelle giunse al sobborgo di Hebdomon (a sette miglia dalla Città), dove la tradizione voleva che fossero incoronati gli imperatori. Giunto nella chiesa di San Giovanni Battista, davanti ai rappresentanti del Senato, dell’esercito e del popolo lì convocati, il rozzo centurione Foca (dopo aver per burla proposto la candidatura di Germano) fu incoronato imperatore. Il 24 Novembre il nuovo sovrano entrò nella sua Capitale e, giunto a Palazzo, distribuì con prodigalità i tesori imperiali accumulati da Maurizio. Il 25 del mese, dopo aver ricompensato le truppe, Foca incoronò sua moglie Leonzia imperatrice, poi si apprestò ad osservare le gare nell’Ippodromo. Qui accadde un tafferuglio tra le Fazioni che gridarono con tono minaccioso all’emissario di Foca di stare attento perché Maurizio era ancora vivo, Foca si turbò e decise di eliminare il suo predecessore. Le truppe furono inviate a Calcedonia a prelevare l’ex sovrano che era ancora rifugiato nel santuario. Maurizio fu condotto sulla spiaggia, presso il porto di Eutropio (uno dei due porti di Calcedonia), lì giunto fu costretto ad assistere alla decapitazione dei suoi figli maschi, sopportando tutto con compostezza e religiosa rassegnazione (uno dei principini era stato sostituito dalla nutrice con il proprio figlio ma Maurizio, non volendo che un innocente morisse senza colpa, svelò il segreto ai suoi carnefici condannando suo figlio a morte). Dopo che tutti i figli furono giustiziati, Lilio gli tagliò la testa. Era il 27 Novembre del 602, Maurizio aveva vissuto per sessantatre anni e governato per venti, era dai tempi di Costantino che un imperatore non moriva per mano delle truppe ribelli. Il corpo suo e dei suoi congiunti fu gettato in mare, le teste furono mostrate all’esercito riunito nel Campo Marzio di Hebdomon: la dinastia di Giustino I si era estinta.

Gli eventi seguenti (602 – 641)

