Rapporti economici tra Bisanzio e gli Slavi

 

Durante la sua esistenza millenaria l’Impero d’Oriente fu, per un periodo molte volte secolare, il fattore principale nella vita politica, economica e culturale del mondo europeo. Riconoscendo questo fatto, oggi non si ritiene più possibile studiare la storia dei singoli popoli dell’Europa medioevale, senza indagare anche i rapporti con l’Impero di Costantinopoli nei vari campi della vita storica. Legami particolarmente stretti e durevoli esistevano fra Bisanzio e gli Slavi meridionali ed orientali oppure russi. Bisogna riconoscere che la storia di questi popoli durante il Medio evo non si può studiare senza tener conto di Bisanzio e, tanto di più, senza ricorrere alle fonti storiche di origine bizantina. Non sarebbe esagerato però affermare che pure la storia bizantina si può chiarire unicamente quando non si perdono d’occhio quei molteplici e solidi legami di carattere politico, culturale ed economico che la univano al mondo slavo. Mentre i rapporti bizantino-slavi di carattere politico oppure culturale nella letteratura e nell’arte, nella vita religiosa ed ecclesiastica sono stati oggetto di studi approfonditi e sono da considerare più o meno chiariti, molto meno si conoscono dettagli sui rapporti economici fra Bisanzio e gli Slavi. Il problema ha la sua singolare importanza tanto per la storia bizantina quanto per la storia dei popoli slavi. Nei rapporti economici bizantino-slavi si rispecchia tutta l’attività economica dell’Impero di Costantinopoli ed il suo sviluppo attraverso i secoli. Il fiorire della vita economica di Bisanzio ed il vasto sviluppo del suo commercio con gli Slavi, perfino quelli Occidentali, posti a distanze enormi dai suoi confini, corrispondeva ai periodi di potenza politica e cultu-rale. La decadenza della vita economica bizantina e la diminuzione degli scambi commerciali con gli Slavi erano quei sintomi che annunciavano la rapida decadenza generale dell’Impero insieme con l’affermazione di nuove potenze politiche ed economiche sul continente europeo, innanzitutto gli stati dell’Europa Occidentale ed in modo particolare le repubbliche marinare italiane come Venezia e Genova, e d’altro lato l’avanzata minacciosa dei Turchi dall’Asia Minore verso i territori bizantini e balcanici. Le testimonianze di fonti storiche di varia natura sui rapporti economici bizantino-slavi sono abbastanza numerose: sulla base di esse si potrebbe, magari con certe lacune, abbozzare un aspetto interessante della storia del Medioevo bizantino-slavo, rimasto sino al giorno d’oggi poco studiato.

La maggior parte dei trattati fra Bisanzio e gli stati slavi contengono delle clausole non soltanto di carattere politico, ma anche d’indole economica e commerciale. Il governo costantinopolitano cercava, in tale maniera, di assicurare sovrattutto per la popolazione numerosa della capitale stessa l’approvvigionamento con viveri di provenienza agricola e con certe materie prime. Si hanno delle notizie sui rifornimenti dalla Bulgaria, vicinissima al centro dell’Impero, dalla Russia e, per l’epoca posteriore, dalla città-repubblica di Ragusa (Dubrovnik) sulla costa adriatica. Meno di un secolo dopo la formazione dello stato bulgaro (681), e precisamente nel 716, fu concluso un trattato fra l’Impero bizantino e la Bulgaria, dove venne inserita una clausola relativa agli scambi di carattere commerciale, con prescrizioni assai precise e severe. Il fatto stesso basterebbe per provare l’esistenza già a quell’epoca di un commercio attivo, cui ambedue le parti attribuivano una importanza singolare. Da parte dei Bizantini e dei Bulgari ogni merce destinata allo scambio fra i due paesi si doveva accompagnare, secondo le clausole del trattato, con un diploma e un sigillo – il che significava l’esistenza di una organizzazione commerciale assai sviluppata. Circa un secolo più tardi, nell’812, il principe bulgaro Krum (802-814) sollecitava il rinnovamento di questo trattato del 716. Se non si potrebbe provare con evidenza la validità di detto trattato fra i Bizantini ed i Bulgari per tutto il periodo fra il 716 e 1’812, è indubbio però ch’esso veniva giudicato dai Bulgari vantaggioso per il loro stato, e perciò insistevano per il suo rinnovamento. Nella seconda metà dell’814 oppure nella prima metà dell’815 il successore di Krum, suo figlio Omurtag (814-831), concordò con Bisanzio un nuovo trattato di pace per un periodo di trent’anni. Oltre le clausole che si conoscono, si può supporre che ne vennero stipulate anche altre che regolavano il commercio fra i due stati, probabilmente con non minore scrupolosità del trattato del 716.

Clausole che riguardavano il regolamento degli scambi commerciali ed i diritti doganali erano previste indubbiamente anche nel trattato bizantino-bulgaro dell’864. Quando nell’893-94 venne a scadere il termine del detto trattato, il governo costantinopolitano tentò d’imporre qualche clausola nuova ai commercianti bulgari, trasferendo innanzitutto il mercato bizantino-bulgaro dalla capitale alla città di Salonicco. Il cambiamento sembrò talmente svantaggioso ai Bulgari che essi reagirono con energia, e così scoppiò una guerra fra i due stati. La pace, turbata da questa prima guerra fra Bizantini e Bulgari dopo la conversione del popolo bulgaro al cristianesimo nell’865, fu ristabilita nell’896. Così nel “Libro del prefetto”, divulgato, come pare, nella seconda metà del governo di Leone VI (886-912), si parla del commercio bulgaro a Costantinopoli e dei commercianti dalla Bulgaria, che importavano stoffe di lana e miele e, vendendo la propria merce, compravano prodotti bizantini. Nell’attività dei così detti “sericarii” bizantini, che lavoravano con la seta, si prevedeva l’elaborazione di “phakeolia” (“fasciae, tulipanta, tiarae”), detti “slavinica”‘, vale a dire destinati al commercio con i Bulgari come anche con gli altri popoli slavi. La Bulgaria però aveva per Bisanzio non soltanto l’importanza di un paese fornitore di materie prime. Già nei primi secoli della sua esistenza lo stato bulgaro incorporò nei suoi limiti un vasto territorio ad ovest e a sud-ovest dell’antica Misia. In tal modo nel potere dei Bulgari cadde una buona parte della così detta Via diagonale, che collegava l’antico Singidunum (Belgrad), Naissus (Nis), Serdica (Sredec, odierna Sofia) e Byzantium (Costantinopoli) . Ora, era questa la via che serviva da arteria principale per le comunicazioni dell’Impero bizantino con i territori dell’Europa Centrale. Questa via di comunicazione fu minacciata gravemente, poi troncata in modo definitivo, e furono rotti, in seguito all’espansione bulgara, i contatti diretti con i popoli e gli stati del Nord-ovest. Si verificarono allora alcuni cambiamenti notevoli anche di carattere politico ed economico. La prima ripercussione si senti nei rapporti fra Bisanzio e gli Avari. Senza contatto diretto con le frontiere bizantine, questi barbari non costituivano più, dalla fine del secolo VII in poi, un pericolo immediato per l’Impero. Così, nelle loro mani cessò d’affluire l’oro e gli oggetti di lusso che il governo costanti-nopolitano era solito offrire, per domare le loro ostilità. Si spostarono però anche le vie ed i centri di scambio commerciale. Fra ovvio ormai trasportare le merci attraversando il territorio bulgaro oppure servirsi dei centri commerciali nelle terre bulgare. Così ad esempio la capitale bulgara Preslav durante la seconda metà del secolo X era un centro di commercio internazionale. Il principe di Kiev Svjatoslav avrebbe dichiarato alla madre Olga ed ai suoi bojari che in questa città bulgara “affluivano tutti i beni: dai Bizantini (Greci) oro, seta, vino e varia frutta, dai Cechi e dai Magiari argento e cavalli, dai Russi pellicce e cera, miele e schiavi”. Per un certo periodo dunque a Preslav, situata non lontano dal Danubio, si incontravano dei commercianti che venivano da alcuni paesi dell’Europa Centrale con i commercianti bulgari, bizantini e russi. L’importanza della Penisola balcanica, ed in modo particolare delle terre bulgare, come fornitrici di cereali e di altre materie prime si accrebbe specialmente dopo la conquista turca dei territori dell’Asia Minore. Per il nutrimento della popolazione dell’Impero e particolarmente della capitale si era costretti ad importare grano e bestiame dalla Bulgaria, dalla Russia come anche da qualche altro paese slavo. Ciò viene testimoniato, per la Bulgaria, in modo esplicito per l’inizio del secolo XIV. Sfortunatamente, si conoscono pochi dettagli in proposito.

