L’esercito imperiale romano nel IV secolo: cambiamento e non declino

Introduzione

Questo breve articolo vuole solo essere un introduzione all’affascinante argomento rappresentato dall’esercito Romano del IV secolo d.C., ovverosia tra le fine del regno di Diocleziano (305 d.C.) e la morte di Teodosio il Grande (395 d.C.), un periodo molto interessante del più vasto periodo noto come “Basso Impero” o “Dominato”.

Ho ritenuto opportuno affrontare questo tema perché la successiva evoluzione, a partire dal V sec. d.C., delle armate Romane d’Oriente segue tendenze che hanno radici negli ordinamenti militari del IV sec. d.C.
Inoltre ho più volte potuto constatare la larga diffusione di giudizi negativi, ed affrettati, sull’efficienza della macchina bellica romana nel Tardo Impero, che derivano da concezioni oramai superate dalla storiografia specializzata più recente.

Nel presentare l’organizzazione dell’esercito imperiale Romano del IV secolo, ho voluto astrarre dall’evoluzione che ha generato tale struttura, in particolare il ruolo di Diocleziano e di Costantino il Grande nella riforma dell’esercito.
secolo.

Nella seconda parte di questo articolo presenterò inoltre anche un’introduzione alla strategia ed alla tattica dell’esercito Romano nel periodo preso in esame.

Infine un’avvertenza: l’esercito del Basso Impero è sempre stato un argomento poco studiato, specie in confronto a quello dell’Alto Impero o all’esercito Bizantino, inoltre non è stata affatto detta l’ultima parola sui risvolti militari del crollo dell’Impero Romano d’Occidente; quindi quanto da me esposto potrebbe essere un domani superato da nuovi studi o da nuove evidenze.
In particolare è da dire che vi sono dubbi anche sull’attendibilità della Notitia Dignitatum, il documento più completo pervenutoci sull’esercito romano a cavallo tra il IV ed il V sec., ma nessuno studio sul tardo esercito Romano può comunque astrarre da essa.

Tipi di unità

L’organizzazione dell’esercito Romano dell’inizio del IV secolo, dopo la riorganizzazione effettuata da Diocleziano, è, sotto alcuni aspetti, simile a quella dei Severi, anche se accresciuta dal punto di vista numerico (si è passati dai circa 350.000 uomini dell’esercito severano ad almeno 450.000 effettivi di quello dioclezianeo); ad esempio ritroviamo nell’esercito del Dominato i vecchi tipi di unità dell’Alto Impero, come legiones, auxilia, alae e cohortes.

La prima, è più importante, differenza tra l’esercito del Dominato e quello del Principato, è la distinzione tra esercito “campale” ed esercito “di frontiera”, il primo altamente mobile e d’elite, suddiviso a sua volta in più eserciti campali centrali e regionali, il secondo legato al limes e con un addestramento minore, ma comunque sufficiente ai compiti principalmente difensivi cui era destinato e composto, almeno fino alla fine del IV secolo, da professionisti.

All’interno dell’esercito campale si ha poi una distinzione tra truppe palatine, comitatensi e pseudocomitatensi (qui elencate in ordine di rango).

Così le 42 legioni dell’esercito campale vengono ora divise in tre classi: legiones palatinae (ad es. Ioviani Juniores e Herculiani Iuniores), legiones comitatenses (ad es. Decima Gemina e Quinta Macedonica), e legiones pseudocomitatenses (ad es. Prima Italica e Quarta Italica).
Vi è inoltre una classe di fanti del tutto nuova nell’esercito campale: gli auxilia palatina; sono citate nella Notitia Dignitatum circa un centinaio di unità di auxilia palatina, (ad es i Batavi Seniores ed i Mattiaci Seniores.) La cavalleria dell’esercito campale consiste di 24 vexillationes palatinae (ad es. Equites Promoti Seniores e Comites Clibanarii) e di 61 vexillationes comitatenses (ad es. Equites Quinto Dalmatae ed Equites Primi Clibanarii Parthi).
In questo ordinamento, così caratteristico della mentalità romana, che dà molta importanza al rango, sia di singole persone che di gruppi, ed associa a ranghi diversi oneri e benefici diversi, le truppe palatine sono l’elite dell’esercito campale, le truppe comitatensi sono quelle “di linea”, e le pseudocomitatensi sono quelle trasferite d’ufficio dall’esercito territoriale a quello campale (e ciò dimostra che, almeno per il IV secolo, si trattava di soldati di professione, sufficentemente armati ed addestrati, e pronti, se necessario, ad assumere compiti anche offensivi).
Inoltre, come a sottolineare l’evoluzione dell’esercito romano verso una forza principalmente montata, la cavalleria palatina e comitatense aveva rango superiore rispettivamente alla fanteria palatina e comitatense.
Vi sono inoltre le guardie dell’Imperatore, ovviamente le più alte in rango, divise in 12 scholae palatinae (ad es. Scola Scutariorum Secunda e Scola Armaturarum Seniorum), 5 all’Ovest e 7 all’Est, che hanno sostituito i Pretoriani, sciolti da Costantino; le scholae sono unità particolari, in quanto spesso gli scholares sono nominati ufficiali o vengono incaricati di missioni speciali; esse sono poste agli ordini del magister officiorum, una carica civile simile a quella di cancelliere dell’Impero, anziché agli ordini di magistri militum, carica militare che detiene il comando di più unità.
Più specificatamente destinati alla funzione di scuola per i futuri ufficiali erano i Protectores Domestici, che fungevano anche da guardia del corpo dell’Imperatore.
Tra le truppe di fanteria dell’esercito territoriale precipue sono circa 150 legiones e 118 cohortes, ma vi sono anche 16 numeri, di cui uno solo fuori dalla Britannia (Numerus Barcariorum) e varie altre unità denominate milites (ad es. Milites Fortenses, Milites Munifices) e auxiliares.
Per quanto riguarda la cavalleria dell’esercito territoriale, essa è divisa in alae, cunei equitum o equites; vi sono anche un paio di cohortes equitatae (Cohors Prima Equitata, Cohors Prima Claudia Equitata).

Da segnalare infine l’esistenza di diverse unità di balistarii (Balistarii Theoosiaci, Balistarii Seniores), presumibilmente armati con pezzi leggeri di artiglieria, come ad esempio le carroballistae, destinati al supporto delle unità dell’esercito campale, infatti esse, con una sola eccezione, appartengono all’esercito campale.