Eliminato Maurizio, la stessa sorte toccò anche a Teodosio. Tornato indietro, forse per un inganno (ricevette a Nicea l’anello paterno che lo richiamava), il giovane imperatore si rifugiò in una chiesa. Alessandro, uno dei generali di Foca, lo prese da là e lo decapitò insieme a Comenziolo, Pietro e Costantino Lardys. Germano fu graziato a patto di farsi monaco, Costantina e le sue tre figlie furono pure risparmiate ed obbligate a divenire suore (ma comunque furono uccise poco tempo dopo). In seguito, accusati di aver complottato contro il sovrano, furono eliminati anche il magister militum Germano ed il prefetto del Pretorio Teodoro. A Foca parve di aver sistemato tutto per il meglio (diede anche la sua unica figlia in sposa al generale Prisco nella speranza di ottenere maggior consenso presso gli aristocratici che non tolleravano le sue origini e la sua rozzezza), ma non fu così. Nel 603, il generale Narsete, al comando in Mesopotamia, condusse in Persia un giovane sostenendo che fosse Teodosio scampato al massacro, era giunto il momento che Cosroe II ripagasse l’amicizia di Maurizio. Il Gran Re accettò volentieri l’invito ed invase l’Impero per vendicare il padre adottivo. Dopo poco più di dieci anni scoppiò una nuova guerra contro i Persiani e questa volta le truppe di Cosroe travolsero tutto e tutti. Narsete fu quindi invitato a Bisanzio per discutere le condizioni della resa ma, giunto nella Città, fu giustiziato. L’avanzata persiana riprese: portando con sé il presunto figlio di Maurizio, il Gran Re non trovò quasi resistenza, rapidamente caddero Mesopotamia, Armenia e Siria, gli Avari invasero nuovamente i Balcani. Nel 608, il vecchio Eraclio, esarca di Cartagine (a quanto sembra, in accordo con il generale Prisco, genero del sovrano), si ribellò contro Foca e inviò i suoi uomini, guidati da suo nipote Niceta, ad occupare l’Egitto (da cui partivano i rifornimenti di grano per la popolazione di Costantinopoli) con l’intento di causare scontento e tumulti nella Capitale; quindi spedì suo figlio Eraclio contro Bisanzio. La Città, come previsto, non si oppose agli ammutinati, il 5 Ottobre del 610 Foca fu consegnato nelle mani di Eraclio che lo fece massacrare, divenendo il nuovo imperatore e fondando una nuova dinastia. Non per questo l’invasione persiana si arrestò. Anche dopo la morte del presunto Teodosio, le truppe di Cosroe proseguirono nella loro marcia invadendo Palestina ed Egitto, quindi si volsero contro l’Anatolia. Nel 623 Eraclio lasciò Bisanzio ed iniziò la riconquista dell’Impero. Mentre il sovrano era in Oriente, nel 626 gli Avari e gli Slavi, in accordo con i Persiani (giunti sul Bosforo), assediarono Bisanzio, ma furono respinti. Eraclio, intanto, proseguì nella spedizione e non solo riuscì a cacciare il nemico dall’Impero, ma invase anche la Persia giungendo, il 12 Dicembre del 627, a vincere Cosroe nella battaglia di Ninive. A questo punto la Persia fu scossa da un colpo di stato che depose il sovrano; suo figlio Cabade II Sciroe, eliminato il padre, divenne Gran Re (628). Dopo soli sette mesi, tuttavia, Cabade II morì ed il regno fu travolto dalla guerra civile. Alla fine salì al trono la prima regina della storia persiana, Boran, e fu probabilmente lei a firmare la resa della Persia nel 629 – 630 (ma altri studiosi dicono che fu Cabade II a stipulare l’armistizio nei pochi mesi di regno). Quest’ultimo conflitto devastò ed indebolì l’Impero, ma distrusse anche la Persia che, indebolita dalla guerra civile (che riprese per altri due anni a seguito dell’abdicazione di Boran), cadde facile preda, poco tempo dopo, delle prime espansioni dell’Islam che in quei giorni si affacciava alla storia. Stessa sorte toccò, in seguito, alle province appena riconquistate da Eraclio che andarono rapidamente perdute e mai più riprese, era l’inizio dell’espansione araba. Morendo l’11 Febbraio del 641, Eraclio vide tutte le conquiste militari della sua vita vanificate e le truppe islamiche ad Alessandria d’Egitto.

Nessuno di coloro che parteciparono alla rivolta visse a lungo. Alcuni morirono di malattia, altri di spada, altri nei modi più diversi. Alessandro (quello che uccise Teodosio) fu giustiziato da Foca stesso che, saputo dell’esistenza del falso Teodosio alla corte di Cosroe, pensò che Alessandro lo avesse salvato invece di eliminarlo. Foca fu ucciso per ordine di Eraclio. Quando questi intraprese la guerra persiana solo due soldati erano rimasti ancora in vita tra tutti quelli che si erano ammutinati (la vittoria contro la Persia fu vista, di conseguenza, come segno della benevolenza divina che aveva apprezzato la punizione inflitta ai ribelli).