Si conosce troppo poco, specie per il periodo più antico, sui rapporti economici fra l’Impero di Costantinopoli ed i territori serbi, croati e dalmati. A prescindere dai periodi in cui i detti territori si trovavano sotto il dominio diretto dei Bizantini, e quindi la loro attività commerciale veniva obbligatoriamente diretta verso Costantinopoli e verso gli altri centri bizantini, la Serbia, la Dalmazia e la Croazia per la loro stessa posizione geografica mantenevano degli scambi commerciali prevalentemente con i paesi dell’Occidente europeo ed in modo particolare con l’Italia. Relativamente più accessibile – in confronto con la capitale Costantinopoli – la città di Salonicco divenne per loro uno dei centri più importanti di scambi commerciali: commercianti di questa città, attraversando la Macedonia, visitavano anche le terre disposte più all’ovest ed al nord-ovest. Nel dialogo anonimo di Timarion, della prima metà del sec. XII, si parla, a proposito della grande fiera di Salonicco alla fine di ottobre, di vari popoli: i Bizantini, le “varie tribù dei Mesi (Bulgari) che abitano vicino alla città, sino al Danubio e sino alla terra scitica”, poi gli Italiani, gli Spagnoli, i Portoghesi e perfino i Francesi (“Celti dell’al di là delle Alpi”), senza nominare i Serbi, i Croati ed i Dalmati. La presenza di commercianti di detti territori alla fiera si deve ritenere però più che probabile: queste terre, fornitrici di bestiame, di cera e di miele, di legna e di schiavi, come anche di certe materie prime, avevano bisogno dei mercati bizantini, per vendere e per comprarvi varie merci: fra l’altro oggetti di lusso, come la seta. Già prima del 1000 la città di Dubrovnik-Ragusa, sulla costa adriatica, la “città romana divenuta slava”, acquistò una particolare importanza nello scambio commerciale. Sino a quest’epoca essa si trovava più o meno sotto la supremazia e, talvolta, sotto la protezione di Bisanzio. Testimonianze poco sicure parlano di qualche patto di “gran amicitia, pace, unione “, concluso fra Ragusa e l’Impero bizantino verso il 980. Verso l’anno 1000, quando Venezia occupò la Dalmazia, la città di Ragusa fu costretta, per tre decenni, a riconoscere la sua dominazione, per ritornare poi di nuovo sotto la supremazia bizantina. La minaccia da parte dei Normanni, di Venezia come anche dalla Bosnia vicinissima e dalla Serbia obbligarono Ragusa nella seconda metà del secolo XII a cercare tanto più la protezione bizantina. Si hanno notizie, del resto non bene comprovate, di due diplomi dati dall’imperatore Manuele I Comneno (1143-1180) alla città di Ragusa, in base ai quali ai Ragusei si riconosceva il diritto di aiuto finanziario in caso di naufragio o di altra disgrazia, mentre ai giovani di Ragusa, di stirpe nobile ma “oppressi dalla povertà”, si concedeva la “facoltà di trattenersi ne’ studi di Grecia, alle spese della camera imperiale”. Si afferma inoltre che il figlio e successore di Manuele I, il giovanissimo Alessio II Comneno (1180-1183), avrebbe confermato i privilegi riconosciuti alla città di Ragusa. Verso il 1192 Ragusa cercava di nuovo la protezione di Costantinopoli, e fu allora che la città ricevette dall’imperatore Isacco II Angelo (1185-1195) un “sigillo d’oro”, con la data pretesa del giugno 1192. Contro certi obblighi di carattere politico e militare, la città riceveva il privilegio di libero commercio in tutto il territorio dell’Impero, come anche in Bulgaria, nonostante che questo paese, circa otto anni prima, si fosse sottratto, quasi interamente, al secolare dominio bizantino, cosicché la menzione nel diploma, se veramente esso è esistito, corrisponde non alla realtà, ma piuttosto ai desiderata di un governo non ancora adattatosi ai fatti. La disfatta dell’Impero bizantino ad opera dei partecipanti alla quarta crociata nel 1204 privava Ragusa della protezione bizantina, ma nello stesso tempo abbandonava la città sotto la supremazia di Venezia per un periodo ultrasecolare, dal 1205 cioè sino al 1358. Limitando la sua ingerenza al campo politico e specie alla politica estera, la Serenissima si dimostrava però assai gelosa riguardo al commercio marittimo e poco disposta a permettere l’affermarsi di un rivale. Privata della prospettiva di sviluppare largamente il suo traffico commerciale sui mari, Ragusa si orientò necessariamente verso l’interno della Penisola balcanica, verso l’Epiro e verso la Bulgaria, oltre che verso Corfù. Già dal primo sovrano dell’Epiro, Michele I (1204-1215?), Ragusa aveva ottenuto un diploma con privilegi commerciali. Le possibilità del despotato di Epiro e Salonicco ad affermarsi come successore e restauratore dell’Impero bizantino però furono annientate nella battaglia di Klokotnica (marzo 1230), non lontano da Filippopoli (odierna Plovdiv ), fra l’esercito di Teodoro Comneno (1215-1230) ed il re bulgaro Giovanni II Asen (1218-1241). In seguito a tale battaglia lo stato bulgaro si costituì, per qualche decennio, come la potenza suprema nella Penisola. Attenti ai cambiamenti politici in questa parte del continente, i Ragusei ottennero, probabilmente ancora all’indomani della battaglia, un diploma bulgaro con vasti privilegi per il loro traffico commerciale non soltanto nelle terre bulgare, ma anche per alcune regioni del disfatto Impero bizantino, come Adrianopoli, Didimoteichon e Salonicco. Si ha notizia di un diploma rilasciato alla città di Ragusa dall’imperatore di Nicea Teodoro I Lascaris (1204-1222). Ammettendo che nel diploma (horismos) del re bulgaro Giovanni II Asen sia stato seguito il formolario dei diplomi epiroti, è ovvio supporre che ciò riguarda anche il contenuto, vale a dire la natura dei privilegi commerciali. Il successore di Teodoro I Comneno al governo di Salonicco, il despota Manuele (1230-1237), diede, pur egli, un prostagma ai Ragusei, verso il 1234. Con questo diploma egli riconosceva loro i diritti di libero commercio nel territorio del suo despotato, “sia per mare, che per terra”, con la limitazione di esportazione dal paese di prodotti cereali in tempo di carestia. Circa tre anni più tardi Michele II Comneno-Duca (1236-1271) rilasciò (ottobre 1237) un horismos ai Ragusei, come conferma del privilegio dato loro da suo padre Michele I, esigendo da loro unicamente il pagamento del “kommerkion” (“commercium”). Non molti anni più tardi, nel mese di giugno probabilmente del 1251, lo stesso despota diede alla città di Ragusa un documento più solenne, un prostagma-argyrobullon. Dal testo di detto diploma si ricava che in questo periodo venivano mal rispettati i privilegi riconosciuti ai Ragusei sia da Michele I di Epiro che dal suo successore Michele II. Così il despota si vedeva costretto ad assicurare, ancora una volta, i beni dei commercianti ragusei defunti nei suoi territori. Fra il despota ed i commercianti di Ragusa fu convenuta inoltre la libera importazione di cavalli e di armi, dei quali egli naturalmente aveva un bisogno particolare. I Ragusei potevano gioire di piena libertà di movimento e di commercio in tutto il suo territorio – come i commercianti del paese – pagando soltanto il solito dazio del 3%. Si apprende, in fine, che per ottenere questo privilegio del despota i Ragusei da parte loro avevano presentato, in forma scritta, alcune promesse in suo favore.