Effettivi delle unità e dell’esercito nel suo complesso
Gli effettivi delle legioni dell’Alto Impero variavano tra i 5.000 ed i 6.000 uomini, anche se probabilmente la massima parte delle unità non era ad effettivi pieni; le cohortes e le alae contenevano invece 500 uomini (1000 se millariae) ad effettivi pieni.
Durante il Basso Impero gli effettivi delle legioni diminuiscono; ciò è evidente se si considera il numero totale delle legioni presenti nella Notitia Dignitatum, poco meno di duecento: se esse avessero mantenuto gli stessi effettivi ci sarebbero stati circa un milione di legionari (senza contare i cavalieri e gli altri tipi di fanti).
Questa ipotesi è suffragata dall’affermazione di Vegezio che le legioni, nel IV secolo, sono molto più deboli di prima ( Vegezio, Epitome Rei Militari I.17, II.3).
Purtroppo nessun autore dell’epoca attesta con precisione gli effettivi delle legioni, e lo stesso Vegezio complica ulteriormente la situazione descrivendo nella sua Epitome Rei Militari una legione di 6.100 fanti e 726 cavalieri; molti studiosi odierni risolvono questa contraddizione affermando che Vegezio, volendo portare ad esempio le legioni dei tempi passati abbia semplicemente descritto una legione del III secolo.
In mancanza di notizie dirette si possono solo fare supposizioni basate sulla distribuzione delle legioni dell’esercito di frontiera in più locazioni fortificate (da due a sette per ogni legione), riportata nella Notitia Dignitatum; sulla frequenza con cui Ammiano cita distaccamenti di 300 – 500 uomini tratti dalle legioni, su fonti letterarie posteriori, come lo storico Bizantino Procopio, e su papiri ritrovati in Egitto che attestano la forza di diverse unità dislocate nella Tebaide sotto Diocleziano.
Queste evidenze, peraltro non definitive, ci portano a stabilire per le legioni dell’esercito campale un numero di uomini compreso tra 800 e 1.200, e per le legioni dell’esercito di frontiera un numero di effettivi alquanto più alto, all’incirca 3.000 uomini.
Per quanto riguarda gli auxilia palatina, dalle stesse fonti si deducono effettivi variabili tra i 500 e gli 800 uomini.

Per la cavalleria si può fare miglior riferimento allo Strategikon, che risale al tardo VI secolo, e ci mostra l’esercito imperiale nel suo definitivo stato di forza armata basata sulla cavalleria, con unità di circa 300 – 400 uomini, una cifra che concorda grosso modo anche con altre fonti quale Ammiano ed i papiri della Tebaide.
Si può ipotizzare quindi vexillationes, alae, cunei o unità di equites di circa 350 – 500 uomini.
Anche le Scholae, che erano, forse con un’unica eccezione, unità di cavalleria, dovevano essere formate da circa 500 uomini.

Per quanto riguarda gli effettivi totali a disposizione, data l’incertezza sulla forza delle singole unità, si possono solo fare supposizioni sulla base della Notitia Dignitatum, giacchè non abbiamo fonti dell’epoca attendibili; ad esempio Johannes Lydus, storico Bizantino del VI secolo, afferma (De magistratibus I, 27) che l’esercito Dioclezianeo era di 390.000 uomini, ma secondo un altro storico Bizantino del VI secolo, Agazia (Historiae V, 13, 7), a metà del IV secolo, e quindi solo pochi decenni dopo Diocleziano, l’esercito era di 650.000 uomini. In realtà, facendo riferimento ai valori numerici prima dati, e prendendo sistematicamente quelli minori, si arriva ad una stima di 450.000 uomini, se invece si fa sistematicamente riferimento a quelli maggiori e si suppongono tutte le unità a ranghi completi, si arriva alla stima di Agazia di 650.000 uomini.
Si può quindi concludere che gli effettivi dovrebbero essere stati compresi tra questi due estremi, ma voler dare un numero preciso è quanto meno azzardato.
Per inciso la cavalleria doveva formare il 25% dell’esercito, mentre le truppe dell’esercito campale dovevano rappresentare il 35% – 40% degli interi effettivi.

Struttura di comando

Dalla breve descrizione fin qui data si vede che l’esercito tardo imperiale aveva dimensioni, complessità e livello di organizzazione, anche logistica, che non ritroveremo più, almeno in Occidente, fino all’epoca di Napoleone: l’esercito del Dominato non sfigura a confronto della Grand Armeé, se non a livello tecnologico.
A rafforzare tale impressione concorre anche l’esistenza, nel IV secolo, di una struttura di comando di livello più alto di quello della singola legione.
Nella Notitia Dignitatum abbiamo invece per la prima volta un raggruppamento semi – permanente di unità dell’esercito campale in comandi più o meno permanenti.
Infatti nella pars Orientis troviamo due eserciti campali centrali, comandati ciascuno da un magister militum praesentalis, e tre eserciti campali regionali, in Oriente, Tracia ed Illirico, comandati rispettivamente da magistri militum per Orientem, per Thracias e per Illyri*****.
In Occidente troviamo invece una struttura diversa (forse la struttura di comando orientale è stata modificata da Teodosio il Grande dopo Adrianopoli), basata su due eserciti campali centrali, rispettivamente comandati da un magister equitum praesentalis e da un magister peditum praesentalis e su eserciti campali regionali in Gallia, Spagna, Gran Bretagna ed Illirico, comandati da comites, o, nel caso della Gallia, da un magister equitum.

Certo questi raggruppamenti di unità non erano strettamente l’equivalente dei nostri corpi di armata, in molte occasioni vengono prelevate truppe da un esercito campale per trasferirlo ad un altro, come avviene quando (Ammiano Marcellino, Res Gestae, XX, 4, 2) Costanzo II richiede a Giuliano intere unità e distaccamenti di uomini da altre unità per l’esercito impegnato nella campagna contro i Persiani; d’altronde in altre occasioni essi agiscono come veri e propri corpi d’armata, come, per esempio quando, nella campagna di Giuliano contro gli Alemanni nel 357, è originariamente prevista una manovra a tenaglia condotta dall’esercito campale di Gallia, comandato da Giuliano, e dall’esercito campale italiano comandato dal magister peditum praesentalis Barbazio (Ammiano Marcellino, Res Gestae, XVI,11, 2).
Per non parlare dei raggruppamenti semipermanenti di due legioni
o auxilia che avrebbero ben potuto rappresentare un livello di comando intermedio.
Per quanto riguarda le truppe dell’esercito di frontiera, sembra probabile che i comites ed i duces che li comandavano, rispondessero, durante le operazioni, ai magistri degli eserciti campali schierati nella loro regione.

