JustinianII6

L’idea di questo breve scritto nasce da alcuni famosi passi di Andrea Agnello. L’edizione comunemente utilizzata è Agnelli Liber pontificalis ecclesiae Ravennatis , a cura di O. Holder-Egger in Monumenta Germaniae Historica. Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum. Saec. VI – IX , Hannoverae 1878, pp. 275-397, anche se ne esistono traduzioni in numerose lingue occidentali (i passi sono i 137-42). L’esilio di Giustiniano è descritto in Theophanis, Chronographia , a cura di J. Class, in Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae 6-7, Bonnae 1883 e Nicephori Patriarchae, Breviarum Historicum , a cura di C. Mango, in Corpus Fontium Historiae Byzantinae 13, Washingtonae D.C. 1990. La vicenda è trattata in svariate sintesi nelle cui, comprensibilmente i ricchi particolari letterari forniti da Agnello sono normalmente trascurati. Un contributo quasi recente da cui è possibile recuperare la precedente bibliografia è T. S. Brown, Justinian II and Ravenna in «Bizantinoslavica», 56 (1995), pp. 29-36. Per quanto riguarda i brevi excursus geografici a cui mi sono lasciato andare si vedano F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II , I-II, Torino 19863, [trad. dal franc. La Mediterranée et le Monde méditerranéen à l’époque de Philippe II , Paris 1949], in particolare il primo volume e A. Philippson, Das Byzantinischen Reich als geografische Erscheinung , Leiden 1939.

A cosa pensava il dux Giorgio in un’alba imprecisata di inizio VIII secolo?