Due anni più tardi la città di Ragusa stipulò un accordo politico-commerciale nuovo con il re bulgaro Michele II Asen (12461257), diretto innanzitutto contro il re serbo Stefano Uros I (1243-1276). Da ricordare, fra l’altro, i pieni diritti di libero commercio dei Ragusei nel territorio bulgaro, riconosciuti con questo diploma, firmato da parte della città di Ragusa dal rappresentante veneto in essa, Marsiglio Giorgio (1252-1254). Le facilitazioni che venivano offerte dal sovrano bulgaro ai commercianti ragusei favorivano, senz’altro, in genere il loro commercio nelle terre balcaniche, in modo particolare nei territori precedentemente appartenenti all’Impero bizantino. Secondo testimonianze difficilmente controllabili, l’imperatore Michele VIII Paleologo (1258-1282), immediatamente dopo aver preso il potere e prima ancora di stabilirsi a Costantinopoli, cioè verso il 1258, confermò, con un suo scritto, i privilegi dei Ragusei.

All’inizio del ‘300 la città di Ragusa aveva già dei rapporti più stabili con la dinastia dei Paleologhi. Da una decisione del “Grande consiglio”, del mese di novembre 1302, si sa che a Costantinopoli fu inviato, in quest’anno, un certo ‘ Vita de Cassiga ‘, il quale fra l’altro doveva cercare diversi privilegi, concessi dal governo bizantino ai commercianti ragusei. Se i risultati di questa missione rimangono sconosciuti, occorre rilevare però la notizia presso qualche storico raguseo, secondo la quale i Ragusei ottennero dei privilegi dall’imperatore Andronico II Paleologo (1282-1328) e, in modo speciale, la franchigia di tasse e imposte doganali. Riacquistata la sua indipendenza rispetto alla repubblica di Venezia, dopo il 1358 la città di Ragusa riprese liberamente il suo traffico marittimo, e così, minacciata ormai gravemente la sicurezza delle comunicazioni attraverso la Penisola balcanica a causa dell’invasione turca, poteva mantenere dei rapporti più facili ed assidui con il vacillante Impero bizantino. In questo senso si devono interpretare, innanzitutto, le numerosissime indicazioni nelle fonti archivistiche di viaggi e contatti con la “Romania” , che non era altro che il territorio bizantino nel senso vasto del termine. Siamo un po’ meglio informati sui rapporti fra Ragusa e l’Impero di Costantinopoli verso la metà del ‘400. Così, nella primavera del 1423 era giunto nella città, come messo imperiale, “nobilis vir dominus Asan, ambasiator serenissimi domini imperatoris Constantinopolitani”, un membro della grande famiglia bizantino-bulgara degli Asenidi, imparentata da lungo tempo con i Paleologhi. Era una missione di passaggio che attraversava la città di Ragusa, diretta verso la Bosnia con uno scopo non ben precisato, ma il fatto stesso testimonia dei buoni rapporti che intercorrevano fra la repubblica marittima e l’Impero di Costantinopoli. Non molto tempo dopo questa data, nel 1431, il despota del Peloponneso Costantino Dragasis (1428-1449), il futuro ed ultimo imperatore di Bisanzio, tentò di concludere un trattato con la città di Ragusa. Nel febbraio di quest’anno un messo del despota, Giorgio Paleologo Cantacuzeno, trattava con i Ragusei circa il commercio in Morea ed il dazio sulle merci, come pare senza un esito positivo. Intanto il despota d’Arta in Epiro, Carlo Tocco, incominciò nel 1433 delle trattative con Ragusa, che solo tre anni più tardi giunsero ad un risultato, con la conclusione di un trattato commerciale per l’esportazione di grano dall’Epiro per la città adriatica. Il raguseo johannes de Staiis Stojkovic che ebbe tanta importanza al concilio di Basilea e più tardi al concilio di Ferrara e Firenze, passò due anni a Costantinopoli, nel 1435-1436. Grazie precisamente al suo intervento, il governo costantinopolitano concesse alla città di Ragusa, nell’estate del 1436, alcuni privilegi di carattere commerciale, i quali però non ebbero conferma probabilmente a causa dell’intervento della Serenissima. Un periodo nuovo si ebbe nei rapporti bizantino-ragusei con l’ascesa al trono dell’Impero di Costantino Dragasis (1449-1453), il quale, come imperatore, non tradì la lunga amicizia che lo legava alla città di Ragusa. Un avvicinamento fra l’Impero e la città marittima corrispondeva, innanzitutto, al desiderio di Costantino XI di svincolarsi dalla dipendenza dalle potenze occidentali e specie da Venezia. E da notare che nelle trattative intavolate l’iniziativa, come pare, apparteneva piuttosto al governo costantinopolitano. Nel 1449 un messo bizantino trattava a Ragusa “de franchiziis mercantiarum”, e l’anno seguente un altro ambasciatore bizantino appariva a Ragusa con nuove proposte. Verso la fine del 1450 e nei primi mesi del 1451, grazie all’azione del nobile raguseo Volzius de Babalio (Vuk Bobaljevic), il governo bizantino, dopo alcune trattative, decise di concedere ai commercianti di Ragusa vasti privilegi, formulati in una crisobolla di Costantino XI del mese di giugno. Il sovrano bizantino ricordava, nel proemio, la “benevolenza e l’amicizia” che la città di Ragusa aveva testimoniato nei tempi precedenti verso i Bizantini che vi si recavano. Concedendo ai Ragusei il diritto di stabilire, nella capitale dell’Impero, una loro “loggia”, di inviare, a propria scelta, un console con certi diritti di giurisdizione, come anche di costruire una loro chiesa, l’imperatore riconosceva loro vari privilegi di carattere commerciale: pagare il 2% di dazio per l’importazione e per l’esportazione di ogni merce. I sudditi della comunità di Ragusa venivano autorizzati, inoltre, a stabilirsi nella capitale dell’Impero. Immediatamente dopo il messo raguseo ebbe un documento simile anche dal fratello dell’imperatore, il despota del Peloponneso Tommaso Paleologo. Ricordando a sua volta i buoni rapporti esistenti fra Ragusa ed i Bizantini, il despota Tommaso riconosceva per i commercianti ragusei il diritto di libero commercio nei suoi territori, con l’obbligo di pagare il dazio dell’1,50% per il commercio all’ingrosso e del 2% per il commercio al minuto. Essi ebbero inoltre il diritto di erigere una loro “loggia” nelle terre del despota e di stabilire un console con prerogative di carattere giurisdizionale. Il terzo fratello, il despota di Morea Demetrio Paleologo, concesse anch’egli, con la data del mese di agosto 1451, un “argirobullo orfismo” al messo raguseo, con privilegi simili. Rievocando l’antica amicizia, il despota Demetrio si dimostrava ancora più generoso verso i commercianti ragusei: egli li liberava da ogni dazio d’importazione e di esportazione, senza pagare alcuna imposta per il traffico delle loro merci, in tutto il suo territorio. Era però ormai troppo tardi: la avanzata dei Turchi, la presa di Costantinopoli alla fine del maggio 1453, poi, pochi anni più tardi, nel 1458-60, l’occupazione del Peloponneso, misero fine a queste vaste possibilità che si aprivano, con i privilegi testé menzionati, allo sviluppo del commercio raguseo nei territori bizantini.

Disponendo di fonti storiche relativamente ricche, oggi siamo in grado di precisare parecchi dettagli nei rapporti commerciali fra la città di Ragusa e l’Impero bizantino, nel senso più vasto del termine. I commercianti ragusei utilizzavano, a quanto pare, meno le vie marittime che quelle che attraversavano l’interno della Penisola balcanica. Una di queste strade, seguendo probabilmente l’antica Via Egnatia, giungeva a Salonicco, ch’era uno dei centri principali del commercio raguseo. Prendendo in considerazione i minimi cambiamenti sia riguardo le vie di comunicazione, che riguardo i mezzi di trasporto, che si effettuarono quasi sino alle soglie dell’epoca moderna, possiamo supplire le testimonianze delle fonti medievali con ciò che si ricava dai documenti dei tempi più recenti sulle vie di comunicazione e sulla durata stessa dei viaggi. La via terrestre da Costantinopoli sino a Ragusa può essere stabilita anche sulla base di un itinerario raguseo della seconda metà del secolo XV. Essa attraversava la Bulgaria meridionale, per spingersi poi verso la Macedonia e la Serbia meridionale e giungere a Ragusa. D’altronde vari documenti del secolo XVII forniscono delle indicazioni per quanto riguarda la durata del viaggio da Costantinopoli sino a Ragusa, fra 20 e 30 giorni, e fra Salonicco e Ragusa, fra 14 e 20 giorni. Dall’Impero bizantino, ed in genere dai territori balcanici, i commercianti ragusei importavano, in primo luogo, grano, sale, lino che serviva anche come merce di scambio con i paesi dell’Europa Occidentale, inoltre pellicce, cotone, seta, cera, come anche alcuni generi alimentari (formaggio, carne salata ecc.). In cambio essi esportavano verso i detti territori stoffe, vino e metallo, spesso anche di provenienza straniera, infine degli schiavi.

