Seconda parte: differenze linguistiche fra l’area orientale e quella occidentale

Nel tardo impero incontriamo a Siracusa e a Catania, ma soprattutto a Palermo e a Lilibeo numerose dediche e iscrizioni che ricordano un frequente uso dell’evergetismo monumentale, quando gli interventi finanziari di alcuni governatori di Sicilia, di nascita romana, si sostituirono alla generosità di proconsoli o questori di origine locale. È interessante osservare, ancora nell’avanzato IV secolo, l’ostinato persistere dell’uso tradizionale del greco, nella maggior parte delle iscrizioni celebrative dedicate a questi governatori-filantropi a cura delle amministrazioni cittadine e quindi con carattere di ufficialità.

Esso sembra esprimere una duratura e ostentata identità siceliota, cioè dei Greci stabilitisi in Sicilia, forse nella consapevolezza dell’isolamento di fatto che separava le strutture cittadine locali da quelle dell’amministrazione provinciale romana, che pur s’intendeva onorare. Il fenomeno appare ancora più particolare se si osserva come queste iscrizioni onorarie ufficiali in greco si colleghino con centri della Sicilia già avviati a una latinizzazione linguistica avanzante.

Senza dubbio la Sicilia era sempre rimasta un’area di lingua mista e alla fine dell’Impero romano per alcuni studiosi il greco era la lingua usuale nella gran parte dell’Isola e resistette soprattutto nelle campagne, si rinforzò nell’epoca bizantina, superò la conquista araba e giunse al periodo normanno-svevo, quando, per influenza diretta della parlata romanza francofona dei nuovi conquistatori, si formò il dialetto siciliano.

Di contro, altri studiosi valorizzano il graduale infittirsi delle testimonianze in lingua latina dalla metà del V secolo in avanti nelle scarne iscrizioni dei ceti più bassi e quindi una progressiva affermazione del latino come lingua parlata, fondamentale base per il dialetto siciliano romanzo. Perfino alcuni storici che hanno largamente insistito sulla persistenza della lingua greca nella Sicilia orientale e soprattutto a Siracusa, rilevando la larghissima prevalenza delle iscrizioni greche rispetto a quelle latine, hanno dovuto riconoscere che tra il VI e l’XI secolo, il popolo della Sicilia percorreva una strada che lentamente lo portava verso il latino.

Prendendo poi in considerazione il fenomeno delle villae realizzate nel III-IV secolo e dei loro proprietari, aristocratici romani e il fatto che l’Isola, almeno nella parte occidentale, era il tramite privilegiato di passaggio fra l’Italia e l’Africa, si deve ammettere che avvenne una profonda penetrazione della cultura romana in quel territorio e quindi una vasta latinizzazione, continuata poi dall’incidenza dei possedimenti ecclesiastici e dall’opera capillare di cristianizzazione delle campagne, dove paganesimo e sincretismo religioso a carattere popolare continuavano a persistere.

Il fenomeno dell’aumento delle epigrafi in lingua latina nel V-VI secolo sarebbe da ricondurre al nuovo modo di conduzione dei terreni, grandi proprietà imperiali, senatorie ed ecclesiastiche e all’influsso della diffusione del cristianesimo. Studi più recenti, però pongono l’accento sulla permanenza a lungo, nelle campagne, di larghe fasce della popolazione che continuavano a scrivere in greco e altresì la presenza, specie nella parte ionica, d’influssi e tradizioni orientali persistenti a vari livelli, ma più radicati nei ceti bassi.

Nel precedente articolo che ho dedicato alla lingua di uso prevalente nella Sicilia bizantina, ho posto l’accento sul fatto che buona parte degli epitaffi funerari, specie quelli della Sicilia orientale, fosse in greco; le iscrizioni dedicate agli imperatori furono incise in latino, mentre in latino e in greco vennero scritte quelle in onore dei governatori. Del latino si servirono generalmente le colonie, soprattutto quelle dell’area occidentale, come Lilibeo, e le città con minore tradizione epigrafica.

Si evidenzia, quindi, una distinzione piuttosto netta fra l’area orientale della Sicilia, originariamente colonizzata dai Greci, dove c’è una maggior persistenza del greco, anche nei periodi storici successivi e l’area occidentale: qui tutti i centri del triangolo Termini-Lilibeo-Palermo, il cosiddetto “triangolo punico”, colonizzato dai fenici, rivelano una forte preponderanza dell’uso del latino nelle epigrafi, che indica, se non una pari prevalenza del latino parlato, certamente una sua maggiore diffusione e una sua evidente dominanza come modello culturale.

Dalle iscrizioni sopravvissute è evidente che queste città sono state nettamente meno ellenizzate rispetto a quelle della costa orientale. Dall’Epistolario gregoriano emerge un più stabile impianto della nobilitas romana nella parte occidentale dell’Isola e la prevalenza di una borghesia commerciale, di espressione greca, a Siracusa e nell’area ionica. Un ambiente chiaramente latino è quello che viene fuori anche dalle lettere di Gregorio Magno dirette a personaggi lilibetani. Il greco, però, non scomparve né nelle città né nelle campagne. Probabilmente della metà del V secolo è il pavimento di San Miceli con l’epigrafe greca di Κοβουλδευς. Qui l’uso del greco, ma con la traslitterazione di nomi latini come Maxima e lo stesso Quodvultdeus potrebbe anche essere sfoggio di eleganza e cultura da parte di una ricca committenza in realtà latina.

Si giunge quindi alla metà circa del VII secolo come punto d’approdo, quando la presenza a Siracusa dell’imperatore Costante II, da costui pensata come tutt’altro che provvisoria, venne a consacrare la compiutezza di una bizantinizzazione ormai radicata in profondità; e agli inizi dell’VIII secolo quando il decreto di Leone III Isaurico sancì la confisca delle proprietà terriere della Chiesa romana in Sicilia e Calabria e la sottomissione delle loro chiese al Patriarcato di Costantinopoli. Ma non sono affatto i decreti degli imperatori greci che hanno introdotto in queste chiese la lingua e la liturgia bizantine. vescovi greci di Calabria e di Sicilia ottengono, di fatto, quella autonomia che doveva soddisfare tutti i loro desideri e il distacco da Roma delle loro diocesi si compì senza suscitare alcuna opposizione da parte delle popolazioni.

La stessa Chiesa di Roma appare profondamente grecizzata nelle forme del culto, nella spiritualità, nella prosopografia dei suoi vertici istituzionali: è, infatti, noto come in meno di 130 anni ben tredici su ventidue furono i pontefici provenienti da aree di cultura greco-bizantina. Anzi, negli anni fra il 678 e il 777, ben cinque furono i Papi siciliani. Essi non furono scelti casualmente né furono imposti dall’imperatore di Bisanzio, bensì volutamente eletti dal clero romano in un momento in cui la Chiesa cristiana era continuamente travagliata dalle correnti ereticali.

Infine va fatta un’altra distinzione. Se il primo approdo del cristianesimo nella Sicilia orientale è stato Siracusa e le regioni del Mediterraneo orientale sono state il punto di partenza degli immigrati che hanno portato qui la nuova fede, il punto di arrivo della nuova religione nell’area occidentale dell’Isola potrebbe essere stato Lilibeo e l’Africa del nord è stata certamente uno dei principali centri d’irradiamento della nuova fede verso la Sicilia occidentale.

AUTRICE: SUSANNA VALPREDA MICELLI

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Di Nicola

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