Giovanni II Comneno

L’ascesa al trono

Le relazioni familiari giocarono un ruolo fondamentale nel quadro politico dell’impero, e Alessio I Comneno giocò bene. I suoi rapporti con Maria di Alania, già moglie di Michele VII Ducas e Niceforo Botaniate, ed il suo matrimonio con Irene Ducena gli furono di ben grande giovamento. E proprio il figlio di Michele VII, Costantino Ducas, per un certo periodo fu l’erede designato, perché sposato ad Anna Comnena, figlia primogenita -e porfirogenita- di Alessio, quando lei era ancora in fasce. Fu dunque un colpo per molti quando ad Alessio nel 1088 nacque un erede, Giovanni, e quando questi venne associato al trono, nel 1092. E’ perciò comprensibile la rabbia che Anna provò per questo suo fratello, che, nella sua Alessiade, descrive come scuro di carnagione (1)(tratto che anche Teodoro Prodromo conferma (2), in una sua supplica a Giovanni il Moro), dalla fronte larga, occhi scuri, guance smunte… Meno comprensibile resta l’ostilità della madre, Irene, che per tutta la vita cercò pervicacemente di imporre al marito il genero, quel nobile Niceforo Briennio che Anna aveva sposato nel 1097 dopo la morte del povero Costantino Ducas. Carico di gloria, il 15 agosto del 1118 Alessio venne a mancare. Giovanni, con alcuni nobili fedeli e, soprattutto, con l’appoggio di Isacco, il fratello, che avrebbe poi nominato sebastokrator, assicuratosi l’anello paterno, corse a Santa Sofia ove, acclamato dal popolo, si fece incoronare, quindi si diresse al Grande palazzo e, dopo, aver convinto i Variaghi della guardia palatina, vi si rinserrò, attendendo che si calmassero le acque. Una volta sicuro del potere si circondò di uomini fidati, tratti dal clan familiare e dalla nobiltà provinciale, come fu d’abitudine per i Comneni, ad esempio Giovanni Comneno, nominato parakoimomenos, Gregorio Taronita, protovestiario, Gregorio Camatero, logoteta dei sekreta. Ma il personaggio di maggior spicco fu un homo novus, un suo compagno d’infanzia, Giovanni Axuch, un turco che, preso prigioniero a Nicea dai crociati, era stato donato da costoro al padre, Alessio. Axuch, gran domestico, ebbe un ruolo fondamentale nel regno di Giovanni e sarà fondamentale anche nell’ascesa al trono di suo figlio, Manuele. Che Giovanni potesse ormai sedere sicuro sul suo trono era un’illusione: l’anno successivo la sorella, con l’appoggio di un circolo di nobili, ordì una congiura per deporlo e sostituirlo con il cesare Niceforo Briennio. L’azione si risolse in un clamoroso fiasco, e proprio per la debolezza di Briennio, che all’ultimo momento si tirò indietro. L’imperatore diede prova di quella clemenza che sarebbe stata una caratteristica del suo regno: ai congiurati furono solo confiscati i beni, che, per lo più, verranno in gran parte restituiti. Anna e, per precauzione, la madre, furono rinchiuse in un convento, dove, tra l’altro, Anna Comnena scriverà la sua opera immortale.

