Bombarda Il sole aveva già cominciato a calare all’orizzonte quando Halīl, accompagnato dalle guardie personali, si diresse a cavallo alle fonderie di Edirne. Orban aveva stabilito lì il suo quartier generale fin da subito, dal suo arrivo alla capitale del regno osmano qualche mese prima. Era sorprendente il cambiamento avvenuto in quell’uomo in così breve tempo. Sebbene si servisse ancora di un interprete per le spiegazioni ai serventi, sapeva perfettamente abbaiare loro ordini in turco e dirigerli nelle operazioni di fusione. Il suo aspetto europeo e trasandato si era trasformato radicalmente in un’imitazione quasi pedante dei suoi ospiti. La sparuta barba divisa in due alla moda bizantina, che aveva esibito al suo ingresso alla sala delle udienze, era stata sostituita da un corto pizzetto a punta che scimmiottava quello portato dal Sultano. Si ostinava persino a indossare nell’ambiente di lavoro i sinuosi caftani che ormai facevano parte del suo guardaroba.

Halil vide la sagoma delle due fornaci avvicinarsi e si chiese se anche quell’operazione colossale sarebbe andata a buon fine. Certo il cannone di prova costruito nei mesi precedenti aveva servito perfettamente il suo scopo, abbattendo quella galea veneziana che aveva cercato di forzare il blocco presso la fortezza di Rumeli Hisary, ma la lunghezza della canna del pezzo di artiglieria che si intendeva costruire ora sarebbe stato lungo quaranta palmi, quasi nove metri, più del doppio del primo.

Quando Orban vide arrivare gli uomini a cavallo andò loro incontro sorridente.

«Quale grande onore avere qui il Gran Visir del Sultano! Onorevole Halil, la prego, venga a vedere come procedono i lavori per Sua Maestà.»

«Sono qui per questo» rispose seccamente il vecchio, che non amava le lusinghe dell’uomo. «Mi hanno riferito che avete terminato la preparazione degli stampi.»

«Vi hanno detto il vero, mio signore, venite da questa parte.» Con un inchino e facendo loro strada Orban condusse gli uomini oltre le grosse fornaci rivestite di carbone fino ad una profonda fossa scavata nel terreno. «Qui, mio signore, sono già stati posti gli stampi in argilla cilindro interno ed esterno. Ora quegli uomini stanno coprendo la struttura per bloccarla saldamente poiché, quando vi sarà versato il metallo fuso dentro, avrà un peso notevole e non deve correre il rischio di muoversi, deformarsi o peggio.»

Halil osservava l’alacre lavoro degli operai che gettavano nella fossa pietre, legname, terra e pezzi di ferro, mentre Orban non risparmiava loro incitamenti. L’artiere riportò infine l’attenzione sulle fornaci alle loro spalle annunciando quello che il Gran Visir aveva sperato di poter riportare al Sultano. «Mio signore» proseguì infatti l’uomo con aria soddisfatta «le fornaci sono alimentate ormai da giorni. Lo saranno anche per tutta questa notte e domani prevedo la temperatura dei forni sia al punto giusto per gettarvi dentro rame, stagno e riutilizzare quei pezzi di bronzo.» Così dicendo indicò una catasta di campane, alcune ridotte a pezzi mentre altre conservavano ancora fregi e batacchi, ammucchiate poco distante. Halīl sorrise all’amara beffa cui sarebbero andati incontro i cristiani: vinti da un’arma costruita con il bronzo delle campane delle loro stesse chiese.

«Molto bene, Maestro Fonditore» concluse il Gran Visir congedandosi «Riferirò al Nobile Sovrano lo stato di avanzamento della vostra opera e domani presenzieremo tutti alla forgiatura.»

Prese le briglie del cavallo che, ad un suo cenno, una guardia gli aveva condotto e con movimento avvezzo e agile nonostante l’età salì in groppa. Si allontanò illuminato dagli ultimi raggi del sole morente, accompagnato dalle benedizioni di Orban e suoi saluti all’indirizzo del Sultano.