Effettivi messi in campo

Non è affatto certo che le armate messe in campo dal Principato siano state molto più grandi di quelle messe in campo dal Dominato, almeno per quanto riguarda il IV secolo.
Se concentriamo la nostra attenzione sulle operazioni su scala limitata effettuate dall’esercito campale, peraltro molto frequenti nel IV secolo, vediamo che sono molto utilizzati raggruppamenti di unità di una forza variabile tra i 2.000 ed i 5.000 effettivi.
Ad esempio Teodosio conduce in Africa contro il ribelle Firmo circa 3.500 uomini dell’esercito campale (Ammiano, Res Gestae, XXIX, 5, 24; 5,29; 5,48); ovviamente in Africa lo appoggeranno le truppe là presenti dell’esercito di frontiera.
Quando, nel 398 d.C., scoppia nuovamente la ribellione in Africa, condotta da Gildone, fratello di Firmo, l’esercito campale schiera 5 legioni, per un totale di 5.000 uomini, dall’Italia (Orosio, Historia adversos paganos, VII, 36,6 e Claudiano, Bellum Gildoni*****, I, 421 – 423).

Dunque, per quanto riguarda le operazioni minori, bastano effettivi dell’esercito campale equivalenti a quelli di una moderna Brigata, ovviamente supportati dalle truppe dell’esercito di frontiera.
Passando ad operazioni di maggiore impegno, sono radunate forze maggiori: si va dai circa 20.000 uomini radunati per la campagna di Adrianopoli, provenienti dall’esercito campale d’Oriente ai 38.000 uomini, provenienti dagli eserciti campali di Gallia ed Italia, radunati nel 357 per la campagna contro gli Alamanni (Ammiano Marcellino, XVI, 2, 8; XVI, 12, 2; XVI, 11, 2).
Infine, per l’operazione più ambiziosa di tutto il IV secolo, l’invasione della Persia Sassanide, vengono mobilitati dai 60.000 agli 83.000 uomini, provenienti dagli eserciti campali di tutto l’Impero, (non vi sono fonti contemporanee precise, la stima più alta è dello storico Bizantino Zosimo, che scrive attorno al 500 d.C.).
Dunque, ricapitolando, per la maggior parte delle operazioni il Basso Impero poteva contare su effettivi forse deboli se paragonati alla sua vastità, ma solo marginalmente minori delle forze schierate dall’Alto Impero. D’altronde il grande addestramento e l’esperienza delle truppe regolari era solitamente sufficiente ad assicurare la vittoria contro nemici anche più numerosi.
La difesa dell’Impero poggiava dunque sulla qualità e non sulla quantità delle truppe.

Il reclutamento

L’esercito è sicuramente la singola istituzione Romana che assorbe più forza lavoro nel IV secolo. Solo per assicurare il rimpiazzo di coloro che anno per anno si congedavano (il servizio durava 20 anni nell’esercito campale e 25 nell’esercito di frontiera), assumendo effettivi per un totale di circa 500.000 uomini, occorrevano circa 24.000 uomini.
A questi si aggiungevano gli uomini da sostituire perché persi in azione o per altri motivi (malattie, diserzioni). Senza arrivare ai 96.000 uomini proposti da un autore moderno (Boak autore di “Manpower shortage and the fall of the Roman Empire in the West” 1955), non ci allontaneremo molto dal vero dicendo che, anno per anno, servivano all’esercito imperiale circa 30.000 soldati
Tale numero però saliva a dismisura in caso di campagne o battaglie particolarmente sanguinose; nell’anno di Adrianopoli, ad esempio, tenendo conto di circa 15.000 morti tra i Romani, si arrivava vicino ai 50.000 uomini da arruolare.
Poiché, come detto prima, la forza delle armate imperiali stava nella qualità dei combattenti, si procedeva comunque ad una selezione delle reclute (dilectus).

Esistevano fondalmentalmente tre tipi di reclutamento:

– Reclutamento volontario
– Reclutamento ereditario
– Reclutamento fiscale

Inoltre era sempre teoricamente possibile ricorrere alla coscrizione obbligatoria nei momenti di particolare gravità; infine, sia pur raramente prima di Adrianopoli, e con maggiore frequenza dopo Adrianopoli, e soprattutto nel V secolo, si ricorreva ai Foederati barbari, arruolando intere bande di guerrieri mercenari che combattevano sotto i loro capi alla maniera barbarica, ma che erano legati all’Impero solo da un Foedus, un patto, che prevedeva anche il pagamento dei mercenari barbari e che poteva o meno venire di volta in volta riconfermato.
Il reclutamento volontario era probabilmente la fonte maggiore di reclute; potevano arruolarsi sia cittadini Romani che barbari, a patto che fossero liberi.
Era vietato inoltre l’arruolamento di criminali, cuochi, panettieri, osti ed altre professioni ritenute umilianti (Codex Theodosianus VII.13.8 (380)), nonché dei decurioni, che spesso cercavano di sfuggire ai loro pubblici doveri arruolandosi; è da dire che la condizione dei decurioni nel Basso Impero, era molto gravosa dal punto di vista economico.
Esisteva anche una forma di reclutamento ereditario, per cui i figli dei soldati erano costretti ad arruolarsi, ciò per una legge di Costantino del 326 d.C. (Codex Theodosianus VII.22.8).
A riprova della fame di reclute che affliggeva l’esercito, l’età in cui tali uomini dovevano essere arruolati scese dai 20 – 25 anni stabiliti da Costantino ai 16 anni di una legge di Costanzo II (Codex Theodosianus VII.22.8); inoltre a partire dal 331, i figli dei soldati potevano essere arruolati anche quando i loro padri fossero ancora in servizio. Se poi un figlio di veterano si automutilava per evitare il servizio militare, veniva destinato al decurionato (il che era indubbiamente una punizione).
Al reclutamento volontario ed a quello ereditario, evidentemente insufficenti, si aggiunse anche dal 352 d. C. (Codex Theodosianus VI.35.3) un reclutamento fiscale, per cui un gruppo di contribuenti (capitula), o un singolo facoltoso contribuente, doveva fornire una tassa pagabile in reclute.
Naturalmente, specialmente i proprietari terrieri, piccoli o grandi, sempre alla ricerca di manodopera per i loro latifondi, preferivano fornire i loro coloni peggiori, dal punto di vista fisico o sociale, per cui tale reclutamento dava all’esercito reclute mediocri.
Si abbassò così nel 367 d.C. (Codex Theodosianus VII.13.3) il limite di altezza, portandolo a 5 piedi e 7 pollici (all’incirca 1,57 m.), dai 6 piedi (o 5 piedi e 10 pollici dei cavalieri delle Alae) prima fissati e più in generale si abbassarono i requisiti fisici richiesti, e furono differenziati i requisiti per il servizio nell’esercito campale o in quello di frontiera.
Ciò era particolarmente grave, perché la prestanza fisica è essenziale in un tipo di guerra non tecnologica, ma basata sul combattimento corpo a corpo in armatura e scudo; ad una crisi quantitativa dell’arruolamento se ne aggiunse quindi una qualitativa.
Poiché era diffusa la pratica dell’automutilazione (in genere del pollice), dapprima la si sanzionò duramente, poi, visti gli scarsi risultati Teodosio il Grande affermò che due reclute mutilate potevano essere accettate dagli esattori, al posto di una recluta sana (Codex Theodosianus VII.22.1 (313); VII.13.10 (381)).
Alla fine neppure questo bastò, ed anche il principio di arruolare solo uomini liberi cadde: nel 406 d.C. un editto di Onorio (Codex Theodosianus VII.13.16) promise la libertà agli schiavi che si fossero arruolati.
In una tale situazione era chiaro che quando fu data la possibilità da parte dell’Imperatore Valente di pagare la tassa in moneta (il cosiddetto aureum tironi*****) i proprietari terrieri, e spesso anche lo stato, preferivano questa strada.
Anzi per favorire i proprietari terrieri di classe senatoria (è da notare che i latifondi dell’Imperatore erano esenti da questa tassa) l’aureum tironi***** fu anche abbassato dai 36 solidi stabiliti dall’Imperatore Valente a 25 solidi nel 397.
Il gettito così ottenuto era utilizzato per pagare i volontari, o in un secondo momento, i Foederati.

La barbarizzazione dell’esercito tardo imperiale

Nonostante una vecchia teoria sostenesse che una barbarizzazione più o meno strisciante abbia minato alla base le capacità combattive dell’esercito Romano fin dai tempi di Costantino il Grande, l’orientamento più recente (vedi ad es. i lavori di Elton e di Nicasie) che nega tale problema, almeno fino a quando, con Teodosio il Grande, si ricorse all’arruolamento in massa di intere bande di mercenari barbari sotto i loro stessi capi, mi sembra più convincente.
I barbari che si arruolavano volontari, o in virtù delle condizioni di un trattato di pace imposto dai Romani (che spesso esigevano reclute dai barbari sottomessi), erano addestrati ai metodi di combattimento Romani, combattevano in unità comandate da ufficiali Romani o romanizzati, e probabilmente, anche nelle unità più germanizzate, quali gli Auxilia Palatina, non rappresentavano la maggioranza dei soldati.
Inoltre essi venivano presto romanizzati.
Da questo punto di vista sembra saggia la decisione di istituire l’aureum tironi***** per pagare i volontari, anche barbari.
Poi si arrivò all’arruolamento di intere bande di barbari (20.000 di essi combatterono al fiume Frigidus sotto le insegne di Teodosio contro l’usurpatore Eugenio nel 394 d.C.), ed allora la barbarizzazione ci fu davvero e fu deleteria, ma questo è un fenomeno che, sebbene iniziato sotto Teodosio il Grande, appartiene più al V secolo che al IV.
La decisione di Teodosio di “aprire” ai Foederati barbari mi sembra conseguenza logica della sua politica di assimilarli nell’Impero romanizzandoli (che era stata anche la politica del suo predecessore Valente); inoltre risolveva il problema della scarsità di truppe addestrate dopo le perdite subite dall’esercito campale ad Adrianopoli.
Infatti, anche ammettendo di poter rimpiazzare tutte le perdite subite, ci sarebbe voluto molto tempo prima di portare le reclute ai livelli di addestramento ed esperienza richiesti per il servizio nell’esercito campale; arruolando in massa i Goti si ottenevano da subito guerrieri già esperti, e si evitava di imporre il peso del reclutamento alle province.
Ovviamente il problema di reperire soldati addestrati si accuì dopo le perdite subite dall’esercito campale d’Occidente nella battaglia del fiume Frigidus (394 d.C.), e da quel momento l’arruolamento dei Foederati divenne un opzione sempre più attraente per gli Imperatori; ma fu una politica che nel giro di pochi decenni portò, nel V secolo, alla scomparsa dell’esercito regolare Romano in Occidente.

Una “grande strategia” per l’Impero Romano del IV secolo ?