Il rafforzamento dell’Impero, tra Oriente ed Occidente

Se non invidiabile, l’eredità di Giovanni II era potenzialmente positiva, e nella scelta del suo custode Alessio I dimostrò grande acume, compiendo la mossa migliore che potesse fare. La situazione era discreta: Alessio aveva riorganizzato e dato nuova linfa all’esercito, le sue riforme economiche avevano dato frutti, e le frontiere erano meno minacciate d’un tempo. A est i Selgiuchidi di Iconio erano in crisi, come ad Ovest lo erano i Normanni. Inoltre gli Ungheresi erano occupati in Dalmazia, e Papa ed Imperatore di Germania erano impegnati nella lotta per le investiture. A questo punto Giovanni pensò di rafforzarsi ulteriormente in Asia Minore, dove era il suo maggiore interesse e, già tra il 1119 ed il 1120, con due campagne contro la potenza emergente del tempo, i Danishmenditi di Melitene, ricuperò Laodicea, presso l’attuale Denizli, e Sozopoli, ora Uluborlu. Ma una serie di problemi lo distolse dall’Asia Minore e lo riportò ad Occidente.
Nel 1119 il doge di Venezia, Domenico Michiel, salutando il nuovo basileus aveva richiesto il rinnovo della crysobolla di Alessio Comneno. A tale richiesta Giovanni oppose un rifiuto, non tanto per motivi economici, quanto perché i Veneziani avevano creato, a Costantinopoli, problemi d’ordine pubblico. Secondo lui una crysobolla non era vincolante per il successore. Venezia se la prese, tanto che, approfittando d’una provvidenziale richiesta d’aiuto da parte degli stati crociati in Levante, approntò una flotta di un centinaio di navi che, però, invece di salpare per la Siria, fecero vela per la romana Corfù, che fu posta sotto assedio. La resistenza dell’isola fu superiore alle aspettative, perciò i Veneziani furono costretti a levar l’assedio ed a compiere il loro dovere verso i regni latini, ma al ritorno, non dimentichi, saccheggiarono Rodi, Chios, Kos, Samo, Lesbo, Andros e Modone! Quando saccheggiarono Cefalonia, piuttosto vicina alla capitale, Giovanni infastidito ritenne di dover cedere, e nell’agosto del 1126 emanò una crysobolla che ricalcava quella del padre, senza ulteriori concessioni, dal momento che se un accordo per Costantinopoli risultava necessario, lo era ancor più per Venezia, tagliata fuori dalle rotte e dai mercati bizantini. Certamente la crisi mise in luce un errore che, tuttavia, fu una costante nella storia bizantina, e che fu rappresentato dallo storno in favore dell’erario delle somme destinate allo sviluppo ed al mantenimento della flotta voluta da Alessio, ritenuta superflua ed eccessivamente onerosa (3).
Nel frattempo un altro pericolo si profilava. A distanza di oltre trent’anni dal massacro loro inflitto da Alessio, i Peceneghi, nuovamente ai confini dell’impero, avevano sconfinato e devastato Macedonia e Tracia. Giovanni, radunato l’esercito, intervenne e sconfisse abilmente, con una tattica ben narrata da Niceta Coniate, il nemico, nel 1122, dalle parti di Stara Zagora. Molti Peceneghi vennero inquadrati nell’esercito romano ed altri deportati come coloni, ed il basileus volle che venisse istituita una “Festa pecenega”.
Pochi anni dopo, secondo Niceta Coniate nel 1123, secondo Cinnamo nel 1130, al sovrano toccò intervenire contro i Serbi di Rascia, che furono battuti, costretti a cedere un ricco bottino, a riconoscere l’autorità romana e a trasferirsi in buon numero in Asia Minore, dalle parti dell’odierna Izmit. Quindi toccò agli Ungheresi, nonostante Giovanni avesse preso in moglie una figlia di re Ladislao d’Ungheria, tal Piroska, ovviamente ribattezzata Irene. Stefano II d’Ungheria, in barba ai trattati con i romani, invase i territori dell’impero e rase al suolo alcune città. Giovanni dovette intervenire trasportando truppe per terra e, dal Mar Nero, sul Danubio, attaccò il ribelle che, sconfitto, si arrese e riconobbe l’autorità romana.