Si hanno testimonianze preziosissime per quanto riguarda il commercio fra l’Impero bizantino e le terre russe, già dalla metà del secolo IX. Grazie all’Antica cronaca russa (Povest vremennych let) ed alla descrizione di Costantino Porfirogenito, la principale via di comunicazione che collegava Bisanzio con la vecchia Russia è ben conosciuta. La così detta “Via dai Vareghi sino ai Greci” (Put iz Variag v Creki), oppure la “Via Greca”, serviva non unicamente per collegare i territori russi con l’Impero di Costantinopoli, ma anche per il commercio di transito fra la Scandinavia e Bisanzio. Secondo il cronista russo, questa via incominciava dal Baltico, scendeva alla Neva, poi al Volchov, andava al Lago di Ilmen, continuava sino al fiume Lovat e imboccava il fiume Dniepr, per giungere al Mar Nero e, seguendo la costa occidentale, sino a Costantinopoli. Per un vastissimo territorio la via sui fiumi e sui mari era l’arteria principale e spesso unica di collegamento. Nominando il Mare Baltico (“More Varjazskoe”), il cronista russo medioevale aggiunge: “Su questo mare si va a Roma, poi da Roma sul mare si arriva a Costantinopoli, da Costantinopoli poi si giunge al Mare Pontico (Mar Nero), dove affluisce il fiume Dnjepr”. La parte meridionale della “Via Greca” viene descritta con ricchi dettagli da Costantino Porfirogenito. L’autore bizantino c’informa che per mezzo di detta via scendevano verso la capitale bizantina monoksyla dalla città di Novgorod, da Smolensk, Ljubek (?), Cernigov e Vysegrad. Riunendosi a Kiev, le navi russe partivano in primavera, discendendo il fiume Dniepr dalla città di Vitisev in giù. Secondo l’affermazione di Costantino, nel traffico russo sino all’isola di San Gregorio (oggi Chortica), i navigatori viaggiavano sotto la minaccia dei Peceneghi. Da quest’isola in poi essi non temevano più gli assalti di tale tribù turca, sino alla piccola isola di Sant’Aeterio (oggi Berezan) e sino al delta danubiano. Il viaggio ulteriore li portava vicino al territorio bulgaro: a Konopa (“insula Conopon Diabasis” di Plinio, difficilmente identificabile), a Costanza (l’antica Tomis), a Varna, nello sbocco di Biéina (Kamcija) e Mesemvrija (oggi Nesebúr), per avviarsi verso Costantinopoli. Come lo stesso Costantino rileva, era un viaggio “assai penoso e pieno di pericoli, difficile da compiere e duro”. Dalla testimonianza di Costantino Porfirogenito si sa inoltre che simile viaggio poteva effettuarsi soltanto dal mese di giugno sino a novembre al più tardi. Sfortunatamente l’autore bizantino non dà nessuna indicazione chiara riguardo all’attività commerciale di questi navigatori russi, benché da qualche sua parola trapeli indubbiamente che detti viaggi, se si prescinde da qualche missione diplomatica, avevano prevalentemente un carattere commerciale. Altrove nella sua opera Costantino VII, parlando dei rapporti fra i Russi ed i Peceneghi, dichiara che i Russi, se non sono in pace con i Peceneghi, non possono giungere sino alla città di Costantinopoli sia per guerreggiare contro di essa, che per commercio. Due volte lo scrittore imperiale allude a oggetti che venivano trasportati nelle navi russe, senza dare nessuna spiegazione esplicita sulla natura precisa di tali merci. Nello stesso tempo però egli parla di “schiavi incatenati” che si trovavano sulle navi e che erano destinati, indubbiamente, al commercio nella città di Costantinopoli. Il carattere del commercio bizantino-russo si deve stabilire perciò sulla base di qualche altra testimonianza di età posteriore. Qualche indicazione interessante si trova nei trattati bizantino-russi del secolo X, che si considerano a buon diritto documenti pienamente autentici e quindi degni di fede. Secondo il trattato del 907, i commercianti russi che giungevano nella capitale bizantina dovevano ricevere da parte del governo costantinopolitano una “paga” mensile per mezz’anno, in forma naturale, cioè pane, vino, carne, pesce e frutta. Ritornando nel loro paese, essi dovevano ricevere “dall’imperatore” non solo il cibo, ma anche tutte le altre cose necessarie per il viaggio di ritorno. Giungendo nella capitale bizantina, i commercianti russi erano obbligati a stabilirsi presso la chiesa di San Mamante, dove anche nei secoli posteriori si trovava la dimora dei Russi a Costantinopoli. I nomi dei commercianti russi dovevano iscriversi in una lista speciale (da ispisut imena ich), e soltanto allora essi potevano ricevere la loro paga mensile, questa ultima distribuita in un certo ordine di precedenza: prima a quelli di Kiev, la capitale russa di allora, poi a quelli di