Si è molto dibattuto negli ultimi anni, sulla scia delle polemiche innescate dal controverso “La Grande Strategia dell’Impero Romano” di Luttwak, sull’esistenza o meno di una “grande strategia”, e cioè di un disegno globale valido non solo a livello regionale, ma per tutto l’Impero, e coscientemente portato avanti dai vari Imperatori.
Bisogna però subito precisare che concetti come “grande strategia”, “deterrenza”, “difesa in profondità” ed altri ampiamente usati da Luttwak sono stati sviluppati e definiti solo in tempi moderni, e come tali volerli applicare integralmente all’antichità classica dà risultati piuttosto dubbi; resta da vedere comunque se le evidenze in nostro possesso ci diano il quadro, se non di una “grande strategia” intesa in senso moderno, almeno di una sistematicità di interventi e di politiche che vadano al di là di una semplice serie di provvedimenti ad hoc.
Vediamo così che, a partire dalla metà del III secolo d.C., ed in maniera massiccia sotto il regno di Diocleziano, quasi tutte le frontiere dell’Impero, che d’altronde già poggiano in buona parte su ostacoli naturali, vengono rinforzate mediante fortificazioni la cui natura (forma a volte irregolare, atta a comunque a sfruttare al massimo le possibilità del terreno ed a ottimizzare lo spazio protetto dal punto di vista della lunghezza del circuito, mura più spesse, pochi cancelli fortemente protetti, torri aggettanti) è molto diversa da quella dell’età del Principato.
Tutte queste opere non hanno solo un chiaro intento difensivo, ma il governo Romano si premura anche di assicurare la facile proiezione delle proprie forze oltre il confine, mediante ad esempio avamposti, porti fluviali e ponti fortificati, strade militari ed altri accorgimenti tali da far si che la penetrazione in territorio nemico sia più facile per i Romani che per il nemico.
Il tutto viene integrato, nelle regioni di confine, con una serie di fortificazioni disposte in profondità, tese soprattutto a proteggere centri logistici e di comando e vie di comunicazione da e verso l’interno dell’Impero ed altri settori di confine, in modo da permettere spiegamenti di truppe, sia offensivi che difensivi, rapidi, sicuri e supportati da un’adeguata logistica, negando nel contempo ai nemici che avessero superato la prima linea di difesa l’uso di tali risorse.
Un studio accurato di queste fortificazioni è svolto in “The late roman army”, di P. Southern e K.R. Dixon, edito da Batsford nel 1996.
Tutto questo quindi, non deve essere visto come un’unica, enorme e continua linea Maginot, o come un moderno sistema di “difesa in profondità”, visto che con esso gli Imperiali vogliono nel contempo facilitare e proteggere frequenti operazioni in territorio nemico, ma piuttosto come un insieme di caposaldi e fortificazioni il cui scopo principale è di negare al nemico iniziativa, risorse e comunicazioni, a tutto vantaggio dell’esercito Romano.
A tali lavori alle frontiere si accompagna la riorganizzazione dell’esercito in una forza mobile o esercito campale (comitatenses), ed in una forza di difesa statica preposta alla difesa delle frontiere (limitanei).
L’esigenza di tale nuovo assetto nasce da una duplice esigenza: far fronte alle aumentate minacce provenienti dall’esterno assicurando nel contempo la stabilità del regime.
Lo stadio finale di tale riorganizzazione è descritto nella Notitia Dignitatum, documento che presumibilmente descrive la situazione dell’esercito Romano alla fine del IV secolo o nei primissimi anni del V secolo.
In effetti durante la crisi del III secolo era emersa la debolezza dello schieramento dell’esercito imperiale, interamente dispiegato lungo la frontiera: una volta che essa era stata superata, era necessario troppo tempo prima che altre truppe, dislocate solitamente in altri settori, potessero intervenire con efficacia, inoltre il ritiro di truppe da una parte del limes si traduceva solitamente nel materializzarsi di una minaccia esterna su quella parte di limes.
La creazione di un esercito campale, diviso in comandi regionali, permetteva di superare questa difficoltà: le truppe campali potevano intervenire, solitamente nei settori di loro competenza, e comunque il limes non veniva sguarnito dalle truppe di frontiera, che ne garantivano la difesa almeno dalla maggior parte delle minacce.
Nel contempo questo sistema permetteva all’Imperatore di avere sotto il suo diretto comando l’esercito campale, o almeno la maggior parte di esso, e cioè le uniche truppe capaci di operazioni offensive su vasta scala: il pericolo causato da sedizioni militari da parte dei vari eserciti regionali, così frequente nel III secolo, era grandemente ridimensionato.
Non voglio entrare nel merito della maggiore o minore efficacia di tale organizzazione, rimane il fatto che, nel periodo preso in esame, essa riuscì complessivamente ad assicurare la difesa dell’Impero dai nemici esterni.
Né si deve credere che l’Impero, in questo periodo, rinunziasse completamente all’offensiva: in questo periodo sono comuni operazioni offensive che variano dalla semplice incursione all’invasione in grande stile.
Sulle frontiere del Reno e del Danubio attacchi preventivi e spedizioni punitive, unite ad una forte difesa fanno si che i combattimenti non si sviluppino solo entro i confini dell’Impero, ma anche in territorio barbarico (barbari*****).
All’est la minaccia Sassanide, potenzialmente più pericolosa, ma più suscettibile di essere trattata con i mezzi diplomatici, viene fatto fronte con la difesa imperniata sulle città fortificate della Mesopotamia e con la diplomazia, anche se sotto Galerio e sotto Giuliano sono effettuate vere e proprie invasioni.

Da quanto sopra detto si può arrivare alla conclusione che il governo Romano del IV secolo vede l’Impero stesso come un’unica entità politica e persegue una politica coerente, basata su una difesa attiva, ma che non rinunzia all’offensiva ogni qual volta che le circostanze lo permettano, e si da un organizzazione militare coerente a tale politica.
E questo, ripeto, senza tirare in ballo concetti teorici squisitamente moderni, elaborati in Occidente a partire dal XIX secolo (e sulla base di un tipo di guerra molto differente dalla guerra nel mondo classico), da cui, forse, la pragmatica cultura Romana avrebbe rifuggito.