Considerazioni finali

L’Impero di Maurizio fu il regno delle occasioni mancate. A partire dal 590 gli sforzi imperiali, se coronati da successo, avrebbero potuto conseguire la vittoria definitiva sui Longobardi, sugli Avari e sui Persiani, invece, se si esclude la vittoriosa campagna persiana (successo conseguito per l’imprevisto colpo di stato in Persia e la successiva morte di Ormisda IV), gli altri fronti d’azione videro, alla fine, la frustrazione delle aspettative bizantine. Proprio nel 590, il fallimento della grande offensiva congiunta franco – bizantina, ed il progressivo impegno imperiale in Illirico, segnarono il definitivo tramonto della speranza di cacciare i Longobardi dall’Italia. La creazione dell’esarcato fu un ottimo mezzo per gestire al meglio (data la costante penuria di truppe e risorse) la turbolenta situazione italiana: “Maurizio era stato per molti versi uno statista saggio e lungimirante. Aveva ridisegnato la mappa amministrativa dell’Impero, inserendo gli sparsi possedimenti d’Oriente e d’Occidente in un sistema di province molto più efficace ed affidandone l’autorità suprema ai militari” [15]. Effettivamente l’esarcato fu la salvezza dei territori bizantini d’Italia, se si fosse appoggiata l’attività degli esarchi con più truppe ed in modo più costante (senza appoggiarsi ai Franchi che fecero i loro interessi e non quelli bizantini) la provincia sarebbe stata riconquistata. Invece l’Illirico sconvolto dalle invasioni drenò tutte le forze dell’Impero, si dovette scegliere se difendere la lontana Italia o i territori che si estendevano subito alle spalle della Capitale, l’imperatore scelse, e come dargli torto, di garantire la sicurezza del cuore dell’Impero. Di certo non aveva dimenticato l’Italia, forse pensava di occuparsene una volta conclusa la campagna contro gli Avari (come si era occupato degli Avari dopo aver concluso la guerra persiana), gli esarchi avrebbero dovuto arginare i danni fino al giorno della riscossa. Racconta Teofilatto, in sostanza il suo biografo, a proposito del testamento scritto nel 597: “All’inizio del regno dell’imperatore Eraclio, si trovò un plico fermato con i sigilli dell’imperatore Maurizio, nel quale egli aveva disposto come intendeva che si procedesse dopo la sua morte. Colpito, infatti, da una grave malattia, Maurizio, nel quindicesimo anno di dominio imperiale, ripartiva per iscritto il potere. A Teodosio, il figlio più anziano, postolo a capo di Costantinopoli, affidava le questioni orientali: Tiberio invece lo sistemò come sovrano della vecchia Roma e gli assegnò l’Italia e le isole del Mar Tirreno; il resto dell’impero dei Romani lo suddivise tra gli altri figli, affidandone la tutela, data l’età minore, a Domiziano, legato a Maurizio da vincoli di parentela. Costui ricopriva la carica d’arcivescovo della famosa chiesa di Melitene” [16]. “Non si era rinunciato all’idea dell’impero universale, né a quella dell’unico impero romano governato collegialmente, con amministrazione distinta delle sue due parti” [17], si sarebbe dovuto, solamente, aspettare il momento opportuno che, purtroppo, non ci fu più.

Gli Avari furono la spina nel fianco dell’Impero, dopo aver dovuto sopportare le loro angherie e razzie, Maurizio, liberatosi del problema persiano, impiegò la parte maggiore delle forze bizantine per cacciarli: dopo dieci anni quasi ci riuscì, la rivolta di Foca e l’abbandono delle posizioni conquistate fecero naufragare tutto. Non solo gli Avari non furono eliminati, ma tornarono più pericolosi di prima e giunsero, nel 626, ad assediare Bisanzio. Inoltre gli Slavi occuparono stabilmente il cuore europeo dell’Impero e ci vollero le campagne di Niceforo I, nel IX sec., per ricacciarli sul Danubio e lontani dalla Grecia (ma l’Europa orientale rimase per sempre slava).

La Persia fu il grande successo militare di Maurizio: dal 527 le truppe di Cosroe I non avevano mai cessato, se non per pochi periodi pagati a caro prezzo dalle casse imperiali, di devastare le province orientali. L’improvvisa morte di Ormisda diede la possibilità di concludere la guerra con un successo totale, impensabile solo pochi anni prima.