Cernigov, di Perejaslavf e delle altre città. Si prevedeva inoltre ch’essi entrassero nella capitale dell’Impero attraverso una porta determinata, il cui nome non viene menzionato, a gruppi di non più di 50 persone e sempre accompagnati da un commissario imperiale (so carevym muzem (probabilmente: basilikos), evidentemente per essere strettamente sorvegliati, e inoltre disarmati (bez oruzja). Nonostante queste misure di precauzione da parte del governo bizantino, nella città di Costantinopoli essi potevano godere di piena libertà per la loro attività commerciale. Il trattato lasciava loro la libertà di svolgere un libero commercio: da tvorjat kuplju, jako ze im nadobe, secondo i loro bisogni, senza pagare nessun dazio (ne platjace myta ni v cem ze). Il trattato venne confermato con giuramenti solenni secondo il rito cristiano da parte dei Bizantini e secondo il rito pagano da parte dei Russi e degli Slavi pagani. Il cronista russo aggiunge in fine che il principe Oleg di Kiev, ritornando nella sua terra, riportava – probabilmente come doni da parte del governo bizantino – oro, stoffe di seta (pavoloki), frutta, vino e “ogni genere di ornati” (vsjakoe usorocje). L’elenco di questi doni, per mezzo dei quali i Bizantini cercavano di pacificare il principe russo e di cattivarsi la sua amicizia, dimostra però anche quali merci e oggetti di lusso potevano essere ricercati dai Russi nel loro commercio con Bisanzio. Nell’autunno del 911 fu concluso un nuovo trattato bizantino-russo, contenente altre clausole riguardo agli scambi commerciali. I rappresentanti del principe russo, i cui nomi sono esplicitamente menzionati e alludono piuttosto alla loro origine normanna, ricordarono dinanzi agli imperatori bizantini Leone VI (886-912) e Alessandro (886-912, 912-913) l’amicizia (ljubov’) che esisteva da ” molti anni” fra l’Impero ed i Russi, e dietro la quale si deve vedere, indubbiamente, anche un’allusione ai rapporti commerciali dei tempi precedenti. Il nuovo trattato veniva concluso con lo scopo di consolidare questa amicizia già esistente, vale a dire anche i rapporti economici fra i due paesi. Il fatto stesso che, dopo la dichiarazione generica di amicizia e dopo l’obbligo di rispettarla anche nel futuro, si prevedevano certe norme di carattere giurisdizionale (assassinii, aggressioni armate, furti e tentativi di ratto) testimonia inequivocabilmente l’esistenza di rapporti già assai sviluppati e complessi fra Bisanzio e la Russia antica. I Russi assumevano inoltre l’obbligo di cooperare con i navigatori e commercianti bizantini, in caso di infortunio, in territori stranieri, salvando le persone e la loro merce. Simile obbligo assumevano pure i Bizantini riguardo ai Russi. Da certe allusioni si deve dedurre che i commercianti bizantini godevano, pure essi, nelle terre russe del diritto di libero traffico. Un capitolo importante del commercio, come si può concludere da qualche indicazione indiretta, era quello che riguardava gli schiavi. Esisteva un prezzo stabilito per la vendita degli schiavi. Non si poteva ritenere in schiavitù un Russo fra i Bizantini e, rispettivamente, un Bizantino fra i Russi, nonostante che vi fosse giunto in seguito ad una vendita. Tale schiavo, comprovata la sua appartenenza etnica, doveva essere liberato e rimandato nel suo paese di origine, dopo che si fosse pagato per lui il prezzo stabilito per vendita di uno schiavo: celjadinnaa céna. Parimente, se in guerra fosse stato preso come prigioniero da parte dei Bizantini qualche Russo, egli doveva essere rimandato nel suo paese, dopo che si fosse pagato per la sua liberazione come per uno schiavo il prezzo stabilito. Per i Bizantini che venivano ad essere condotti in territorio russo e lì venduti come schiavi, si doveva pagare il prezzo di 20 monete d’oro (zotota), cioè 20 nomismi, e rimandarli a Bisanzio. I Russi avevano ottenuto, inoltre, la garanzia che ogni schiavo, che dalle loro mani passava in seguito a furto, fuga o in qualche altro modo a Bisanzio, doveva essere restituito loro. Nel trattato si allude inoltre in modo generico ai commercianti russi in Bisanzio e specialmente ai commercianti russi che, contrattando degli scambi, rimanevano indebitati verso i loro connazionali: i debitori russi dovevano essere rimandati per forza in Russia, come si doveva fare anche con i commercianti bizantini che contraevano dei debiti. Il cronista russo aggiunge, alla fine, che ai messi russi furono offerti, dopo la conclusione del trattato, vari doni: oro, seta e stoffe di valore, cioè quelle merci che attiravano di più l’interesse dei Russi.