Strategie e campagne

Anche nella scelta delle strategie con cui vengono affrontate sul campo (il “livello operativo”) le minacce portate dai barbari e dai Persiani, i due più grandi pericoli che minacciano la sicurezza delle frontiere del Dominato, ritroviamo una certa sistematicità.
Parliamo prima dei barbari.
Innanzi tutto le piccole incursioni sono affrontate con efficacia dalle truppe di frontiera, che si specializzano nella guerriglia di frontiera contro i barbari; tali operazioni devono essere le più frequenti, visto che i barbari preferiscono evitare lo scontro campale aperto, data la superiorità tattica, di addestramento e di equipaggiamento dell’esercito imperiale, e che moltissime incursioni dei barbari avvengono con effettivi di poche centinaia di uomini..
Ad esempio Zosimo (Historia Nova III 7,1) ci descrive le operazioni di guerriglia condotte nel 358 d. C.da Charietto, un capo Franco al servizio dei Romani, contro i Franchi Salii, mentre Ammiano Marcellino (Res Gestae XXXI, 11, 2 – 4), ci descrive le operazioni “a bassa intensità” condotte tra il 378 ed il 380 d.C. da Sebastiano e Modares contro i Goti.
A sottolineare l’importanza di tali operazioni, dalla Notitia Dignitatum ci vengono tramandati nomi pittoreschi di unità quali i Superventores, i Praeventores e gli Insidiatores.
Le incursioni su larga scala, o addirittura le invasioni, sono affrontate in maniera differente, sfruttando al meglio le difficoltà logistiche dei barbari, che sono posti di fronte a due alternative: disperdersi, potendo così saccheggiare un più ampio territorio ed ottenere maggiori rifornimenti, ma esponendosi ai contrattacchi concentrati dei Romani, o concentrarsi, potendo così meglio far fronte agli Imperiali ma soffrendo però difficoltà di approvvigionamento.
Soprattutto i barbari si trovano in difficoltà quando devono assaltare centri logistici fortificati, quali città o depositi: per tali operazioni occorre concentrarsi, e le difficoltà sono aggravate dall’ignoranza dei barbari in materia di poliorcetica.
I Romani, invece, potendo contare su linee di rifornimento e di comunicazioni sicure, e su un sistema di punti di osservazione fortificati, possono concentrare a piacimento le loro forze contro un nemico disperso, o indebolire un nemico concentrato impedendogli l’approvvigionamento.
D’altronde gli Imperiali possono anche variare a piacimento la concentrazione delle loro forze: poiché, normalmente, un contingente Romano può facilmente affrontare in campo aperto un numero di barbari anche superiore, e data la superiorità di controllo e di comando, a volte può convenire disperdere le truppe Imperiali per poter distruggere più facilmente le piccole bande di barbari dediti al saccheggio o che si ritirano, carichi di bottino.
Vegezio, per esempio, è ben conscio di tali strategie, e ce ne parla nella sua Epitome Rei Militari (III. 3 e III.9), esse sono applicate, ad esempio, contro gli Alamanni da Jovino, magister militum per Gallias, nella sua campagna nel 365 – 366 d. C. (Ammiano Marcellino Res Gestae XXVII,1, 2), e dal Comes Teodosio nel 367 -369 d. C. contro i barbari in Britannia (Ammiano Marcellino Res Gestae XXXVII, 8); un approccio simile è usato da Stilicone sia contro Alarico che contro Radagaiso.
Ma l’esercito Imperiale non attua solo strategie difensive: anche se molti degli scontri avvengono in territorio Romano, appena se ne presenta l’occasione, l’offensiva viene portata in territorio barbarico, per mezzo di attacchi preventivi o di spedizioni punitive; esse sono frequenti anche dopo la morte di Costantino il Grande, sotto cui sono condotte estese campagne oltre il Reno (ad esempio nel 306 d.C. contro i Bructeri) ed oltre il Danubio (numerose campagne tra il 325 ed il 334 d.C.).
Nel 357 d.C. Giuliano l’Apostata passa il Reno su un ponte all’altezza di Magonza ed attacca con successo gli Alemanni (Ammiano Marcellino Res Gestae XXVII,1, 2), l’anno successivo Costanzo II passa il Danubio e semina la distruzione tra Sarmati e Quadi (Ammiano Marcellino Res Gestae XXVII,12, 4-21), Valentiniano I nel 374 e nel 375 d.C. conduce campagne contro gli Alemanni, oltre il Reno (Ammiano Marcellino Res Gestae XXX,3, 1), e contro Quadi e Sarmati oltre il Danubio (Ammiano Marcellino Res Gestae XXX,5, 13); ancora alla fine del IV secolo, tra il 388 ed il 392 d.C. il Comes Arbogaste, lui stesso di origine Franca, conduce una serie di efficaci operazioni contro i Franchi Ripuari.
Abbiamo quindi visto come, contro i barbari, l’esercito Romano abbia a disposizione un’ampia serie di opzioni, che vanno dalla guerriglia di frontiera a delle vere e proprie campagne articolate, come quella che porta alla vittoria di Strasburgo conseguita da Giuliano l’Apostata contro gli Alemanni (357 d.C.), o quella, disastrosa, che si conclude con la sconfitta di Adrianopoli (378 d.C.), passando per una serie di operazioni di intensità intermedia, effettuate sia in territorio Romano che barbarico.
Contro i Persiani Sassanidi, più sofisticati ed evoluti, la strategia è invece prettamente difensiva, ed appoggiata al limes, fortemente fortificato, che dall’alto Tigri arriva fino al fiume Khabur passando per il medio Eufrate e che comprende città fortificate quali Singara, Bezabde, Nisibi ed Amida.
In caso di invasione Persiana, il nemico deve ridurre tali fortificazioni, affidate alle truppe di frontiera, e ciò, nonostante i Sassanidi abbiano valide conoscenze nel campo della poliorcetica, costa loro uomini, tempo e risorse preziosi, consentendo l’azione controffensiva dell’esercito campale Romano, che a sua volta fa perno proprio sulle fortificazioni ancora in mano Imperiale.
Alla fine, nella maggior parte dei casi, è possibile arrivare ad una composizione diplomatica coi Persiani.
Tipiche di tale strategia sono le campagne condotte durante il regno di Costanzo II contro i Sassanidi; tre assedi vengono condotti senza successo da Shapur II contro Nisibi, ma Costanzo II riesce a non cedere territorio ai Persiani (Ammiano Marcellino Res Gestae XXV,9,3), e, quando, nel 359 d.C. cade Amida, le perdite persiane sono tali da concludere, per quell’anno, la loro campagna di conquista.
Per il 360 d.C. Costanzo II programma la riconquista del terreno perduto l’anno precedente, ma muore in quello stesso anno.
Il suo programma è ripreso, con ben maggiori ambizioni, da Giuliano l’Apostata, ma finisce con il fallimento della spedizione e la morte dell’Imperatore (per la descrizione di questa campagna, cfr. Ammiano Marcellino Res Gestae, libri XXIII, XXIV e XXV); anche se Giuliano commette alcuni errori fatali nella conduzione della campagna, ciò non toglie che l’obiettivo strategico perseguito, ovvero la neutralizzazione definitiva della minaccia persiana in modo da porre fine ad uno stato permanente di guerra su due fronti, troppo dispendioso per le risorse romane, è ben scelto e di possibile realizzazione, visto che i Persiani, ove definitivamente sconfitti, sono più disponibili dei barbari ad accordi diplomatici duraturi.
D’altronde il tentativo di Giuliano l’Apostata sarà per molto tempo unico nel suo genere: per assistere ad un ritorno offensivo dei Romani nel settore bisognerà attendere il VI secolo.