Di fronte a lui l’exercitus dei Ravennati in armi lo fissava turbato, in seconda fila il popolo inorridito, il clero, le donne e bambini, sullo sfondo le mura dell’antica città romana e il mare. Giorgio, che sappiamo essere traboccante di ogni grazia, virtuoso nel palare e risoluto nelle azioni, arringava dal suo cavallo la popolazione della città imperiale dopo che sinistre notizie erano giunte da Costantinopoli. Marinai trafelati che avevano veleggiato fino alle foci dell’Eridano avevano parlato a lungo con i soldati che pattugliavano il litorale mentre la notte fredda e umida finiva e le impronunciabili novità si erano diffuse come un morbo, sussurrate segretamente nelle prime ore del giorno.
Di certo allora la mente di Giorgio si sarà librata dalle nebbiose pianure della Romània per discendere l’Adriatico seguendo la rotta dei Siriani e dei Greci, superando a volo d’uccello l’arcipelago dalmata dove le piccole comunità imperiali, ritagliate tra il mare e le mura cittadine, combattevano quotidianamente gli Slavi che calavano dai passi innevati dalle Alpi Dianariche. I pensieri di Giorgio avranno poi superato l’antica Dyrrachion, patria dell’imperatore Anastasio
e porta della Via Egnazia, dove l’Oriente si bagnava nell’Adriatico, e saranno scesi fino alla rocca di Monemvasia, da cui passavano tutte le epidemie che dall’Africa o l’Asia centrale andavano ad infuriare nel Mediterraneo occidentale, risalendo lungo l’Egeo, l’alto sentire del duca Giorgio, avrà sorvolato le fortezze di Corinto e Atene, fantasmi dell’antica gloria e ora piccoli castelli in cui soldati nervosi si aggiravano tra i frammenti muti di Fidia o Policleto. Dall’Egeo, la mente di Giorgio proseguì per certo verso Nord imboccando i tempestosi stretti che portavano a Costantinopoli e in cui solo i navigatori più esperti potevano accedere, lì, nel grigio-azzurro della foschia densa e gelida, maturarono le leggende di Giasone e degli Argonauti. Calando sulle cupole d’oro della Miklagard dei Rhos, in cui si riverberava il rosso struggente del sole al tramonto, la mente dell’inquieto duca si sarebbe infine riposata dal lungo viaggio: lì tra tortuosi corridoi e giardini pensili, tra giochi d’acqua e passaggi segreti, fra colossali aule e selve di colonne degne del Vathek di Beckford, pulsava il cuore della basileia, lì assiso su un trono d’oro il Kosmokrator attendeva, lì si trovava l’essenza di tutto ciò che a Giorgio non piaceva.
Giorgio paragonava l’impero a un serpente marino che sorgeva dal Mar Nero e che aveva intossicato gli uomini di Ravenna con il veleno che sgorgava copioso dalle sue fauci. La situazione non potrà che stupirci sappiamo che l’Italia dal 568 d.C. (o a detta di alcuni il 569) era divisa tra Pavia, sede dei sovrani longobardi, e Costantinopoli, ma Ravenna era la capitale delle province italiane e quindi viene da chiedersi perché il duca, nel consenso generale, maltrattasse a questo punto l’imperatore che, a detta di tutti, era il vicario di Dio e l’unico vero sovrano legittimo dell’universo.
A ben vedere però alcune ragioni ci dovevano essere. Intanto il signore di Costantinopoli non si presentava bene, non sappiamo molto del suo aspetto e le immagini che abbiamo sono assai stereotipiche: Giustiniano II come i suoi predecessori dai tempi di Foca e i suoi successori ci guarda sconvolto con gli occhi sconvolti dei denutriti, dei fantasmi o degli eroinomani, schiacciato dal peso della corona e tirato a terra da una barba puntuta che ricorda quella di Rasputin. Imprigionato nel supporto metallico in cui sopravvive, maneggiato per secoli da mani assai più vili delle sue, Giustiniano si era guardato bene dal farsi raffigurare con la sua caratteristica più eclatante. Come Cesare e Dannunzio amavano farsi ritrarre con i capelli così Giustiniano, comprensibilmente, chiedeva sempre che i terrorizzati artisti che lo ritraevano gli disegnassero anche il naso. Giustiniano quindi non aveva il naso, le sue immagini sulle monete sì, ma lui no. Se anche la cosa non avesse offeso il raffinato gusto estetico dei Ravennati, abituati fin dall’infanzia ai bei mosaici di Sant’Apollinare, offendeva di certo la sensibilità di Giustiniano che con il naso era nato e che si era ridotto come Micheal Jackson per volontà altrui. Perché? Già il nome che il giovanotto si era scelto per regnare indicava alcuni tratti deboli della sua personalità. Giustiniano, il primo, era infatti l’imperatore della grande conquista a scapito dei barbari, delle chiese più alte, delle leggi e della moglie più bella, e indicava certo una concezione altissima della propria dignità, un ego smisurato e verosimilmente una tendenza alla logorrea. Anche oggi Giustiniano è l’imperatore bizantino più famoso che ci sia. Quando qualcuno vuole andare controcorrente ricorda magari Alessio Comneno, ma l’equazione Bisanzio-Giustiniano é una di quelle equazioni base che costituiscono i pilastri della nostra cultura tipo Macchiavelli-Guicciardini o Senofonte-thalatta, thalatta.