L’aria di quel mattino di gennaio era gelida, e il sole illuminava pallidamente il folto gruppo di uomini diretto alle fonderie. Jacopo, medico ebreo personale di Mehmet e suo esperto cabalista, aveva consigliato al giovane Sultano di non far assistere alla forgiatura troppe persone in quanto sarebbero aumentate le possibilità di malocchio, cosa cui il metallo, quando si trovava in fusione, era estremamente sensibile. Mehmet aveva accondisceso e decretato che non più di quaranta persone, oltre al personale addetto, avrebbero potuto assistere al procedimento. Il Gran Visir Halil, insieme ai visir, muftī, sceicchi e pasha prescelti come seguito del Sultano, si avviarono per prendere posto sui sofasi sistemati per l’occasione e posti a grande distanza dalle due enormi fornaci il cui calore sprigionato ammorbava l’aria, nonostante la stagione invernale. Mehmet si accomodò sotto un elegante baldacchino in posizione di predominanza, circondato dalla sua fedele guardia giannizzera. Non appena fu seduto, Orban gli si fece rapido incontro, inchinandosi e lodando la magnificenza del sovrano. Sfoggiava un ricco abito di stoffa lucida, decorato e ingombrante, che mal di addiceva alla vicinanza delle ribollenti fonti di calore. I rivoli di sudore che ne segnavano il volto testimoniavano quanto la sua scelta fosse stata poco appropriata e Mehmet non poté fare a meno di augurarsi che le capacità tecniche dell’uomo fossero superiori al discernimento dimostrato in fatto di abbigliamento.

«O Fortuna Crescente» esordì il Maestro Fonditore «sono lieto di annunciarle che ho appena verificato il metallo di fusione e che questo ha raggiunto la giusta tonalità di rosso. Siamo dunque pronti per procedere al suo versamento nello stampo.»

«Un momento solo, Maestro Orban» lo interrupe il Sultano. Si volse verso Halīl e gli fece cenno di avvicinarsi. Il Gran Visir raccolse il grosso piatto intarsiato che teneva a fianco e lo portò davanti a Orban, porgendoglielo. Questi sgranò gli occhi stupefatto rendendosi conto che il piatto era colmo di monete d’oro e d’argento e guardò con aria interrogativa il ministro.

«Queste sono le nostre offerte in nome della Vera Fede» spiegò Mehmet «affinché l’Onnipotente Imperscrutabile benedica con il Suo favore questa opera.»

L’artiere prese in consegna il pesante e prezioso carico e, dopo un rispettoso inchino, si avviò verso i capisquadra che dirigevano le operazioni. Diversi uomini, ricoperti solo da un perizoma e da spessi manicotti di protezione agli avambracci e al volto, si affaccendavano attorno alle fornaci madidi di sudore. Alcuni azionavano ininterrottamente i mantici sul carbone acceso mentre altri, chini sul calderone ribollente, schiumavano le scorie dalla superficie mediante grosse pale metalliche. Orban diede ordine al Sovrintendente Capo di gettare nel crogiolo le monete e non appena queste scivolarono dal piatto dentro alla bocca del calderone sentì levarsi alle sue spalle un vigoroso coro di voci.

Allah! Allah! Non c’è potenza e forza se non in Allah!

L’invocazione unanime dei dignitari convenuti al seguito di Mehmet si ripeteva incessante e monotona, con l’evidente intenzione di accompagnare lo svolgimento di tutte le operazioni successive. Con degli uncini alcuni uomini aprirono la bocca delle fornaci unendosi alla medesima invocazione, nonostante una vampata di calore infernale li investisse illuminandoli di un bagliore rossastro. Una massa liquida e vischiosa prese a fluire lungo il canale di argilla che portava all’imboccatura dello stampo del cannone.

«Mescolate! Mescolate! Non devono esserci bolle d’aria nel metallo!» Orban, camminando freneticamente da un punto all’altro, abbaiava ordini alle figure sudate che, munite di lunghi pali di legno che si consumavano a vista d’occhio, cercavano di smuovere al meglio il piccolo fiume di lava incandescente. Otri di acqua venivano versati nella sabbia attorno allo stampo nel tentativo di rallentarne la velocità di raffreddamento.

Quando il metallo traboccò dallo stampo Orban gridò l’ordine di fermarsi e rimase ansimante a guardare la fossa. Il lavoro era stato completato senza incidenti e non rimaneva che aspettare. Si asciugò la fronte imperlata di sudore con la manica di quello che solo qualche ora prima era stato uno splendido caftano e finalmente si permise di sorridere.

Leggi prima parte

 

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Di Isabel Giustiniani

Blogger e narratrice. Appassionata di Storia innamorata di Bisanzio.

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