La morte tragica di Maurizio e della sua famiglia, al contrario, offrirono a Cosroe II (che forse s’era pentito delle concessioni fatte nel momento del bisogno) la scusa per realizzare il sogno che, fin dai tempi di Artaserse I (fondatore della dinastia nel III secolo d.C.), era stato l’obbiettivo mai dimenticato, né mai celato, dei Sassanidi: togliere ai Romani l’Oriente e ricreare il grande impero persiano degli Achemenidi; quasi ci riuscì. La presenza del presunto Teodosio (che ben presto uscì di scena) fornì la chiave per ottenere la resa di buona parte delle fortezze e città imperiali d’Oriente. Il furto della Vera Croce da Gerusalemme e le devastazioni portate contro le chiese dei territori occupati dimostrarono quali fossero i reconditi propositi del Gran Re. Ci vollero tutte le forze dell’Impero per sopravvivere alla tempesta persiana, ma si dovette rinunciare ai Balcani, alla Spagna ed a buona parte dell’Italia. L’Impero che uscì dall’ultima guerra persiana non ebbe poi la forza di difendersi adeguatamente dall’Islam alle sue prime, violente espansioni.

La figura di Maurizio è molto complessa, fu un buon generale, che si fece notare ed apprezzare tanto da giungere al trono (tutti gli storici bizantini, ed anche Gregorio di Tours e Paolo Diacono, ne diedero un ritratto lusinghiero [18]). Le sue tattiche militari furono adeguate alle situazioni, fu il perfetto opposto dei suoi due predecessori. Tanto Giustino volle impegnarsi contemporaneamente su più fronti, portando l’Impero sull’orlo del baratro, tanto fu prodigo Tiberio, così fu prudente ed avveduto Maurizio. Sul piano militare preferì pagare gli Avari finché non ebbe ottenuto la pace con la Persia per poi attaccarli e, probabilmente, lo stesso avrebbe fatto con l’Italia. La questione economica, oltre alla difesa dei confini, fu il suo grande cruccio: le spese folli di Tiberio e i tributi dovuti ai barbari lo spinsero al più ferreo risparmio ed in nome di questo risparmio (che rasentò l’avarizia) cercò per quattro volte di ridurre le spese militari, non riscattò 12.000 prigionieri (condannandoli a morte, sebbene gli Avari avessero, in un secondo tempo, ridotto la richiesta di denaro per ogni prigioniero da un solido intero ad un sesto a persona), ed impedì ai militari di tornare a casa durante l’ultimo, fatale inverno. Queste azioni gli alienarono l’esercito, dalle cui fila, pur tuttavia, proveniva; l’eccessive economie lo fecero detestare anche dal popolo che, nel momento del bisogno, non lo aiutò. “Se avesse concesso ai suoi soldati qualche soldo in più ed ai suoi sudditi qualche spettacolo in più, avrebbe facilmente evitato la sorte che invece gli toccò” [19]. Lo scontento popolare e quello dei militari fu una miscela esplosiva che travolse non solo Maurizio e la sua famiglia ma tutto l’Impero; che i soldati odiassero il sovrano ma non avessero in mente un piano ben preciso d’attuare lo mostrò la richiesta volta a Teodosio ed a suo suocero di scegliere chi dei due lo dovesse sostituire, chiunque sarebbe andato bene al posto suo, quando i due uomini rifiutarono, i soldati scelsero Foca che era un oscuro figuro. Forse, se Maurizio avesse lasciato temporaneamente il potere affidando il trono a suo figlio, invece di terrorizzare Germano e picchiare Teodosio, concedendo così agli ammutinati una vittoria, seppur simbolica, sarebbe riuscito a placare gli animi ed a domare l’insurrezione potendo, in un secondo tempo, tornare al potere. La sua inflessibilità, invece, esasperò gli ammutinati e li spinse ad un colpo di stato che fu gravido di conseguenze.