Dunque, con un nome del genere, l’imperatore, anche se pieno di buoni propositi, gli stessi che compongono, mattone per mattone, la via per l’inferno, si era attirato numerosi nemici i quali avrebbero preferito volentieri un altro imperatore. Inutile discuterne pacificamente e se ammazzare un sovrano era troppo per brava gente cristiana, vi era un antica teoria che proveniva dall’Iran, secondo la quale un uomo per regnare doveva avere tutti i pezzi. Da qui il taglio del naso. Senza naso, depresso e contuso Giustiniano venne esiliato a Cherson, il limite settentrionale del Mar Nero. Un posto orribile, freddo e noioso, dove barbari provenienti dagli sconfinati orizzonti della steppa dell’Asia commerciavano in cera e pelli pregiate. Ai Romani piaceva esiliare la gente lì. Era un po’ come la Siberia dei Russi. Ovidio ci era stato mandato da Augusto e papa Martino da Costante II. Il problema era però cosa fare. Ovidio aveva la poesia, Martino la teologia, ma Giustiniano aveva solo un naso gocciolante che in un clima così freddo e umido doveva essere un vero incubo. Pensò quindi alla fuga. Ottenne una moglie khazara dal re di questo popolo (e solo per questo meriterebbe il nostro rispetto) e iniziò una serie di rocambolesche avventure che lo portarono tra climi ostili e gente inospitale. Tutti lo trattavano da pezzente e se ai nostri giorni la gente, raggelata dall’imbarazzo, guarderebbe ovunque pur di non puntare il naso mancante, all’epoca tutti gli fissavano interessati l’orribile mutilazione, gente per strada lo indicava stupita, i bambini lo chiamavano Giustiniano faccia d’ano e il tutto mentre la moglie non capiva una parola di quello che dicesse e non era in grado di cucinare nulla di quello che aveva amato a Costantinopoli, ma solo piccoli roditori frollati sotto la sella del cavallo e latte cagliato.
Capiamo bene quindi quanto Giustiniano potesse essere arrabbiato. Alla fine però il Byzantine dream ebbe la meglio e Giustiniano fu imperatore per la seconda volta. Che le difficoltà, come per alcuni simpatici ex-pugili, che vediamo gettare mangime agli uccelli o dipingere orribili acquerelli a Venezia o Firenze, l’avessero reso più buono? Assolutamente no, appena salì al potere un agghiacciante serie di epurazioni, omicidi pestaggi si scatenò per le mondane vie di Costantinopoli. Feroci Bulgari e Khazari picchiavano selvaggiamente anziani senatori, rompevano il collo a prestigiosi generali, ruttavano a teatro, mangiavano i cani dei ricchi, bruciavano libri e stoffe pregiate e finivano tutto il vino della città.
Se fin qui seguiamo la vicenda, resta il nostro dubbio di partenza sul perché mai Giorgio fosse così arrabbiato? Viveva distante e i sui problemi erano altri, ma il fatto era che alcuni cittadini di Ravenna a Costantinopoli per commercio o turismo avevano preso parte alla mutilazione dell’imperatore che forse, mentre veniva percosso tra le statue degli avi e cercava rifugio nel mausoleo dei Cesari, tra i marmi verdi e rossi nella fioca luce delle candele, avrà sentito l’accento della città italiana tra le varie parlate dei suoi carnefici. Per quante notti sotto il cielo infinito delle steppe l’ex-imperatore avrà ricordato quelle parole, nella gelida indifferenze delle moltissime stelle? (mai ne aveva viste così tante a Costantinopoli). Quanto si sarà rigirato tra le sue maleodoranti coperte, mentre la khazara russava? Quante gastriti per quell’accento che man mano gli diveniva sempre più insopportabile? Una sorta di incubo che nella sua mente disturbata assumeva proporzioni titaniche, una sorta di precaria architettura fonetica che si ergeva ad altezze di paralizzante, inossidabile, grandezza. I suoni si confondevano e l’accento mutava e voci nella sue mente iniziarono a confidarsi con lui in quella parlata che, man mano, si allontanava da qualunque riscontro reale. Quante volte avrà maledetto i suoi fantasmi, imitandone goffamente l’accento? Quante volte avrà ripetuto, contando compulsivamente i granelli di sabbia, le stesse cose ai suoi annoiatissimi compagni di viaggi?
Ecco tutto.