Dopo le ostilità bizantino-russe del 941, la pace fra i due paesi veniva ristabilita nel 944 per mezzo di un nuovo trattato, dove sono menzionate dettagliatamente varie clausole di carattere commerciale. Prima della conclusione del trattato, però, il principe russo Igor (912-945) era apparso – nell’autunno del 944 – con un grosso esercito marittimo al Danubio, minacciando d’invadere i territori dell’Impero. Verso la fine dell’anno venne stabilito quel nuovo trattato che sostanzialmente ripeteva il contenuto del trattato del 911, ma in genere offriva più favori ai Bizantini. Nel proemio del trattato viene menzionato esplicitamente che l’ambasceria russa, incaricata di concludere il trattato, era composta non soltanto da messi (súly), ma anche da commercianti (gostje). Già all’inizio veniva indicato che il trattato doveva essere concluso per “tutta l’eternità”, “finché brilli il sole ed esista tutto il mondo”, confermato con giuramenti solenni. I Russi ottenevano il diritto di inviare a Bisanzio navi con messi e commercianti “quanti ne volevano”, il che equivaleva a un permesso di commercio illimitato. Secondo un passo del trattato, nei tempi anteriori i commercianti russi che giungevano a Bisanzio venivano muniti di sigilli d’argento (pecati serebreni). Con il trattato del 944 si stabiliva d’inviarli muniti di lettere (gramoty) da parte del principe russo, che doveva testimoniare in tal modo lo scopo pacifico del loro arrivo nel territorio dell’Impero. I commercianti che sarebbero arrivati senza simili lettere correvano il rischio di esser messi sotto sorveglianza (pod nadzorom) da parte dei Bizantini fin quando non fosse giunta una garanzia in loro favore dal principe di Kiev. I commercianti russi, stabilendosi a dimora presso la chiesa di San Mamante, potevano ricevere una paga mensile (mésjacna) secondo la lista dei loro nomi ed in ordine di provenienza (Kiev, Cernigov, Perejaslavl e le altre città russe). Ripetendo alcune disposizioni ormai note, il trattato aggiunge qualche elemento nuovo. Concedendo ai Russi il diritto di libero commercio, i Bizantini tuttavia esigevano che essi non comprassero delle stoffe di seta (Pavoloki) per un valore più alto di 50 monete d’oro (numismi) e, dopo averle comprate, le presentassero ad un impiegato imperiale (carev muz = basilikos), per ricevere da lui un sigillo sulla merce comprata. Si negava però il diritto ai commercianti russi di passare l’inverno nella capitale bizantina, mentre si assicurava loro ogni cosa necessaria per il ritorno in patria. Lo schiavo russo fuggito fra i Bizantini doveva essere restituito. Quando veniva scoperto insieme con qualche roba (di valore), per lui si doveva pagare, da parte dei Russi, il prezzo stabilito precedentemente: due monete d’oro (numismi). Si assumeva inoltre l’obbligo di restituire gli schiavi bizantini fuggiti presso i Russi, o di pagare per ogni schiavo il prezzo di due stoffe di seta (pavoloki). I Russi promettevano di restituire ai Bizantini gli schiavi di guerra di origine bizantina, ricevendo per ognuno un prezzo determinato: 10 monete d’oro per un giovane e per una “buona ragazza”, 8 per una persona di età adulta, 5 per un vecchio o un bambino. Si prevedeva inoltre la restituzione, contro pagamento, degli schiavi di origine russa che si trovavano presso i Bizantini: per gli schiavi di guerra pagando 10 monete d’oro, per gli altri il prezzo ch’era stato già pagato per loro. I Russi assicuravano l’immunità delle navi bizantine che potevano patire un naufragio vicino al loro territorio, per quanto riguarda le merci e le persone. Gli abitanti della colonia bizantina di Cherson acquistavano il diritto di far la pesca liberamente alla foce del Dnjepr. Oltre alcune clausole di carattere militare, il trattato prevedeva varie sanzioni giuridiche. Nel racconto del cronista russo viene data una notizia che merita particolar rilievo. Ai messi bizantini inviati dal principe russo per la conferma del trattato furono offerti varii doni: pellicce (mechi), schiavi e cera (vosk), vale a dire gli stessi prodotti che i Russi importavano a Bisanzio. Secondo la testimonianza del medesimo cronista russo, nel 969 il principe Svjatoslav di Kiev (945-972) aveva dichiarato, in una lettera diretta a sua madre, la principessa Olga, che nella città bulgara di Preslav sul Danubio (v Perejaslavci na Dunai), dove s’incontravano dei commercianti bizantini, cechi, ungheresi, bulgari e russi, i Russi importavano gli stessi prodotti: pellicce, cera, miele e schiavi, mentre i Bizantini offrivano oro (meglio: oggetti d’oro), stoffe di seta (pavoloki), vino e varie frutta (ovosceve raznolicnyja). Un po’ più tardi, nel corso delle trattative di pace fra Bizantini e Russi, il governo di Costantinopoli, secondo quanto dice il cronista, avrebbe tentato di convincere il principe di Kiev inviandogli oro e stoffe di seta, poi anche delle armi di produzione bizantina. A conclusione delle ostilità fra i Russi e l’Impero, nel mese di luglio 972 venne stabilito un altro trattato di pace fra di loro. Promettendo di essere in pace con l’Impero costantinopolitano e di non assalire nessuno dei suoi possedimenti e, nello stesso tempo, riconoscendo in tal modo anche la occupazione bizantina della Bulgaria Orientale (stranu bolgar’sku), il principe Svjatoslav si dichiarava pronto a rinnovare il vecchio trattato bizantino-russo (pravaja súvéscanjja). Secondo altre testimonianze, ai Russi veniva riconosciuto il diritto di libero commercio nel territorio dell’Impero bizantino. A giudicare dal comportamento del governo costantinopolitano che, pur concludendo il detto trattato di pace con i Russi, avvertiva segretamente i Peceneghi di assalirli, si deve pensare che, in realtà, la concessione di simili diritti di libero commercio fosse piuttosto provvisoria. Merita rilievo, nel testo del trattato del 972, anche la menzione di Svjatoslav circa quel più antico trattato bizantinorusso che veniva rinnovato. Si potrebbe naturalmente supporre che il principe russo alludeva ad uno dei trattati dei tempi più lontani, ad esempio del 944. Non è da escludersi però anche la possibilità che Svjatoslav alludesse piuttosto a qualche patto bizantino-russo concluso in tempi più recenti, come ad esempio in occasione della visita di sua madre, la principessa Olga, nella capitale di Costantinopoli nel 957. Secondo la testimonianza esplicita della nostra fonte, fra le numerosissime persone – più di un centinaio – che accompagnavano la principessa, quasi la metà, cioè 43 o 44, sono designate come ‘commercianti’ . Il fatto dovrebbe essere spiegato evidentemente con lo scopo tanto politico e religioso, quanto commerciale della visita di Olga nella capitale bizantina. Quando si afferma poi che detta visita ebbe dei risultati positivi, ciò si può interpretare anche nel senso che furono stabiliti alcuni patti riguardanti anche gli scambi commerciali fra i due paesi. Il vecchio cronista russo, narrando del viaggio della principessa Olga a Costantinopoli, aggiunge che dopo il suo ritorno a Kiev essa avrebbe ricevuto da parte dell’Imperatore bizantino un ‘ambasceria, con la domanda di mandare a Costantinopoli, secondo la promessa fatta ai Bizantini, fra l’altro schiavi (celjad), cera (vosk) e pellicce (sicura), vale a dire quelle merci che i Russi proponevano all’Impero.