Le tattiche sul campo

In battaglia le truppe Romane sono di solito disposte con la fanteria pesante al centro e la cavalleria su entrambe le ali, essendo la cavalleria leggera disposta sulla parte esterna di esse; la fanteria leggera può invece essere disposta in avanti, a formare una linea di schermagliatori, o può anche essere dispersa tra le linee successive della fanteria pesante, o anche dietro di essa.
La cavalleria più pesante (cataphractarii o clibanarii) viene solitamente posta su di un lato della fanteria pesante.
La fanteria pesante viene schierata su più linee ed esiste di solito una riserva di truppe appiedate e/o montate pronta ad intervenire, posta agli ordini del comandante sul campo.
Dietro lo schieramento vi è il campo, di solito fortificato, con il bagaglio dell’esercito, opportunamente guardato; questo campo è un elemento importante dello schieramento, in quanto può servire anche da punto di raccolta in caso di ritirata o peggio.
Le unità, montate o appiedate, combattono in formazione lineare, anche se, a volte, viene impiegata una formazione a cuneo (cuneus o caput porci); altra formazione in uso è la famosa testudo, usata per proteggersi dal tiro nemico.
La fanteria pesante viene schierata in ordine chiuso su più ranghi: ad esempio Vegezio, nel suo Epitome Rei Militaris II, 15, ne raccomanda sei, ma chiaramente il numero di ranghi può variare a seconda della situazione tattica e del numero e della qualità delle truppe disponibili, come, nel VI secolo consiglierà Maurizio nel suo Strategikon (Strategikon XIIB 8, 9).
Questo schieramento base, lineare, ha poi le sue variazioni.
Ad esempio a Strasburgo, Giuliano L’Apostata schiera la cavalleria sul fianco destro, assieme alle sue unità di elite, e la fanteria, su tre linee, al centro e sulla sinistra (Ammiano Marcellino Res Gestae XVI,12,21), e sembra rifiutare l’ala sinistra.
Ammiano ricorda poi disposizioni a mezzaluna, con il centro rifiutato, usate da Giuliano l’Apostata contro Alamanni e Persiani (Ammiano Marcellino Res Gestae XVI, 2, 13 e XXV, 1, 16) e circolare, usata dal comes Teodosio (Ammiano Marcellino Res Gestae XXIX, 5, 41); in altre occasioni si usano anche fortificazioni campali, usate, ad esempio, da Costanzo II a Mursa e da Eugenio al Frigidus.
A volte si distaccano delle forze per marce sul fianco dell’avversario; un esempio tratto da Ammiano (Res Gestae XXVII, 10, 9-15) è quello della battaglia di Solicinium, in cui Valentiniano I manda un distaccamento ad intercettare gli Alemanni in ritirata, mentre Orosio ricorda un attacco simile, condotto da Arbitio, un comandante di Eugenio ed Arbogaste al Frigidus (Historiarum adversus paganos libri septem 7, 35, 16), che però finisce per disertare.
Nel periodo di riferimento, a differenza di quello che a volte è avvenuto durante il Principato, l’artiglieria non è usata nelle battaglie campali.
Lo schieramento dell’esercito è fondamentale, poiché durante la battaglia è poi molto difficile modificarlo, anche se i Romani possedono un sistema di comando abbastanza efficace, fondato su mezzi acustici e segnali visivi.
Da qui l’importanza di una riserva, sottoposta direttamente al comandante, per fronteggiare eventuali sfondamenti o per sfruttare dei successi.
Importantissimo preliminare alla battaglia vera e propria è poi il passaggio dall’ordine di marcia, basato su colonne, a quello di battaglia, lineare; questo delicato movimento viene in genere coperto dagli schermagliatori, e forse una delle cause della sconfitta di Adrianopoli è che la battaglia è iniziata prima che lo schieramento Romano fosse completato.
La battaglia si apre solitamente con l’azione della fanteria leggera, in ordine aperto, che bersaglia il nemico con armi a distanza o come preparazione all’attacco vero e proprio o per disordinare o rallentare l’impeto dell’avversario che attacca; la fanteria leggera è in grado di fronteggiare le truppe leggere, montate o meno del nemico, e di agire contro gli elefanti; nel momento in cui la battaglia vera e propria è impegnata essa si ritira dietro la fanteria pesante.
Immediatamente prima dell’urto vero e proprio la fanteria Romana lancia le varie armi da getto di cui è dotata, sia per ammorbidire l’impatto stesso, sia per rendere inutilizzabili gli scudi della fanteria avversaria
Non sempre i Romani prendono l’iniziativa dell’attacco: a volte essa è lasciata al nemico, come a Strasburgo, e viene invece lanciato un contrattacco al momento opportuno, contro un nemico già indebolito.
Solitamente la fanteria pesante Romana è più addestrata, disciplinata ed equipaggiata, ed è in grado di prevalere sia sulle bande di barbari, una volta che il loro primo impeto si sia esaurito, sia sulla fanteria Persiana.
Le cariche della cavalleria nemica, sia Persiana che barbara, sono di solito fermate; problemi possono verificarsi solo quando la fanteria pesante Romana sia stata indebolita dal tiro degli arcieri Persiani, o in caso di attacchi sui fianchi, come ad Adrianopoli.
Proprio per fronteggiare eventuali sfondamenti comunque l’esercito Romano viene schierato su almeno due linee, e comunque restano disponibili le riserve.
Una volta che la fanteria pesante Romana sia riuscita ad avere la meglio, è solo questione di tempo prima che il nemico si ritiri, subendo nel contempo le perdite più gravi, se la ritirata, come spessissimo accade, si tramuta in una rotta disordinata, a cui fa seguito l’inseguimento dei Romani, guidato dalla cavalleria e dalla fanteria leggera.
Quest’ultima è una fase critica, in quanto un inseguimento ben condotto può effettivamente distruggere completamente le forze nemiche, mentre un nemico sconfitto che si riesce a disperdere potrà sempre tornare a radunarsi, come succede specialmente coi barbari.

Il ruolo della fanteria e della cavalleria

Nel periodo di riferimento la fanteria rimane ancora la “regina del campo di battaglia”; ciò è evidente sia dalle descrizioni degli scontri che ci fa Ammiano Marcellino, sia da quanto ci dice Vegezio: “intellegitur magis reipublicae necessarios pedites” (Epitome Rei Militaris III, 9) e “sciendumque in peditibus vel maxime consistere robur exercitus”.
Essa occupa normalmente il centro dello schieramento, ed è in grado di affrontare con confidenza sia la fanteria che la cavalleria (o addirittura gli elefanti usati dai Persiani).
Il suo equipaggiamento è concettualmente simile a quello del Principato: elmo, armatura metallica in maglia o a squame, scudo, giavellotto e spada.
Certo lo scudo è adesso ovale, il gladius è stato rimpiazzato dalla spatha, ed il pilum, ora alleggerito e chiamato spiculum è stato integrato con la lancea che può essere usata sia come arma da il lancio che da mischia, e con giavellotti più leggeri, come il verrutum o la plumbata, ma questi cambiamenti riflettono un certo grado di specializzazione nel combattere le truppe barbariche, solitamente poco protette, ed una maggior preoccupazione per la mobilità e la semplificazione dell’equipaggiamento.