Da basi del genere difficilmente le vocine del suo cervello potevano zittirsi una volta tornato ad avere vestiti decenti, vini pregiati, un letto caldo, tutti che gli dicevano di sì e che poteva fare come gli pareva, dato che tutto era suo. Inviò quindi una nave a Ravenna piena di gente cattivissima dicendo però allo strategos che la comandava di fingersi amico dei locali, mangiare ciò che gli offrivano, dire che tutto era bello e baciare i bambini, ma di portare nel cuore la più tremenda delle vendette. L’uomo di nome Teodoro (che in Italia è come chiamarsi Mario Rossi o Luigi LaPizza), forse il governatore di Sicilia, salpò dall’isola e attraversando i campi ancora immersi nel sonno giunse a Ravenna. Con una nave orientale provenivano apprezzati gossip sulla famiglia regnate, lettere di chi era partito da Ravenna in cerca di fortuna e una mefitica salsa di pesce (una sorta di pasta d’acciughe scaduta) adorata in città, ma che i Longobardi, gente meno complessa, trovavano rivoltante.
La popolazione andò incontro alla delegazione imperiale che aveva architettato un diabolico piano. I soldati siciliani avevano piantato una tenda sgargiante nei pressi del Po e lì avevano invitato gli uomini più in vista della città con promesse di onori e guadagno. Va da sé che tutti si precipitarono. Chi voleva diventare magister militum, chi console e perché no, arcivescovo. Fingendosi simpatici e bonari i bizantini ricevevano uno a uno i Ravennati: prima parlavano loro un po’ del tempo, offrivano un cordiale, raccontavano delle corse di carri a Costantinopoli, chiedevano di famiglia, raccolto e di quanto fossero cattivi i Longobardi, ma poi davano al mal capitato una botta in testa, lo legavano come Houdini e lo gettavano nella stiva della nave. Mi chiedo cosa dicessero gli altri che aspettavano in fila e vedevano la gente entrare, ma non uscire dalla tenda, ma sono domande che, ahimè, la storia lascerà irrisolta. Fatte provviste, i bizantini se ne tornarono a Costantinopoli. Lì Giustiniano II si scatenò sui malcapitati che subirono morti atroci. Tra questi c’era un certo Gioannico, personaggio in vista ed elegante intellettuale. L’imperatore, come Polpot, aveva in particolare odio gli uomini di cultura e il povero Gioannicio venne schiacciato tra due lastre di pietra enormi. Pensate che scempio, l’uomo più intelligente di Ravenna, che sapeva veramente tutto ucciso così barbaramente. E poi Gioannicio era il padre di Giorgio.
Ora si spiega.
Vendetta quindi. Quanti ricordi per il povero Giorgio. Il padre la cui cultura e il greco spedito avevano suscitato la gioia commossa di esarchi e imperatori era caduto vittima di un volgare regolamento di conti e da qui allora il discorso vibrante di Giorgio che da ravennate e figlio sofferente, da soldato umiliato e suddito deluso chiamava i concittadini alla lotta. Fu un discorso memorabile. Giorgio non dimenticò nessuno, dai giovani bellicosi romagnoli agli alleati che calavano dall’Appennino. Ricordo l’uso delle armi e delle preghiere. I bizantini erano infidi greci e traditori, la morte era ciò che li aspettava. Le sue parole ricercate, ma comprensibili planarono con delicatezza su tutti i tasti dell’emozione, citò le azioni di Alessandro e Pompeo, il tradimento di Arminio, il martirio della povera Anastasia e i pensieri del beato Gregorio, elaborò un pensiero, che Giorgio non poteva definire, ma che a noi ricorderebbe molto Leibnitz e i suoi voli pindarici resero visibili le ricchezze della Persia, il freddo del Grande Nord, i misteri dell’Ultima Thule e i leoni antropofagi dell’Africa Nera. Ma per quanto i ridondanti periodi ellittici di Giorgio infuocassero la gelida alba non se ne fece nulla. E no, perché Gioannicio, prima di morire come Willy il Coyote, scrisse col suo sangue una sentenza di morte per l’imperatore, che lo fissava perplesso respirando rumorosamente. Ma Gioannicio aveva ragione: il povero Giustiniano infatti non si era guadagnato simpatie e con Gioannicio che gufava, una seconda rivolta fece finire il suo regno di terrore. Questa volta si pensò che non era il caso di tagliargli nient’altro e Giustiniano II venne ucciso. In un crescendo di gore degno di un pessimo film, Giustiniano spiò l’anima tra litri e litri di sangue. I suoi ultimi pensieri furono le ingiustizie commesse contro Ravenna. La penna trionfava sulla spada.
Anche la città italiana voleva tuttavia la sua parte: i Ravennati guardavano ormai con sospetto gli Orientali e pochi anni dopo si giunse alla scontro. In un violento parapiglia con voci divine che incitavano i Ravennati alla lotta e un gigantesco toro che appare nel bel mezzo del campo, l’impero venne sconfitto, i soldati inseguiti fino alle loro grandi navi, da queste gettati in acqua, affogati, ammazzati a colpi di spada e remo. Che fine ingloriosa! Neanche i Ravennati però ne uscirono bene. Per anni non poterono magiare il pescato visti che troppi cadaveri intasavano le acque. Solo uova e lattuga.
Ripetiamo quindi che in una guerra non ci sono vincitori.

autore: FRANCESCO BORRI

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Di Nicola

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