Nel cerimoniale della corte di Bisanzio i banchetti ufficiali ebbero sempre un posto di rilievo. Siamo bene informati in proposito perché si conserva ancora un trattato sull’argomento scritto nell’899, al tempo dell’imperatore Leone VI (886-912). Si tratta del Kletorologion di Filoteo, un’opera appartenente al genere letterario dei Taktikà, cioè degli scritti relativi alla taxis, l’ordine di precedenza dei dignitari palatini. I Taktikà kletorològia, in particolare, riguardavano l’ordine da rispettare nei banchetti di corte, che erano detti kletòria. L’autore, Filoteo, era un atriklines, ossia un funzionario addetto all’organizzazione di queste particolari cerimonie imperiali. Scrisse l’opera su invito di amici non precisati, evidentemente dei colleghi, per fornire in proposito un manuale chiaro e preciso. Il Kletorologion ebbe successo e venne confermato da un decreto imperiale che conferì a questo forza di legge.
Per noi moderni si tratta di un’opera di notevole importanza, in quanto contiene un elenco completo delle “dignità” (axiai) allora esistenti alla corte di Bisanzio, termine con cui si indicavano sia i titoli di nobiltà che le cariche pubbliche, un’ assimilazione che per noi avrebbe poco senso, ma che lo aveva per i Bizantini per cui, in un regime assolutistico, tutto preveniva dall’imperatore. Le prime erano diciotto e le altre facevano capo a sessanta capi servizio, con alle dipendenze un ufficio amministrativo di cui è indicata la composizione. A questa lista di dignità, detta dei «barbuti», si aggiungeva poi una gerarchia particolare degli eunuchi, che prevedeva otto gradi di nobiltà e nove funzioni pubbliche con altri subordinati. L’atriklines aveva il compito non facile di chiamare una per una le persone invitate ai banchetti rispettando l’ordine di precedenza. Doveva perciò conoscere tutti i titoli esistenti e l’esatta collocazione di questi nella gerarchia. Il sistema delle precedenze era infatti tenuto in grande considerazione a Bisanzio fin dall’età più antica. Al rango si connettevano particolari privilegi e una diversa disposizione nelle cerimonie. A seconda del rispettivo grado, infatti, i sudditi prendevano posto a tavola, stavano in piedi o erano introdotti alla presenza del sovrano: «Tutta l’importanza che si ha nella vita e la dignità connessa ai titoli» scrive Filoteo «non si manifestano agli spettatori in altre occasioni al di fuori della chiamata secondo l’ordine di precedenza alla tavola splendida e ai pranzi organizzati dai nostri sapientissimi imperatori». Se, aggiungeva, «per una nostra disattenzione si verificassero errori o confusione, non solo sarebbe rovinato il valore dei titoli, ma gli stessi atriklinai ne uscirebbero ridicolizzati». 
Alla corte di Bisanzio, che si riteneva copia di quella celeste, tutto doveva infatti muoversi con ordine a imitazione di quella, per poter offrire ai sudditi un’immagine di perfezione. L’imperatore «scelto da Dio» imitava così il suo signore celeste. L’atriklines aveva di conseguenza una grande responsabilità e gli si chiedeva una solida preparazione per poter svolgere le sue funzioni. Egli si collocava all’ingresso delle sale in cui si tenevano i «sacri banchetti imperiali», chiamava le persone secondo i rispettivi titoli e indicava il posto che spettava loro con un gesto della mano destra. Filoteo, per dare un’idea chiara della gerarchia, redasse perciò l’elenco completo, diviso per classi, di tutte le dignità fino alle più basse, divise secondo l’ordine di precedenza per la chiamata nelle sale dei banchetti.