Per il periodo posteriore dei rapporti commerciali bizantino-russi si hanno sfortunatamente soltanto delle notizie troppo sparse che appena permettono d’intravedere le linee generali dello sviluppo storico. Sino alla fine dell’epoca medioevale la natura delle merci esportate dai territori russi era rimasta pressoché la stessa che nei primi secoli. Già prima della metà del secolo IX lo scrittore arabo Ibn-Chordadbeg scrive che i commercianti russi esportavano delle pellicce di castoro, di volpi e di orsi, aggiungendo che l’imperatore bizantino esigeva da essi una decima sul valore delle loro merci. Più di un secolo più tardi, un altro viaggiatore arabo, Ibrahim ibn-Jacub, testimonia che nella città di Praga giungevano commercianti russi e slavi, per offrire pellicce, schiavi e – una cosa nuova – piombo (?), cioè in sostanza le medesime merci che si esportavano a Bisanzio. In una glossa aggiunta nel tardo medio evo su un manoscritto russo si legge pure l’indicazione che nella capitale bizantina affluivano commercianti russi per vendervi degli schiavi. Alcune notizie di carattere documentario dimostrano che anche fra la città russa di Novgorod e Bisanzio si stabilirono dei rapporti commerciali. Così, da una indicazione della vita di Antonio “Romano” sappiamo che nel 1106 a Novgorod si trovava un commerciante di origine bizantina, il quale conosceva ugualmente il greco, il latino e la lingua russa. Commercianti bizantini visitavano, secondo un’altra fonte, la città di Kiev. La conquista dei Tartari, verso la metà del secolo XIII, annientò quasi totalmente l’importanza politica e culturale di Kiev, mentre non molto più tardi nei territori nordici si affermavano, come centri politici ed economici, Mosca e Novgorod. Quest’ultima città, nonostante la sua maggiore lontananza dall’Impero bizantino, stabili rapporti con Costantinopoli, tracciando anche una sua via di comunicazione attraverso Belgorod (Akkerman, Maurocastro dei portolani italiani), sullo sbocco del Dnjestr nel Mar Nero. La via di comunicazione che scendeva sul Dnjepr perse, a causa della conquista tartara, la sua importanza, benché allo sbocco del fiume la fortificazione di Ellexe (Erekse) (Castrum Ilicis oppure Castellum di Lerici dei portolani) sia menzionata per i secoli seguenti come un centro attivo per la navigazione e per gli scambi commerciali. Durante questo periodo i viaggi dall’interno delle terre russe verso il sud si facevano anche seguendo il corso del fiume Don (l’antico Tanais), sino al porto di Azov (sul Mare di Meotida oppure Mare di Azov), quindi alla colonia genovese di Caffa in Crimea e poi, sul Mar Nero, sino alla capitale bizantina. Da una notizia della fine del secolo XIV si sa che questo viaggio da Mosca sino alla città di Costantinopoli durava circa due mesi e mezzo. Nel corso dei secoli XIII-XIV sulle sponde del Mar Nero si stabilirono varie colonie venete e soprattutto genovesi, che diventarono veri intermediari negli scambi commerciali fra la Russia e l’Impero bizantino. La repubblica di Genova si mostrava tanto gelosa riguardo al suo commercio con i territori russi, che nel 1352 riuscì ad imporre all’imperatore Giovanni Cantacuzeno (1347-1354) di sottoscrivere con essa un patto, secondo il quale senza il suo permesso nel Mar d’Azov non poteva entrare nessuna nave bizantina, come anche nessuna nave della Serenissima. Indipendentemente dal fatto che le merci che provenivano dalle terre russe fossero trasportate a Costantinopoli dai Russi stessi oppure dai Genovesi, per i Bizantini di quell’epoca era indubbio – come del resto viene riconosciuto dallo storico bizantino contemporaneo – che l’approvvigionamento della capitale poteva essere assicurato dal grano e dal pesce salato che s’importava dal Mare di Meotida e dai fiumi di quella regione. A Costantinopoli dunque sino all’epoca tarda esisteva, come pare, un quartiere speciale, oltre a San Mamante, dove abitavano i Russi residenti temporaneamente oppure per un periodo più lungo. In tal modo, nel corso di vari secoli, sino alla fine dell’esistenza dell’Impero costantinopolitano, le terre russe rappresentavano per i Bizantini uno dei più importanti fornitori di materie prime e, nello stesso tempo, un vastissimo campo per varie merci d’origine bizantina.