Il sogno: l’oriente

Risolti i problemi di confine ad Occidente Giovanni potè finalmente dedicarsi anima e corpo -e non è un modo di dire- al suo sogno di restaurazione imperiale in Oriente. Prima, però, gli premeva ancora tenersi le spalle coperte dall’avversario peggiore che l’Impero potesse avere, i Normanni, tanto più che, dopo un periodo di crisi, a Palermo nel 1130 era stato incoronato un re forte, Ruggero II, e, cosa di non poco conto, cugino di Boemondo II di Antiochia e figlio di Adelaide, moglie di Baldovino I di Gerusalemme, seppur ripudiata. Contro costui Giovanni dispiegò la sua attività diplomatica, accordandosi con Lotario II di Germania e con Pisa. Era il momento atteso, e Giovanni attaccò in forze l’emirato danishmendita, conquistando l’importante città di Kastamonu. L’impresa meritò un trionfo che Giovanni celebrò nel 1133 in una giornata memorabile. Il carattere di crociata impresso dal basileus era testimoniato dal fatto che sul carro d’argento non troneggiava Giovanni, bensì l’icona della Madre di Dio. L’anno successivo, dopo la morte della madre, Giovanni era di nuovo sul fronte, deciso a sconfiggere l’emiro Muhammad, successore di Ghazi III di Danishmend. Nonostante il tradimento di Masud di Iconio, con il quale il basileus s’era alleato, la campagna fu vittoriosa.
Era ora la volta, sistemati i Danishmenditi al nord dell’Asia Minore, di puntare al sud, verso la Cilicia, ed alla fine del 1136 l’esercito romano puntò verso la Piccola Armenia, dove, arroccata sulle loro fortezze sul Tauro, era insediata una dinastia, quella dei Rupenidi, il cui sovrano, Leone, s’era espanso ai danni di territori dell’Impero. L’esercito imperiale, con l’aiuto della flotta, occupò Adana, Tarso, Mopsuestia, Vihka e Anazarbo, Leone fuggì sulle montagne e Giovanni, con un obiettivo ben preciso, decise di interrompere l’offensiva e di puntare a sud, verso la Siria.
Lungo la via caddero altre città, tra cui Alessandretta, ed il 29 agosto del 1137 le forze romane erano davanti all’obiettivo, Antiochia. La città, secondo gli accordi a suo tempo presi, era dell’Impero, ma tale accordo non era stato rispettato. Inoltre, morto Boemondo II, la vedova, Alice, figlia di Baldovino di Gerusalemme, aveva proposto l’unione tra la figlia, Costanza, e Manuele, figlio quartogenito di Giovanni. Ovviamente i Franchi avevano rigettato la proposta, Alice era stata deposta e la reggenza era stata affidata prima a re Baldovino stesso e poi al suo successore, Folco d’Angiò, che aveva chiamato a reggere Antiochia Raimondo di Poitiers, cadetto di Guglielmo d’Acquitania. La situazione ora era resa ancora più pericolosa dalla presenza oppressiva dell’atabek di Mosul e Aleppo, Imadaddin Zengi. Giovanni, davanti ad Antiochia, ne chiese la resa incondizionata. Raimondo oppose un netto rifiuto ma, demandata a lui la decisione, re Folco accettò la resa della città e la cessione all’impero se l’esercito romano, affiancando le truppe latine, avesse conquistato le città siriane in mano musulmana, cedendole ad Antiochia. Giovanni accettò le condizioni, entrò ad Antiochia ove Raimondo fece atto di vassallaggio e ripartì in breve, ma non per la campagna in Siria, bensì nuovamente in Cilicia ove, questa volta, catturò Leone d’Armenia ed i suoi e li spedì a Costantinopoli. Rientrato ad Antiochia, organizzò l’esercito con l’ingresso di truppe templari, di Raimondo e del conte d’Edessa, Jocelin de Courtenay e, in ottemperanza ai patti, nel marzo del 1138 si diresse a sud. Dopo brevi assedi caddero in mano cristiana villaggi e città ma, in breve, la totale inaffidabilità degli alleati, principalmente di Jocelin, se non addirittura l’ostilità marcata, provocarono il rallentamento delle operazioni militari, situazione aggravata dall’avvicinarsi delle forze dell’atabek Zengi. Aleppo fu solo sfiorata dalle truppe imperiali, e Giovanni preferì assicurarsi il controllo dell’area circostante, occupando centri minori. Posto l’assedio a Shaizar, importante fortezza sull’Oronte, di fronte alla sempre maggiore ostilità latina ed all’approssimarsi delle forze musulmane, Giovanni si accontentò di riceverne la resa, accompagnata da ricchi doni offerti dai dignitari, tra cui spiccava una preziosissima croce che, secondo Coniate, era quella che Romano IV Diogene portava a Manzicerta, mentre, secondo Cinnamo, essa risaliva addirittura a Costantino I. Il ritorno dell’esercito, lungo l’Oronte, fu tormentato da continui attacchi alle retroguardie e, ad Antiochia, Giovanni, di fronte all’esplodere di tumulti popolari fomentati da alcuni capi latini, si dovette accontentare del semplice giuramento di fedeltà dai principi della città, per poi riprendere la via per Costantinopoli.

