Facciamo una rapida disamina per capire fino a che punto la Sicilia subisse il dominio dei Bizantini e avesse tentato di ribellarsi nei tre secoli del loro dominio o si fosse viceversa sentita liberata dagli invasori gotici e fosse tornata a far parte di quel mondo greco-latino cui sentiva di appartenere.

L’accoglienza riservata dalle città dell’Isola alle truppe imperiali, guidate dal generale Belisario, indica chiaramente la loro lealtà all’impero, indipendentemente da quale fosse la sede di governo. Ma la vera questione è quella dell’evoluzione successiva, visto che molti studiosi hanno considerato la Sicilia come una “provincia riottosa” alla pari dell’Italia dell’VIII secolo.

In realtà dal 530 all’827 sono identificabili cinque momenti di crisi politica che è il caso di prendere rapidamente in esame. Nel 668, l’imperatore Costante II venne ucciso a Siracusa: il suo assassino proveniva dai circoli più ristretti del potere costantinopolitano e l’uccisione del sovrano giovò al comandante dell’esercito imperiale, Mezezio, di origini armene. Quindi nessun elemento permette di definire questo come un moto di ribellione partito dal popolo siciliano.

Nel 717-18, lo stratega, Sergio, convinto che Costantinopoli fosse caduta nelle mani degli Arabi, fece incoronare un suo sottoposto, Tiberio, organizzando una sorta di “impero in esilio”. Tuttavia, la sola lettura di una lettera dell’imperatore legittimo che annunciava alle truppe locali l’esito favorevole dell’assedio, bastò a porre fine all’effimero governo, con l’uccisione di Tiberio e la fuga di Sergio. Il complotto del 717 non rappresentò quindi né una rivolta del Tema di Sicilia né tendenze secessioniste nella provincia, ma piuttosto un tentativo di rimediare all’assenza della capitale.

Nel 765 il patrizio Antioco, stratega di Sicilia, venne giustiziato a Costantinopoli e le fonti iconodule associarono la sua esecuzione alla condanna a morte di Santo Stefano il Giovane. Antioco è quindi rappresentato come l’esponente di punta degli orientamenti indipendentisti della provincia, fondati sul rifiuto delle posizioni religiose iconoclaste dell’Oriente. Tuttavia, con lui muoiono, fra i tanti, anche il comandante dell’esercito di Tracia, quello degli Excubiti, uno dei corpi scelti della guarnigione di Costantinopoli e il responsabile delle poste e della ‘sicurezza interna’. L’associazione di questi personaggi è sufficiente a negare ogni dimensione locale alle eventuali mire sovversive di Antioco. Anche la presunta dimensione religiosa della rivolta andrebbe rifiutata. Come ritenere possibile, infatti, che l’imperatore avesse affidato le più alte responsabilità di governo a individui ostili alle sue posizioni in campo religioso? Lo stesso Antioco gestiva in Italia le relazioni, quantomeno burrascose, dell’impero con il papato, ragion per cui la sua fedeltà alle posizioni ufficiali dogmatiche dev’essere data per certa. Del resto, gli Excubiti ricevevano una formazione religiosa specifica allo scopo di inculcare loro l’ortodossia iconoclasta: non si può perciò supporre che proprio il loro comandante fosse stato fedele al culto delle immagini.

Nel 781 Elpidio, uno stratega coinvolto nei complotti orditi a Costantinopoli contro Costantino VI in favore dei figli di Costantino V, relegati in Sicilia da Irene, rifiutò di consegnarsi prigioniero e resistette nell’Isola prima di darsi alla fuga e rifugiarsi presso gli Arabi in Africa, dove fu incoronato re. Poi lo si ritroverà sulla frontiera orientale. Lo stratega, dunque, non prese l’iniziativa della rivolta e la sua caduta fu originata dalla sua implicazione negli intrighi costantinopolitani.

Infine, l’episodio più importante e più frequentemente chiamato in causa per giustificare l’immagine di una Sicilia assetata di libertà: la rivolta di Eufemio, il ribelle che condusse le forze aghlabite nell’Isola. Le ambizioni separatiste di Eufemio troverebbero la loro espressione nel sigillo, visto da Salinas ma disgraziatamente perduto, di un Eufimios rex. Questo pezzo fornirebbe, in effetti, una prova inconfutabile di tali aspirazioni separatiste, dato il valore attribuito al titolo di re nel mondo bizantino. Tuttavia, il sigillo resta introvabile. Al contrario, il museo di Palermo conserva davvero un sigillo del ribelle, la cui legenda è, però, del tutto bizantina e proclama Eufemio basileus ton Rhomaion, imperatore dei Romani.