I turbolenti anni di Maurizio, e la sua triste fine, furono il canto del cigno di un Impero che, da lì a poco, smise di estendersi su tre continenti e di avere il controllo del Mediterraneo (che non fu più un lago romano); l’impero romano tardoantico si avviò a divenire un impero medievale, più ridotto in dimensioni ma che avrebbe avuto ancora degli ampi momenti di gloria prima della fine.

autore: ANTONINO MARLETTA

NOTE

[1] Cfr. Gregorio di Tours, Storia dei Franchi, VI, 30.

[2] Cfr. Evagrio di Epifania, Storia Ecclesiastica, VI, 1; Gregorio di Tours, op. cit., VI, 30; Teofilatto Simocatta, Storie, I, 10; Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, III, 15.

[3] W. Treadgold,  Bisanzio ed il suo esercito 284 – 1081, pag. 85 e seg.

[4] Cfr. Gregorio di Tours, op. cit., X, 3; Paolo Diacono, op. cit., III, 31; G. Ravegnani, I Bizantini in Italia, pag. 90.

[5] Maurizio Imperatore, Strategikon, XI, 3, pp. 125 – 126.

[6] Ibidem, XI, 1, pag. 121.

[7] Evagrio, op. cit., VI, 21, pag. 314.

[8] E. Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, vol. II, pag. 1767, n. 4.

[9] Cfr. Evagrio, op. cit., VI, 24.

[10] Maurizio Imperatore, op. cit., XI, 2, pag. 123.

[11] Ibidem, XI, 4, pp. 126 e 128.

[12] E. Gibbon, op. cit., vol. II, pag. 1771.

[13] Teofilatto Simocatta, op. cit., VIII, 10, in U. Albini – E. V. Maltese (a cura di), Bisanzio nella sua letteratura, pp. 209 – 210.

[14] J. J. Norwich, Bisanzio, splendore e decadenza di un impero, pp. 100 – 101.

[15] Ibidem, pag. 100.

[16] Teofilatto Simocatta, op. cit., VIII, 11, in U. Albini – E. V. Maltese (a cura di), op. cit., pag. 212.

[17] G. Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, pag. 70.

[18] Cfr., tra gli altri, Evagrio di Epifania, op. cit., V, 19; Gregorio di Tours, op. cit., VI, 30; Paolo Diacono, op. cit., IV, 26.

[19] J. J. Norwich, op. cit., pag. 100.

 

BIBLIOGRAFIA

 

U. ALBINI – E. V. MALTESE (a cura di), Bisanzio nella sua letteratura, Milano 2004.

F. A. ARBORIO MELLA, L’impero persiano, Milano 1979.

PAOLO DIACONO, Storia dei Longobardi, a cura di B. Luiselli, Milano 1991.

EVAGRIO DI EPIFANIA, Storia Ecclesiastica, a cura di Filippo Carcione, Roma 1998.

E. GIBBON, Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, vol. II, ed. it. Torino 1967.

GREGORIO DI TOURS, Storia dei Franchi, a cura di M. Oldoni, Napoli 2001.

R. – J. LILIE, Bisanzio, la seconda Roma, ed. it. Roma 2005.

MAURIZIO IMPERATORE, Strategikon, a cura di G. Cascarino, Rimini 2006.

C. MORRISSON (a cura di), Il mondo bizantino vol. I, l’Impero romano d’Oriente (330 – 641), ed. it. Torino 2007.

J. J. NORWICH, Bisanzio, splendore e decadenza di un impero, ed. it. Milano 2000.

G. OSTROGORSKY, Storia dell’impero bizantino, ed. it. Torino 1968.

G. POLARA, Letteratura latina tardoantica e altomedievale, Roma 1987.

G. RAVEGNANI, I Bizantini in Italia, Bologna 2004.

W. TREADGOLD, Bisanzio ed il suo esercito 284 – 1081, ed. it. Gorizia 2007.

 

 

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