Ovviamente, per Giovanni, non era che il principio. L’Imperatore non scordò di assicurare tranquillità ad Occidente rinnovando gli accordi con l’impero tedesco, retto da Corrado III, successore di Lotario II, ed intavolando financo trattative con il Vescovo di Roma, cui scrisse in maniera molto conciliante, né scordò le Repubbliche marinare, sempre in funzione antinormanna. Con lo scopo di rafforzare l’alleanza germanica promise al quartogenito Manuele la sorella della moglie di Corrado, Bertha di Sulzbach, che giunse a Costantinopoli nel 1142. Quindi, dopo una relativamente infruttuosa campagna contro i Danishmenditi ed il ribelle dux di Trebisonda, Costantino Gabras, Giovanni, accompagnato come al solito dai suoi quattro figli, nella primavera del 1142 si diresse alla volta di Attalia, che oramai era un’isola romana circondata da un mare turco. Condotte incursioni vittoriose, financo a pochi chilometri da Iconio, il basileus riprese la marcia verso la Cilicia. Ora l’obiettivo era molto chiaro: si trattava di prendere definitivamente Antiochia e farne una base d’operazioni per il totale controllo degli stati crociati e della Terra Santa. Cinnamo racconta che l’imperatore recava con sè una lampada d’oro del peso di venti talenti da offrire al Santo Sepolcro, e che aveva deciso di creare una provincia comprendente Attalia, la Cilicia, Cipro ed Antiochia da affidare a Manuele, e Niceta Coniate in almeno due occasione sostiene che ferma volontà del sovrano era quella di calcare i Luoghi santi. La creazione di un protettorato bizantino contiguo ai regni crociati, autonomo ma sostenuto dall’Impero, retto da un giovane principe ai Latini non ostile, avrebbe da una parte permesso a Giovanni di atteggiarsi a protettore del fulcro della Cristianità, dall’altra avrebbe svuotato d’ogni senso qualsiasi intervento occidentale in Oriente. Ma l’impresa non partì sotto buoni auspici. Nell’agosto del 1142 moriva di malattia Alessio, primogenito del basileus, il quale incaricò gli altri due figli, Andronico ed Isacco, di accompagnare a Costantinopoli il feretro. Purtroppo lungo la strada anche Andronico venne a mancare. Giovanni non si perse d’animo, e continuò il suo compito, con a fianco Manuele. Giunto in Cilicia, posto il campo tra Anazarbo e Mopsuestia, il basileus inviò messaggeri ad Antiochia con l’ordine di consegnare a lui la città, creando il panico in una comunità già preoccupata per la presenza di Zengi. Comunque, ovviamente, Raimondo rispose con un secco no. L’esercito romano si preparò all’attacco, ma, poiché l’inverno si approssimava, Giovanni decise di attendere una stagione più propizia all’attacco. E qui avvenne l’inatteso, un episodio che Cinnamo e Coniate narrano fin nei minimi particolari, come per dissolvere ogni nube di sospetto. Agli inizi della primavera del 1143 il basileus era impegnato nel suo sport preferito, la caccia al cinghiale -attività nella quale, in effetti, erano già malamente incappati Teodosio II e Basilio I-, quando, per un brusco movimento, la sua faretra si rovesciò ed una freccia avvelenata lo ferì ad una mano. L’infezione, mal curata, si propagò rapidamente, e Giovanni il 4 aprile del 1143 proclamò Manuele suo erede, rivestendolo della porpora, preferendolo all’altro, figlio, Isacco. Il giorno 8 spirò. C’è chi ha pensato, nonostante le minuziose descrizioni, e forse proprio per quello, che quella freccia fosse stata idealmente guidata da qualcuno. Non si saprà mai, ma senz’altro Manuele dovette levare il campo e precipitarsi a Costantinopoli, preceduto dal fedele Axuch, per confermare le sue pretese al trono imperiale, e Antiochia respirò: è difficile che Raimondo di Poitiers abbia versato una sola lacrima per l’improvvisa scomparsa di Giovanni Comneno.

Epilogo

I Romani invece ne versarono. Giovanni fu un sovrano molto amato, i cronisti che descrissero il suo regno hanno scritto parole di lode e ammirazione, e furono -e sono- tutti concordi a definirlo il migliore dei Comneni. Non era bello di aspetto, a differenza del padre e del figlio, ma i contemporanei gli affibbiarono l’appellativo, con cui è passato alla storia, di Giovanni il Bello, Kalojannis, perché bello lo era dentro. Fu giusto, mite, generoso, prudente, moderato e -cosa rara all’epoca- assai temperato e di retta moralità, e nel contempo fu energico, inflessibile, forte. Fu un grande politico, un abile diplomatico ed un valoroso soldato. Coniate scrive:”il fastigio di quanti della stirpe dei Comneni regnarono sui Romani; per non dire che, di molti ottimi imperatori del passato, alcuni ne emulò, altri persino ne superò” (4). Lasciò un impero potente e rispettato a Manuele, e c’è chi, come Amin Maalouf, sostiene che se Zengi e Norandino non sferrarono l’attacco finale agli stati crociati, e se costoro vissero in tremebonda attesa e poi si rivolsero verso l’Egitto, ciò avvenne per timore dei Romani(5). A noi, nel XXI secolo, oltre alle opere letterarie del periodo, rimangono i resti di due capolavori dovuti alla munificenza del bel Giovanni: il Monastero del Pantocratore, oggi Molla Zeyrek Cami, a Costantinopoli, dove il basileus volle essere sepolto, e dove poi riposarono Manuele, sua moglie, ed altri sovrani, e la magnifica Deesis in Santa Sofia.

autore: SERGIO BERRUTI

Note

1) Albini U.,Maltese E. V., Bisanzio nella sua letteratura, Garzanti, Milano 2004, p.472
2) Idem, p. 551
3) Niceta ConiataGrandezza e catastrofe di Bisanzio, Fond. Lorenzo Valla/A. Mondatori, 1994, I, p. 129
4) Niceta Coniata, cit., I, p. 111
5) Maalouf A., Le Crociate viste dagli Arabi, SEI, Torino 1989

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Di Nicola

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