Bisogna notare che proprio questo titolo era appena stato rifiutato a Carlo Magno: il sovrano franco, infatti, poteva essere pure imperatore, ma l’associazione di questo titolo con il popolo romano doveva restare appannaggio esclusivo di Costantinopoli. Adottando tale titolo, dunque, Eufemio dichiarava apertamente le sue intenzioni: marciare sulla capitale e impadronirsi del potere supremo secondo lo schema tipico delle usurpazioni bizantine. Nessun avvenimento politico permette dunque di corroborare la tesi che avvalora le aspirazioni secessioniste siciliane. È evidente, al contrario, che l’Isola non seguì per niente la Penisola nel rifiuto, più o meno esplicito, dell’autorità imperiale, rifiuto che si manifestò nel corso dei secoli VII-VIII, nella stessa fase in cui i famosi contrasti fiscali e religiosi avevano enorme importanza.

È, viceversa, proprio questa straordinaria fedeltà, unica nelle province d’Occidente, che converrebbe affrontare non solo attraverso il fattore linguistico, vista la diffusione del greco più larga che non nella Penisola, ma anche dal punto di vista, per esempio, dell’origine e della struttura dell’aristocrazia locale e della sua integrazione nelle élite imperiali; delle tradizioni amministrative proprie dell’Isola; della potenza del potere pubblico locale; e della forza, infine, dell’economia monetaria, necessaria alla sopravvivenza del modello sociale di un’aristocrazia di funzione. I presupposti della storiografia di stampo risorgimentale hanno svolto un ruolo fondamentale nell’occultare tutti questi aspetti.

Un altro motivo, caro alla storiografia post-risorgimentale, che contribuisce a delineare l’immagine di un’isola periferica e di un debole sistema di relazioni con Costantinopoli, è quello della presunta disaffezione da parte dell’impero verso i suoi possessi occidentali, nell’VIII secolo; un atteggiamento che avrebbe attribuito all’Isola la sola funzione di terra d’esilio. Questa posizione, presente nella produzione storiografica italiana, è diffusa anche fra i bizantinisti, ma appare fondata su falsi presupposti empirici: i dati di cui disponiamo, per quanto scarsi, tracciano, infatti, il quadro di una politica consapevole di rafforzamento dell’azione d’intervento in Sicilia, finalizzata a ristabilirvi l’autorità imperiale.

Cardini di questa politica erano: la modifica delle giurisdizioni ecclesiastiche, a cominciare dal trasferimento dell’autorità sull’Italia meridionale al patriarcato di Costantinopoli, la fondazione di vescovadi fortificati, una riforma monetaria che portasse alla restaurazione del titolo della moneta aurea e alla taratura del solidus siciliano su quello di Costantinopoli, il rilancio dell’esazione fiscale, la confisca dei possessi della Chiesa di Roma, lo sviluppo della flotta della Sicilia e di un esercito scelto in grado di operare lontano dalle proprie basi. Sono queste le riforme che permisero agli strateghi di sviluppare nella seconda metà del secolo audaci politiche di contrapposizione al papato e alla monarchia carolingia.

C’è un aspetto che è stato sistematicamente trascurato da parte degli storici moderni, influenzati dalla storiografia tradizionale: l’accanimento dimostrato dalla dinastia isaurica nel voler restaurare il potere bizantino in Italia, che comportò l’abbandono dell’Africa. Leone III (717-741) e i suoi successori non desideravano all’apparenza contrattaccare gli Arabi: acquista un valore simbolico, in questo senso, la decisione presa dal fondatore della dinastia di chiudere la zecca di Sardegna, che proseguiva le emissioni dell’esarcato d’Africa e che gli imperatori precedenti avevano invece, con ogni sforzo, cercato di mantenere in vita, proprio per la funzione ideologica attribuita alla moneta.

Gli Isaurici fecero dunque la scelta deliberata dell’Italia, nonostante la ricchezza certamente superiore dell’Africa, segnando così una frattura con la politica dei loro predecessori. La dimensione strategica della Sicilia, sotto Costante II (641-668) in un primo momento e poi sotto Giustiniano II (685-695), era emersa, in effetti, non in reazione alla minaccia longobarda, in verità non particolarmente temibile per l’impero, ma in risposta all’avanzata musulmana verso i granai d’Occidente. Le scelte politiche di segno opposto di Leone III e Costantino V (741-775), che utilizzarono la Sicilia come base per la riaffermazione del controllo imperiale sull’Italia, permettono di comprendere meglio il peso simbolico rappresentato dalla città di Roma.

autrice: SUSANNA VALPREDA MICELLI

Arcifa L., Per un nuovo approccio allo studio delle città siciliane nell’altomedioevo: Catania e Siracusa tra VIII e IX secolo, in Rivoluzioni silenziose. La Sicilia dalla tarda antichità al primo medioevo, Edizioni del Prisma, Catania, 2016, pp. 415-439

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Di Nicola

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