I banchetti si tenevano regolarmente dopo la celebrazione delle feste religiose o civili e avevano luogo per lo più nel Palazzo imperiale. La maggior parte era allestita nel Triklinos (la sala) dei «Diciannove letti» così chiamato per i diciannove letti su cui gli inviati si sdraiavano alla maniera romana. Era composto da due sale comunicanti di cui la seconda, più grande, serviva per queste cerimonie. La tavola imperiale, rotonda e leggermente sopraelevata, era probabilmente disposta in un’abside. II sovrano vi prendeva posto assieme a dodici «amici», che attorniavano l’imperatore «eletto da Dio» come gli apostoli il Cristo. Si riteneva infatti a Bisanzio che dovesse esistere un parallelismo simbolico fra la corte terrestre e la corte celeste. Le altre tavole erano collocate in due file parallele di nove e attorno a ognuna prendevano posto dodici persone. La capacità normale della sala era dunque di duecentoventinove commensali, ma il numero dei presenti poteva aumentare o diminuire a seconda delle circostanze.
Ai «Diciannove letti» avevano luogo tra l’altro undici dei dodici banchetti offerti tra Natale e l’Epifania. Il giorno di Natale, per esempio, il sovrano si recava in processione a Santa Sofia e, al ritorno, ospitava duecentoventotto persone in questa sala: alla tavola imperiale prendevano posto i cortigiani e due ambasciatori bulgari mentre nelle altre si ripartivano vari funzionari e dignitari di vario titolo nonché prigionieri arabi, persone del seguito dei bulgari e poveri di Costantinopoli. L’atriklines introduceva i dodici «amici» che si sdraiavano con il sovrano e, quindi, gli altri invitati disponendoli nei posti prescritti. A tal fine saliva sullo stretto passaggio che si trovava dietro ai letti, a un livello più alto di quello della sala, contando dodici persone per ogni mensa. Ci si poteva però disporre a tavola soltanto allorché gli araldi annunciavano il momento. Il banchetto era interrotto di quando in quando da obblighi cerimoniali e i presenti si dovevano alzare per acclamare i sovrani. «Così si deve fare» scrive ancora Filoteo «ogni volta che si ode il canto accompagnato dalla musica o viene eseguito un qualsiasi gioco per il diletto dei presenti o un alimento qualsiasi è inviato dalla tavola imperale ai convitati».

Filoteo ricorda le altre feste dell’ anno in cui si svolgevano banchetti solenni, ma non fa riferimento ai cibi che venivano serviti se non, occasionalmente, al piatto delle carni arrosto e al dolce. Qualche informazione in più ci viene però dagli scritti del vescovo di Cremona, Liutprando, che in diverse occasioni fu ospite degli imperatori di Costantinopoli. Liutprando nel 949 si recò una prima volta nella capitale orientale come ambasciatore di Berengario II presso Costantino VII (913-959). Venne ricevuto solennemente a Palazzo nella sala della Magnaura, il cui nome veniva probabilmente dal latino Magna Aula, e qualche giorno dopo fu ospite del sovrano in un banchetto solenne ai «Diciannove letti». Era già rimasto meravigliato dall’accoglienza riservatagli e dal cerimoniale che aveva visto e il banchetto solenne aumentò la sua meraviglia. Lo colpirono in particolare l’usanza di mangiare sdraiati, il vasellame d’oro, gli spettacoli acrobatici per il diletto dei presenti e, infine, il modo con cui la frutta venne portata a tavola. Furono usati tre vasi d’oro, pesantissimi, disposti su carrelli coperti di porpora, e due di questi vasi vennero sollevati con funi fissate ai manici. «Con l’aiuto di quattro e più uomini», osserva il vescovo, «furono sollevati sulla mensa per mezzo di un argano collocato sopra il soffitto e allo stesso modo vennero deposti sulla mensa».