Si sa pochissimo invece sui rapporti commerciali fra gli Slavi occidentali e Bisanzio. Discosti dalle frontiere dell’Impero bizantino e senza possibilità di contatto immediato, questi Slavi naturalmente non erano in grado di mantenere rapporti commerciali assidui e vari coi Bizantini. Fra di essi e l’Impero costantinopolitano si stendeva il territorio dello stato bulgaro, cosicché i suoi centri commerciali potevano naturalmente servire anche come centri di scambio con Bisanzio. Uno di tali centri era la capitale bulgara di Preslav, nella seconda metà del secolo X, dove s’incontravano commercianti da Bisanzio, dalle terre russe, dall’Ungheria. Secondo la testimonianza della cronaca russa antica, già più volte citata, a Preslav dal paese dei Cechi venivano importati argento, cioè oggetti di lusso d’argento, e cavalli. Ibrahim Ibn-Jacub c’informa che nella seconda metà dello stesso secolo Praga era uno dei più ricchi centri commerciali, dove venivano commercianti da vari paesi slavi, alcuni dei quali importavano delle merci di origine bizantina. Una notizia del cronista francese Henri de Valenciennes ci dice che all’inizio del secolo XIII in Bulgaria venivano importate, in grande quantità, delle armi di ferro dalla Boemia (“glaives vers a fiers lons de Bohaigne”). Non è da escludersi che nei tempi precedenti, prima della disfatta dell’Impero costantinopolitano da parte dei partecipanti alla quarta crociata, le stesse cose venissero importate anche a Bisanzio. La scarsità delle notizie sui rapporti commerciali fra Bisanzio e gli Slavi occidentali non ci dovrebbe stupire. Si può supporre che, in realtà, l’Impero manteneva con questi popoli dei rapporti assai limitati anche nel campo economico: la distanza considerevole rendeva ogni scambio commerciale difficile e malsicuro, oltre che aumentare enormemente il prezzo dei prodotti e delle materie prime, che altrove, da paesi più vicini, si potevano fornire a minor prezzo e con maggior sicurezza e regolarità. Non si può nascondere, in genere, che dopo l’inizio del secolo IV, quando la capitale dell’Impero romano da Roma venne trasportata sulla sponda del Bosforo, era avvenuto anche un grande mutamento nei rapporti commerciali fra il mondo mediterraneo e quei territori che più tardi furono abitati dagli Slavi occidentali. Come si può dedurre dai ritrovamenti archeologici e numismatici nelle terre polacche e cecoslovacche, nell’epoca antica e sino quasi al secolo V, fra questi territori e l’Impero romano esistevano degli scambi commerciali molto più attivi di quanto si sa per l’epoca bizantina. Come per i territori degli Slavi occidentali, così anche in genere per tutti i popoli slavi del Medio evo, le scarse notizie delle fonti storiche scritte si possono arricchire e precisare per mezzo di uno studio approfondito del materiale archeologico e numismatico. Non tutti i ritrovamenti di carattere archeologico e numismatico si debbono valutare come una fonte sicura per gli scambi commerciali, giacché essi possono provenire anche da altri fattori, ad esempio da tributo in forma di doni che Bisanzio offriva spesso ai popoli slavi per domare le loro ostilità, oppure da preda in tempo di incursioni in territorio bizantino o di guerre. Una parte considerevole però degli oggetti di lusso, come anche dei vari altri reperti archeologici e, d’altro lato, le monete sono da apprezzarsi come resti di un vasto movimento di scambi commerciali: gli oggetti di varia natura come testimonianze, in genere, di commercio d’importazione, e le monete come risultato del commercio d’esportazione. Nei paesi slavi sino ad ora sono state rinvenute numerosissime monete di origine bizantina e, d’altra parte, una quantità enorme di oggetti di provenienza bizantina, benché di solito accuratamente registrati nella letteratura scientifica, non sono stati studiati in modo debito per la storia dei rapporti economici fra l’Impero di Costantinopoli ed il mondo slavo. Benché da qualche studioso slavo sia stata rilevata l’importanza dei ritrovamenti numismatici come fonte preziosa per lo studio della storia bizantina, i ricchi e numerosi ritrovamenti numismatici nei territori slavi non sono stati studiati per quanto riguarda la loro topografia, la quantità di monete e la loro “qualità”, né per tracciare le vie commerciali, stabilire le zone di scambi commerciali poste sui limiti politici dell’Impero bizantino o nelle zone più discoste da questi confini, come anche per scoprire il “bilancio” passivo o attivo degli scambi commerciali o per altro scopo. La maggior parte dei ritrovamenti numismatici ed archeologici che oggi si conoscono appartiene ai territori slavi più vicini all’Impero costantinopolitano, ad esempio alla Bulgaria. Non meno importanti sono i ritrovamenti archeologici e numismatici nei territori russi, che confermano le notizie di fonti scritte sul commercio bizantino-russo. Si possono menzionare inoltre i ritrovamenti numismatici ed archeologici nelle terre serbo-croate, in Cecoslovacchia ed in Polonia. Non essendo studiati in modo più dettagliato i ritrovamenti archeologici e numismatici dei detti paesi slavi, non si può per ora stabilire, sulla base di essi, se prevale l’importazione, per la quale testimoniano prevalentemente i ritrovamenti di oggetti archeologici, oppure l’esportazione, i cui risultati si vedono in grosso dai reperti numismatici, a seconda dei periodi e dei paesi slavi, né si può vedere l’equilibrio fra l’esportazione e l’importazione bizantina presso gli Slavi del Medio evo. Inutile rilevare che la natura e l’intensità degli scambi commerciali fra l’Impero ed i popoli slavi erano strettamente collegate con lo stato dei rapporti politici in genere. Io sviluppo territoriale dell’Impero bizantino nel corso dei secoli, dall’epoca giustinianea sino alla caduta sotto i Turchi nel 1453, era quasi un ininterrotto restringersi delle frontiere, accompagnato da perdita di territori fertili, necessari per il mantenimento della popolazione. limitato in un territorio ristrettissimo e costretto a ricercare, per la sua esistenza, risorse all’estero e particolarmente – dopo la conquista turca del secolo XIV – dalle terre russe, l’Impero era condannato inevitabilmente a scomparire sotto gli invasori asiatici.

autore: Ivan Dujchev

 

Bollettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano, 76 (1964) pp. 1-30.

autore del testo di Ivan Dujchev, documento pubblicato grazie alla gentile concessione del sito www.bulgaria-italia.com

Print Friendly, PDF & Email

Di Nicola

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Visitatori online

Visitatori online – 6471:
Utenti – 179
Ospiti – 5985
Bots – 307
Il numero massimo di visitatori è stato – 2022-04-21:
all visitors – 142140:
Utenti – 561
Ospiti – 140840
Bots – 739

Impero Romano d'Oriente 330-1453 la sua storia is Spam proof, with hiddy

Condividi

Condividi questo articolo tra i tuoi amici!