Ma che il ruolo della fanteria si stia evolvendo è innegabile.
L’importanza dell’armatura si sta riducendo, e Vegezio attesta che già dal regno di Graziano (367 -383 d.C.), le truppe cominciano a non utilizzarla più: è questo l’inizio di un trend che porterà, nel V secolo d.C., e specialmente in Occidente, ad un abbandono più o meno generalizzato dell’armatura.
Si vanno affermando unità di fanteria leggera dotate di armi da tiro, come i sagittarii, dotati di archi, e sono sempre più in uso, oltre agli archi stessi, fionde, fionde su staffa e balestre.
Nelle stesse formazioni di fanteria pesante parte degli uomini è addestrata al tiro con archi o fionde.
Si afferma l’uso degli auxilia palatina che, pur potendo fungere sul campo, come a Strasburgo, da fanteria pesante, sono anche adatti all’impiego come fanteria leggera, e quindi intrinsecamente più flessibili e più adatti ai tipi di scontri a “bassa intensità” coi barbari.
Insomma si ha una tendenza verso una maggiore specializzazione, diversificazione e flessibilità della fanteria; parallelamente, però si manifesta la tendenza ad assegnare ad essa compiti sempre più di difesa statica, privilegiando la cavalleria per l’offesa; d’altronde questa tendenza arriverà a pieno completamento solo con gli eserciti di Belisario e Narsete, la cui arma offensiva principale sarà la cavalleria.

Il ruolo della cavalleria

Per quanto riguarda la cavalleria, il suo ruolo comincia a crescere di importanza almeno fin dalla metà del III secolo d.C., e nel nostro periodo di riferimento essa, anche numericamente, assume un peso sempre maggiore, rappresentando circa il 25% delle forze combattenti, mentre, alla fine del II secolo d.C. non arrivava al 20%.
Un’altra indicazione della crescente importanza attribuita alla cavalleria, è il fatto che le vexillationes palatinae e comitatenses hanno status superiore alle loro controparti appiedate, anche se il magister peditum (comandante della fanteria) ha rango superiore al magister equitum (comandante della cavalleria).
L’aumento dell’importanza della cavalleria è dovuto al fatto che molti popoli che premono alle frontiere, come Alani, Sarmati, Persiani, Goti, dispongono abitualmente di un numero significativo di cavalieri; anche i popoli Germanici sul Reno, possono disporre ora di forze di cavalleria sicuramente maggiori di quelle schierate durante l’epoca del Principato.
La fanteria pesante Romana è di limitato uso offensivo contro tali forze, e così viene integrata da un numero crescente di cavalieri, operativamente più mobili e flessibili dei fanti.
Le ragioni strategiche per l’aumento delle forze di cavalleria sono più limitate, perché la velocità di marcia della cavalleria è maggiore di quella della fanteria, ma non in modo decisivo, e l’arma montata richiede risorse logistiche maggiori.

Una parte importante della cavalleria romana è costituita da cavalleria leggera: i reggimenti regolari di Mauri e Dalmatae esistono già dal III secolo d.C., ed ad essi se ne aggiungono altri nel corso del IV:
La cavalleria leggera è incaricata della ricognizione, protegge l’esercito in marcia, mentre in marcia protegge i fianchi dello schieramento Romano e schermaglia con il nemico, tempestandolo di frecce o giavellotti, per preparare l’attacco della cavalleria o della fanteria pesante , o per disorganizzare l’attacco nemico.
Una volta che il nemico è sconfitto è vitale per l’inseguimento, ma fornisce anche copertura all’esercito in ritirata.
Un altro compito importante della cavalleria leggera, specie contro barbari non a loro volta dotati di cavalleria leggera, è di disturbare la loro marcia mediante schermaglie ed imboscate.

Per quanto riguarda la cavalleria pesante, essa è uno strumento versatile, capace sia di azione d’urto contro altra cavalleria o fanteria media o leggera, sia di schermagliare, usando i giavellotti o le corte lance di cui è dotata, contro nemici più pesanti o resistenti.
La tendenza, nel V e VI secolo d.C. sarà quella di avere cavalieri equipaggiati ed addestrati sia con l’arco che con la lancia, atti sia all’urto che al tiro, ma nel IV secolo solo poche unità sono forse dotate di arco.

Esiste poi una cavalleria super pesante, composta di cataphractarii e clibanari, dotati non solo di armatura più estesa per il cavaliere, ma anche di bardatura per il cavallo, e chiaramente orientata all’azione d’urto mediante l’uso della lancia in carica sia contro cavalleria che contro fanteria.
Al di là della non chiara differenza tra l’equipaggiamento dei cataphractarii e clibanari, è chiaro che loro ruolo sul campo di battaglia è offensivo.

Mentre, nel periodo di riferimento, la superiorità della fanteria pesante Romana sul nemico, sia barbaro che Persiano, è evidente, la cavalleria pesante e super pesante Romana non è altrettanto efficace (cfr ad esempio Ammiano Marcellino, Res Gestae, XVI, 12, 37-41; XVIII, 8, 2-3; XXIV, 5, 10; XXV, 1, 7-9) mentre la cavalleria leggera è in generale all’altezza del suo compito.
Dai resoconti di Ammiano vediamo che la cavalleria Romana soffre molto quella Persiana, ed il peso del combattimento ricade quindi sulla fanteria, anche le performance della cavalleria super pesante sono spesso lontani dall’essere accettabili.
In effetti il passaggio da una esercito basato essenzialmente sulla fanteria pesante, ad un esercito in cui il ruolo della cavalleria è preponderante si compirà solo con gli eserciti di Giustiniano, nel VI secolo d.C.; tale trasformazione, iniziata lentamente nel III secolo d.C., continua nel IV e soprattutto, a ritmo più veloce, nel V per poi arrivare a completa maturazione nel VI e VII secolo secolo d.C., con gli eserciti dei Romani d’Oriente.

autore: GIANFRANCO CIMINO

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Di Nicola

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