Liutprando tornò a Bisanzio nel 968, questa volta come inviato dell’imperatore Ottone I, a chiedere in sposa per Ottone II la nipote di Costantino VII. Era allora sovrano di Bisanzio Niceforo II Foca (963-969), che regnava come tutore dei due imperatori legittimi in giovane età. La richiesta occidentale andò incontro a un rifiuto e, dopo circa quattro mesi di difficili trattative e, a suo dire, di sgradevole trattamento, Liutprando tornò in patria senza avere concluso alcunché. Si era in un momento di contrasto fra i due imperi e l’inviato di Ottone I fu probabilmente sospettato di essere una spia, quindi tenuto sotto stretta sorveglianza. Si sfogò in seguito scrivendo al suo imperatore una relazione in cui la corte di Bisanzio è dipinta non più con l’entusiasmo della visita precedente ma al contrario in toni caricaturali. Questa volta Liutprando aveva trovato tutto sgradevole e, in particolare, i banchetti e i cibi che venivano serviti. In primo luogo gli parve imbevibile il vino «miscelato con pece resina e gesso»; poi fu particolarmente infastidito dal banchetto solenne al quale partecipò nel giorno della Pentecoste. Ebbe da ridire per una questione di precedenze, essendo stato collocato al quindicesimo posto sebbene ambasciatore imperiale, e si lamentò di una cena «turpe e stomachevole, secondo le usanze degli ubriachi, unta d’olio e aspersa di un certo pessimo liquido di pesci». E ancora, in un’altra occasione, abbandonò la mensa per essere stato posposto all’ambasciatore dei bulgari. Gli fu spiegato che i bulgari avevano la precedenza per motivi protocollari, ma la cosa non pare averlo convinto. Trovò sgradevole anche il fatto che Niceforo Foca gli avesse inviato dalla sua tavola uno dei cibi più raffinati «un grasso capretto, di cui egli stesso aveva gustato, lautamente farcito di aglio, cipolla e porri, irrorato di salsa di pesci marinati».
Il «pessimo liquido di pesci» che disgustò Liutprando durante i pranzi a Bisanzio era il garum, uno dei condimenti più apprezzati e ricercati del mondo romano, che in Oriente ebbe una straordinaria fortuna per tutto il medioevo e anche oltre. I romani avevano imparato ad apprezzare questa salsa, conosciuta in Grecia fin dal V secolo a. C., dalle colonie greche occidentali e in età imperiale sorsero presso lo stretto di Gibilterra parecchi impianti per la sua produzione. II garum era ottenuto dalla fermentazione del pesce (aringhe, alici, sarde, pezzi di sgombri e tonni) unito a erbe aromatiche e sale (in quantità pari alla metà del pesce) in modo da impedirne la putrefazione. Una volta fermentato, l’impasto era pressato e filtrato: il liquido così prodotto (il garum appunto) raggiungeva ogni angolo dell’impero, chiuso ermeticamente in anforette di terracotta; la feccia, invece, veniva usata per «tagliare» la successiva produzione. Questa salsa, per noi moderni quanto meno discutibile, aveva un sapore acre ed emanava un forte odore di pesce; eppure era ricercatissima su tutti i mercati per insaporire non solo il pesce ma anche la carne. Come accade oggi per i nostri oli vergini ed extravergini, poi, si distinguevano varie qualità di garum e Plinio ricorda che quello più puro poteva costare quanto i profumi più pregiati. Lo stesso Plinio ne evidenzia le qualità terapeutiche, quale calmante e antinfiammatorio. Dopo la caduta dell’impero d’Occidente, Bisanzio non smise di apprezzare il garum e la sua produzione continuò in Oriente, in appositi stabilimenti sulle coste del mar di Marmara. Di là si sarebbe di tanto in tanto affacciato in Occidente, al punto che ancora nel XVI secolo sembra che se ne potesse gustare di finissimo presso il vescovo di Montpellier.
Liutprando fu più volte a contatto degli imperatori, senza trovare mai la cosa di suo gradimento, e dovette sopportare, tra l’altro, le occasionali polemiche e le ironie dei «greci», come gli occidentali chiamavano con disprezzo i bizantini. Ai dispiaceri politici non fu certamente di conforto la buona tavola. L’usanza, di tagliare il vino con pece, gesso o resina per conservarlo e renderlo più aromatico è attestata fin dall’antichità. Il risultato, tuttavia, doveva essere assai sgradevole per un palato occidentale, né più né meno come può essere oggi il vino resinato che si beve in Grecia. Alla cucina saporita e abbondantemente aspersa di olio, poi, si accompagnava un ampio uso del «pessimo liquido di pesci», che altro non faceva a suo giudizio che peggiorare la qualità del cibo.
Accanto a queste informazioni sulla tavola imperiale c’è rimasta una significativa testimonianza relativa a un monastero di Costantinopoli, che fornisce un quadro più dettagliato sulle usanze alimentari dell’Oriente romano. Si deve a Teodoro Prodromo, un turbolento poeta del XII secolo, autore di una satira contro due igumeni del monastero di Philotheos, sulla riva europea del Bosforo. Il monaco Ilarione, in cui si è voluto vedere lo stesso autore, si rivolge con una supplica in versi all’imperatore Manuele Comneno (1143-1180) lamentandosi per quanto accadeva a Philotheos. L’ambiente, a suo dire, non era gran cosa poiché i due superiori si concedevano ogni lusso senza curarsi dei monaci poveri, tra cui il nostro Ilarione. Venivano compiute ingiustizie di tutti i generi, al di fuori delle più elementari norme monastiche, che riproponevano nel chiostro le differenze sociali esistenti all’esterno. Tra l’altro i due igumeni, che erano poi padre e figlio, si abbandonavano ai piaceri della tavola facendo patire la fame ai monaci poveri.
Ilarione descrive i loro eccessi gastronomici fin nei minimi particolari. Il pranzo, a base di pesce, comprendeva sei portate. Veniva servito dapprima il pesce bollito: un rombo dalle dimensioni di un tordo. Seguivano quindi una salsa di merluzzo e, come terza portata, un piatto di pesci rossi, all’agrodolce, aromatizzati con nardo indiano, nardo celtico, chiodi di garofano, cannella, funghi, aceto e miele «estratto da un alveare non ancora affumicato». In mezzo al piatto facevano bella mostra di sé una triglia enorme, un cefalo con uova lungo tre spanne e un ciprino dorato. Come quarta portata arrivava un piatto di arrosto, seguito dalla quinta, consistente in un fritto misto di triglie baffute, aterine, una limanda con garum e insaporita con carvi e latte di lupo di mare. Come sorta di digestivo era infine portato il piatto forte, uno stufato che il nostro poeta chiama monòkythron e del quale fornisce la ricetta. Si mettevano in pentola quattro cuori di cavolo, una testa di pesce spada salato, la parte scelta di una carpa, pesci «glauchi» (sarde?), carne affumicata di «berzìtikon» (pesce affumicato del Don), quattordici uova, formaggio cretese, quattro formaggi freschi, un po’ di formaggio valacco, olio di prima scelta in quantità, un pugno di pepe, dodici teste d’aglio, quindici sgombri secchi, il tutto abbondantemente irrorato di vino dolce. Il piatto era servito ancora fumante dopo il copioso pasto, che, naturalmente, era stato accompagnato da una ricca scelta di vini.
Mercoledì e venerdì, però, gli abati facevano astinenza a modo loro e rinunciavano a una dieta così ricca per ripiegare su stuzzichini e leccornie in quantità accompagnate da vino dolce. Ilarione assisteva ai pranzi con i confratelli e sognava talvolta di potersi gettare sulla marmitta in cui veniva cotto lo stufato. Ma il suo cibo, come per gli altri monaci poveri, variava dalle fave messe a mollo in acqua al «brodo santo». Quest’ultimo era presto fatto: si riempiva d’acqua una marmitta portandola a ebollizione e vi si gettavano venti cipolle. Il cuoco aggiungeva poi alcune gocce d’olio e qualche pezzo di santoreggia per dare profumo. Il «brodo santo» o «verderarame», come lo chiamavano i monaci con un gioco di parole, era poi versato sul pane formava l’alimento essenziale della loro dieta.

immagine da: http://blogs.getty.edu/iris/what-did-byzantine-food-taste-like/

autore: GIORGIO RAVEGNANI

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Di Nicola

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